CONSIGLIO DIRETTIVO ALI DI SCORTA

Ultimo Aggiornamento: 07/04/2013 09:18
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Città: ROMA
Età: 65
Sesso: Maschile
12/07/2009 08:25

IV. Capitolo quarto
4. La mia esperienza di tirocinio

Il mio tirocinio è stato svolto presso l’Associazione “Ali di Scorta” operante, per alcune sue finalità, nel Policlinico “Agostino Gemelli” ed in particolare all’interno del reparto di Neurochirurgia Infantile, dove si offre sostegno psicologico ed emotivo alle famiglie colpite da malattie oncologiche. La scelta di svolgere il tirocinio presso un’organizzazione privata non lucrativa è nata dalla volontà di esplorare la dimensione organizzativa del Terzo Settore, ovvero l’area non istituzionale dei servizi sociali che sopperisce alle carenze dei servizi istituzionali mettendo in primo piano la cooperazione e non la competitività, i bisogni umani e non i profitti.

4.1 Motivazioni ed aspettative

Una mia cara amica lavora presso questa associazione e, già in passato ho collaborato con lei come volontaria in tutte quelle attività di vendita occasionali e iniziative di solidarietà con cui il suddetto ente reperisce introiti per il raggiungimento dei suoi obiettivi. Così, al momento del mio tirocinio mi sono rivolta ad “Ali di Scorta”, anche se non era contenuta nell’elenco delle strutture che accettavano tirocinanti convenzionate con l’Università “La Sapienza”. Mi sono recata personalmente nella sede dell’associazione per un colloquio formale con la psicologa responsabile, che già conoscevo precedentemente, la quale, illustrandomi le attività e gli scopi, nello specifico, dell’intervento psicologico in tale struttura, ha accresciuto in me l’entusiasmo e la convinzione della mia scelta di tirocinio. Dopo una serie di procedure burocratiche universitarie risolte, finalmente la mia richiesta è stata accettata dandomi la possibilità di intraprendere questa nuova esperienza come prima tirocinante pre-lauream di questa struttura.
Quindi, la mia esperienza di tirocinio è iniziata ancor prima dell’inizio vero e proprio nell’ associazione. Da subito sono emerse in me fantasie contraddistinte a volte, da una lieve presunzione pensando di poter finalmente “fare la psicologa” e mettere da parte per un po’ di tempo i libri, altre volte mi assalivano timori sia sulle mie competenze professionali che umane. La mia preparazione psicologica mi sarebbe servita come base per acquisire una maggiore sensibilità e sicurezza nel relazionarmi agli altri e per comprendere alcune delle dinamiche nel bambino malato e la sua famiglia? Più incertezze mi assalivano sul piano emotivo. Infatti, inizialmente ho vissuto il mio tirocinio con un sentimento di ambivalenza: dall’entusiasmo che contraddistingue l’inizio di una nuova esperienza a quel senso di inadeguatezza nell’affrontare compiti non spiegati in nessun manuale e quella paura dovuta al fatto di mettere in gioco me stessa, le mie competenze e le mie emozioni. La mia preoccupazione più grande, era quella di non riuscire a mantenere quella giusta distanza emozionale che mi permettesse di mantenere il mio equilibrio personale; pensavo che sarebbe stata un’esperienza troppo forte per una persona ancora da formare professionalmente. Avevo timore che le mie emozioni mi potessero sfuggire di mano non riuscendo a costruire una corretta forma di equilibrio fra un controllo eccessivo e una mancanza totale di padronanza dell’emozioni stesse. Invece sono arrivata a trovare una stabilità tra le emozioni che scatenavano la mia emozionalità e l’impegno a considerarle oggettivamente, attuando una partecipazione distaccata, che mi ha permesso di non perdere il contatto con il carico di umanità presente nella situazione, senza lasciarmi coinvolgere dal dolore delle persone di cui mi occupavo. Questa “distanza” non è stata sinonimo di “distacco” emotivo ma la via per entrare empaticamente in contatto con la persona, dandomi la possibilità di “immedesimarmi” nel suo stato d’animo senza però lasciarmi sopraffare dalla situazione. Da ciò, ho capito che è proprio dall’emozionalità che bisogna partire per avvicinarsi ed entrare in rapporto con un nuovo contesto, e che tale emozionalità necessita di essere esplorata per trasformarsi in qualcosa da sfruttare per accrescere la propria competenza, riflettendo oltre che sulle proprie aspettative anche su quanto quest’ultime possano essere accolte ed elaborate dal contesto relazionale. La scelta di esercitare il mio tirocinio presso tale organizzazione, oltre che per un interesse vivo per le problematiche sociali, è stata determinata, sicuramente, anche dall’attuarsi di una mia strategia difensiva di contenimento. Oggi, per noi studenti triennalisti di psicologia non è affatto semplice trovare un ente che ci accolga per svolgere il nostro tirocinio: la maggior parte delle organizzazioni accetta solo tirocinanti post-lauream e inoltre le liste di attesa sono molto lunghe. Rivolgermi ad “Ali di Scorta” mi ha permesso sicuramente di ridurre i tempi burocratici ma soprattutto mi ha dato la possibilità di non svolgere un tirocinio “tanto per” in una dimensione adempitiva ma di operare in un ambito del quale nutrivo molto interesse. Proprio questa mia motivazione interna, che mi ha accompagnato nell’arco dei sei mesi, mi ha spinto ad assumere un atteggiamento creativo e dinamico nello svolgimento delle mie attività e a richiedere a me stessa ogni giorno un “qualcosa” in più come processo di crescita sia professionale che personale. L’attuarsi da subito di questo mio comportamento propositivo è stato possibile anche grazie all’ambiente conosciuto ed esplorato già precedentemente. Sapevo già che, al mio arrivo, avrei trovato un ambiente caldo ed accogliente con alcuni punti saldi di riferimento, e questo mi ha dato una spinta iniziale non indifferente.
A posteriori, potrei leggere questa mia condotta secondo alcuni modelli emozionali elaborati da Carli e Paniccia, attraverso cui è possibile fare delle inferenze sulle dinamiche collusive e processi di adattamento tra individuo e contesto (R. Carli, R.M. Paniccia, 2002).
In particolare mi riferisco al modello dentro-fuori. Questa dicotomia indica in vario modo il problema dell’appartenenza e dell’estraneità, di movimenti emozionali che sanciscono affetti rassicuranti, derivanti del “sentirsi con”, dall’essere iscritti entro un gruppo, definito nei suoi confini e funzionante come luogo dell’accettazione emozionale, della gratificazione del bisogno d’affiliazione. Di contro, sentimenti di paura o gratificanti collegati con l’avventurarsi in luoghi, culture, mondi estranei, sconosciuti e quindi impaurenti ed affascinanti al contempo. A volte la dicotomia in analisi indica movimenti agiti, entro le organizzazioni, quali mettere fuori l’estraneità, la diversità al fine di rassicurare i sistemi d’appartenenza (R. Carli, R. M. Paniccia, 2002).
Quindi, ho ricercato una relazione con un ambiente conosciuto in quanto la mia esigenza di sicurezza e controllo, garantito dal sistema d’appartenenza, ha prevalso sulla mia esigenza di conoscenza e curiosità dell’estraneo.
Anche se il contesto mi rassicurava, al tempo stesso, avvertivo la responsabilità di non dover deludere le aspettative delle persone che mi avevano dato piena fiducia. Non che loro attuassero comportamenti in tal senso, ma dato che, oltre ad un legame professionale vi era anche quello affettivo, sentivo ancora di più la necessità di “dimostrare” qualcosa: lo dovevo primo, a me stessa, che dopo diversi anni di studio e sacrifici, mi mettevo finalmente alla prova e poi anche agli altri, che mi avevano dato proprio questa possibilità. Le mie aspettative iniziali erano quelle di inserirmi in un ambiente medico particolarmente intriso di emozioni e di riuscire a svolgere con impegno e validi risultati le attività concordate nel mio iniziale progetto di tironicio, ricoprendo un ruolo che potesse accrescere le mie competenze psicologiche e qualità umane. Inizialmente un aspetto rilevante è stato il fatto di avere un riconoscimento anche esterno che aumentava le mie certezze. Nonostante, la mia psicologa, mi abbia lasciato discreta libertà di agire, sempre sotto una sua supervisione, almeno all’inizio, non ho mai preso iniziative che ritenevo non sapessi gestire. Con l’arrivo dei primi risultati positivi e dalla sensazione e conferma che la mia tutor fosse soddisfatta del mio operato il “peso” delle aspettative degli altri lentamente è diminuito. Ora, posso leggere questo comportamento come paura di sbagliare, dato che, a volte, mi capita di vivere l’errore come un deficit personale piuttosto che come risorsa da sfruttare per migliorarmi; questo mio modo di essere veniva amplificato dal contesto medico con il quale mi rapportavo.
Possiamo, quindi, di nuovo considerare il modello emozionale, già sopra citato, dentro-fuori. Penso di aver usato il “fuori” come processo di riconoscimento interno non annullando il “dentro” ma soffermandomi di più sulle categorie esterne. Il “fuori” veniva rielaborato e portato “dentro” aumentando le mie sicurezze. Ciò mi ha permesso, rimanendo dipendente dal contesto, di attuare un processo di crescita e di leggere in modo diverso il contesto stesso. Queste mie modalità di comportamento si sono attenuate con il passare dei giorni, quando vedevo in me accrescere quella sicurezza e quella competenza psicologica che, solo attraverso l’esperienza del tirocinio, ho preso coscienza di avere. Io stessa, avvertivo di aver intrapreso la strada giusta; questa consapevolezza è stata propedeutica in quanto mi ha dato la spinta a “mettermi in gioco” totalmente dandomi la possibilità di fare quel salto di qualità necessario per la mia crescita professionale. Avendo acquisito più sicurezza, oltre a svolgere le attività accordate, ora, con meno timore mi imbattevo anche in quelle situazioni che inizialmente mi suscitavano preoccupazione.

4.2 Il mio ruolo

La figura del tirocinante pre-laurem è abbastanza recente così come il suo ruolo in contesti applicativi è ancora incerto confondendo le sue competenze spesso con quelle del tirocinante “post-lauream”. Paradossalmente questa differenza di ruoli si evidenzia anche nel momento della richiesta di tirocinio: infatti molti enti prendono nella struttura solo tirocinanti post-lauream associando al titolo di studio l’avere più competenze nonostante oggi con la nuova riforma i tirocinanti pre-lauream abbiano forse più conoscenze pratiche attraverso attività simulate e laboratori svolti nei corsi universitari.
Conoscendo già a priori dall’inizio del mio tirocinio, l’ambiente, così altamente emotivo, a cui mi sarei dovuta rapportare mi sono interrogata su come poter svolgere il mio ruolo di tirocinante pre-lauream. Io sono stata la prima tirocinante pre-lauream dell’Associazione “Ali di Scorta”; proprio per questo motivo con la mia tutor, che fino ad allora aveva avuto solo tirocinanti specializzandi, abbiamo discusso sul mio ruolo all’interno della struttura ospitante e deciso il mio contratto formativo. Abbiamo ritenuto che il mio ruolo dovesse limitarsi al campo dell’osservazione partecipante all’interno di un’area circoscritta quale la sala giochi; osservare le diverse sfaccettature della relazione genitore-bambino, osservatore-bambino, e relazioni amicali tra pari in un momento estremamente critico della vita del bambino, evidenziando aspetti relazionali come legami di attaccamento, capacità di gioco e di distrazione, rassicurazione e preparazione rispetto alle procedure mediche. Decidere insieme su quali potessero essere le mie funzioni è stato molto importante in quanto, tramite il confronto, abbiamo dato corpo ad una serie di considerazioni e di dubbi, che hanno inciso, inizialmente, sulle nostre simili e parallele modalità comportamentali. Infatti, avere una funzione già delineata dalla psicologa ha attenuato le mie perplessità mettendomi in una dimensione di contenimento; ma al tempo stesso, ipotizzo che, anche lei, abbia vissuto questo nostro “accordo” come difesa, dall’assumersi responsabilità maggiori, legittimata dal fatto che, fino a quel momento, non avesse mai collaborato con un tirocinante triennalista e che non conoscesse le mie competenze. L’individuazione della mia funzione all’interno del contesto di tirocinio, quindi, è stata decisa a priori ma è solo attraverso l’esperienza pratica che si è potuta delineare in modo più chiaro e meno confuso raggiungendo la sua completezza al termine dell’esperienza stessa attraverso il lavoro di resocontazione. E’ stato perciò un ruolo dato ma al tempo stesso costruito fino alla fine di questa esperienza. Avere un compito già definito poteva essere interpretato sia come una guida sicura a cui far riferimento nei momenti di incertezza e insicurezza o poteva essere vissuto come un limite oltre il quale non era possibile andare. Ho potuto esplorare entrambi le dimensioni: la prima, all’esordio del mio tirocinio quando era forte quel senso di inadeguatezza e smarrimento, la seconda, invece, verso il termine, quando ormai la sola osservazione sembrava limitare le numerose dimensioni psicologiche che io invece desideravo tanto esplorare. Questi miei vissuti così contrastanti, che a volte si sovrapponevano, non hanno interferito nella risolutezza dei miei compiti ma sono stati occasione di riflessione sul come utilizzare le emozioni in funzione di una crescita sia personale che professionale.

4.3 Attività svolte

Ho svolto osservazioni partecipanti all’interno della sala giochi del reparto mentre le altre due psicologhe specializzande sostenevano colloqui clinici tenendo sotto osservazione un numero specifico di pazienti. Tale differenza di competenza era visibile in quanto ad ogni livello di preparazione veniva affidato un ruolo specifico; ma essendo il nostro lavoro contraddistinto da collaborazione e dialogo, riuscivano, nonostante la diversa formazione, a farmi sentire partecipe del loro operato discutendo insieme dei casi. Analizzando aspetti clinici diversi, attraverso il raffronto, alcune ipotesi psicologiche, da loro pensate, confrontate con i dati che io avevo rilevato, venivano confermate, mentre altre, comunque, arricchite di nuovi particolari.
La mia attività è stata suddivisa in due momenti distinti: il primo può essere identificato con il gioco e l’animazione all’interno della sala-giochi dalle 10.00 della mattina, che è l’ora in cui di solito terminavano le visite di controllo dei medici, fino alle ore 12.30 circa ovvero all’arrivo del pranzo. In questa fase ho osservato il bambino detto “bersaglio” in tutte le sue relazioni che si esprimono attraverso l’attività di gioco. Il gioco rappresenta una valvola di sfogo molto importante, soprattutto durante la malattia e il ricovero: con il gioco il bambino trova la continuità con la sua vita quotidiana e un valido mezzo di socializzazione, che valorizzando la sua parte sana gli restituisce fiducia nelle sue capacità. Il gioco rappresenta il suo modo di rapportarsi al mondo, di esprimere le sue ansie e i suoi timori diminuendo lo stress e favorendo la guarigione in quanto incoraggia il bambino a svolgere attività piacevoli e interessanti anche in ospedale riducendo sia le conseguenze psicologiche, sia i tempi della degenza (Carbonara M.Vittoria, 2000).
Il secondo momento può essere identificato con la riflessione e il confronto sul “caso”. Dopo l’interazione diretta con i bambini, stilavo una mia valutazione utilizzando delle griglie di osservazione ( “Validazione di uno strumento per rilevare le relazioni amicali tra bambini nella prima infanzia” a cura di L. Camaioni, E. Baumgartener e M. Perugini, GIORNALE ITALIANO DI PSICOLOGIA / a. XXV, n 1, marzo 1998.) modificate e riadattate al nuovo contesto.
Con la mia tutor e con le altre due tirocinanti della Scuola di specializzazione della Terapia della Famiglia, spesso ci riunivamo per discutere il “caso” integrando le nostre conoscenze. Tramite il confronto dei diversi livelli di lettura emergono dati che a volte sembrano essere sfuggiti; si sono messi in luce aspetti che prima, forse, non sarebbero mai stati presi in considerazione. Gli incontri rappresentavano anche un momento di riflessione condivisa sulla nostra esperienza nella struttura e le nostre impressioni sulle attività svolte. Il nostro lavoro si è basato quindi su una collaborazione, compensazione ed integrazione delle nostre conoscenze e competenze. Il tutor diventa così il consulente di noi collaboratori; ci aiuta ad ottenere le risorse per svolgere al meglio il nostro lavoro e a risolvere problemi professionali.
Nel contesto medico del mio tirocinio la co-operazione, quindi, è stato un elemento importante. La mia responsabile ogni mattina affiancava l’equipe medica durante le loro visite, venendo così a conoscenza delle varie patologie oncologiche di tutti i bambini. Queste sue conoscenze venivano poi trasmesse a noi tirocinanti, che insieme a lei, cercavamo così di paragonare i dati psicologici, da noi riscontrati, con i dati medici riportati. Io stessa, a volte, chiedevo informazioni specifiche sulle varie neoplasie direttamente al personale medico ma con alcune difficoltà, col il tempo superate, dovute ad un linguaggio altamente tecnico.

4.4 Approccio al dolore

L’aspetto più complicato della relazione psicologo-bambino, secondo la mia esperienza, è stato il contatto con la dimensione del “dolore”. Parlare del dolore dei bambini mi rimane molto difficile perché non riesco ad accettare che questo contamini anche l’infanzia. Spesso ho provato un profondo senso di ingiustizia, quando, quasi ogni giorno, vedevo arrivare un nuovo bambino. In un ospedale pediatrico, infatti, il problema “dolore” si presenta sotto multiformi aspetti che devono trovare una risposta aldilà della semplice somministrazione, peraltro importante, di farmaci analgesici. Perciò risulta necessario un approccio integrato e multidisciplinare che permette di capire, misurare e trattare adeguatamente il fenomeno dolore in tutte le sue forme. Spesso accade che, oltre al dolore fisico vero e proprio, si debba trattare la paura e l’ansia che scaturiscono nel bambino dal semplice ingresso in ospedale. Quindi, oltre alla componente fisica, vanno considerate diverse condizioni di sofferenza psichica dovuti alla paura, ansia e disabilità in senso lato legata all’allontanamento dagli affetti, dall’ambiente familiare e dal gruppo sociale di appartenenza e alla necessità di adattarsi ad un ambiente che non si conosce e ad una realtà nuova e per molti versi negativa (Andrea Messeri, 2000). Guardando la sofferenza altrui è stato molto difficile rimanere impassibile senza avere un coinvolgimento emotivo; infatti, non sono mancati momenti di partecipazione e di commozione. Ma nel momento in cui questi fatti accadevano ero convinta del fatto che, al bambino e ai suoi genitori sarebbe stato utile un atteggiamento contenitivo di incoraggiamento e di fiducia verso la speranza di guarigione che un atteggiamento di commiserazione e pena. In queste occasioni si sperimenta un profondo senso di impotenza e di inutilità perché ci si rende conto dell’impossibilità di intervenire per modificare la situazione. Questi sentimenti sono stati in parte da me razionalizzati arrivando a trovare una stabilità tra le emozioni che scatenavano la mia emozionalità e l’impegno a considerarle oggettivamente. Nonostante in alcune circostanze più critiche non avessi la percezione della mia competenza psicologica come punto di forza, in quanto ancora in formazione, ho utilizzato categorie supportive riuscendo a svolgere un ruolo di contenimento al bambino attraverso il gioco. Infatti, le mie emozioni rispetto al dolore non sono state negate ma contenute e riversate nelle mie attività ricreative, svolte sempre con entusiasmo visto che erano quasi gli unici momenti dove i bambini potevano passare delle ore spensierate e giocare liberamente ripristinando un contatto con la realtà quotidiana. In qualche modo, quindi, il gioco ha rappresentato un rifugio sia per i pazienti stessi, rispetto al proprio dolore e sia per me, quando venivo in contatto con le loro sofferenze.

4.5 Riflessioni sulle relazioni instaurate

Come tirocinante pre-lauream ho stabilito diversi tipi di interazione.
Sia con la mia tutor che con il personale medico, sono riuscita ad instaurare un rapporto di stima, collaborazione, compensazione delle competenze e conoscenze, come già sopra descritto.
In particolare mi soffermerò sul rapporto avuto con gli utenti del servizio ospedaliero in quanto lo ritengo il più interessante e ricco di elementi su cui riflettere.
La relazione con l’utente si è organizzata su due diversi piani: i bambini e i loro genitori. Nonostante io abbia indossato un cartellino dove si rendeva noto il mio ruolo, ai bambini mi sono sempre presentata semplicemente con il mio nome e sono stata per loro, una ragazza che ha svolto animazione all’interno della sala giochi. La maggior parte dei bambini si sono dimostrati entusiasti delle nostre attività all’interno della sala giochi che, al termine della giornata, aspettavano già impazienti il nuovo giorno e mi chiedevano spesso quando sarei tornata per trascorrere insieme altro tempo per giocare. A parte, a volte, un primo impatto di imbarazzo e timidezza, i bambini sono stati molto affettuosi con me; spesso cercavano il mio contatto fisico e la mia approvazione durante alcune attività facendomi sentire un profondo senso di utilità. Questo loro atteggiamento di “ricerca” nei miei confronti mi ha dato un’enorme soddisfazione; vedere che il mio operato poteva servire a qualcuno è stato molto appagante; inoltre interpretavo queste loro manifestazioni d’affetto come un “riscontro” positivo della mia attività accrescendo, ancora di più, in me un forte senso di sicurezza. Ed anche qui riemerge il modello emozionale dentro-fuori (R. Carli, R.M. Paniccia, 2002). Oltre un riconoscimento dalla mia tutor, in questo caso lo ricevevo anche dall’utenza. Le conferme “fuori” venivano trasportate nel mio “dentro” apportandomi certezze.
Nei nostri incontri ho utilizzato il gioco come strumento di terapia visto che, spesso, il bambino ha difficoltà ad esprimere verbalmente le proprie sensazioni. Attraverso tali attività esso esprime le sue ansie ed è quindi proprio il carattere proiettivo dell’attività ludica che mi ha permesso di comprendere ed intervenire sulle sue problematiche.
Infatti, spesso, diventavo la loro “confidente”, alla quale svelare le loro paure, angosce, dubbi su quello che sarebbe successo loro, prima e dopo i vari interventi chirurgici. Alcuni bambini dimostravano di essere a conoscenza dei vari procedimenti medici, altri, arrivavano impreparati e non informati esplicitamente sulla loro condizione adeguandosi alla “regola del silenzio” proposta dai genitori, regola che veniva puntualmente infranta quando trovavano una persona disponibile e aperta al dialogo. In diversi casi ho trovato qualche difficoltà dovendo confrontarmi con la dimensione del “detto e non detto” dei genitori: dovevo capire quale fosse il limite, oltre il quale non andare, per non provocare ansie o altri traumi improvvisi ai piccoli misurando con molta cura le mie parole. Proprio per questo, lo sforzo di noi psicologi è stato quello di agire sulla componente psicologica del dolore e della paura legata alla non conoscenza e quindi all’immaginazione distorta di come e quando questa sofferenza si sarebbe realizzata e terminata. Inoltre, attraverso il gioco è stato possibile far passare al bambino messaggi di fiducia, di comprensione e di contenimento, far loro vivere momenti di gratificazione e valutazione positiva da parte degli altri, conducendolo a poco a poco ad accettare la sua malattia e le difficoltà che questa comporta.
Diverso è stato il rapporto con i genitori. Questi, ai quali mi sono sempre presentata invece come tirocinante pre-lauream di psicologia, hanno avuto reazioni opposte alla mia presenza. Questi loro diversi comportamenti attuati mi causavano un po’ di incertezza nella prima fase di approccio. Alcuni, la maggioranza, hanno dimostrato un atteggiamento aperto alla presenza di una futura psicologa facendo anche domande personali sulla mia attività e percorso di studio, altri hanno assunto un atteggiamento chiuso che si è rispecchiato poi anche nella relazione che sono riuscita ad instaurare con i loro figli.

4.5.1 Il camice

Prima che iniziassi ufficialmente il tirocinio, la mia responsabile, discutendo sul mio progetto formativo, mi invitò ad indossare il camice. Tale scelta è stata determinata dalla necessità di garantire al bambino un ambiente il più possibile sterile per non apportare al suo stato di salute ulteriori complicazioni ma, svolgendo attività ricreative, capitava spesso, che il mio camice si sporcasse non assicurando più criteri di igiene. Vista tale situazione, già nei primi giorni di tirocinio, la mia tutor mi diede la possibilità di non indossarlo più. Questa scelta è stata inizialmente da me condivisa per una comodità di azione; non indossare un grembiule facilitava la mia libertà e agilità di movimenti permettendo di essere meno legata nei miei spostamenti. Inoltre, in quanto non totalmente formata professionalmente come psicologa era un abbigliamento che ancora non sentivo appartenere perchè, proiettata da un contesto teorico ad uno applicativo, non avevo ancora la percezione delle mie competenze psicologiche. Quindi la mia esperienza con il camice è stata molto breve ma riflettendoci a posteriori potrei ipotizzare alcune considerazioni.
Il camice, per antonomasia, è considerato simbolo di un “sapere”. Forse, potrei aver messo in atto una strategia difensiva di negazione: negarlo, appunto, è stato come voler sottolineare di non aver una solida competenza psicologica.
Il camice corrisponde ad un riconoscimento di ruolo, un ruolo che all’inizio del mio tirocinio era molto incerto e confuso e che solo con l’esperienza si è pian piano delineato. Non indossarlo mi permetteva sia, di sentire meno quel senso di responsabilità verso gli altri e anche di stare meno al centro dell’attenzione; ciò potrebbe avermi contenuto.
Inoltre, non indossare il camice, ma un cartellino dove comunque veniva indicata la mia qualifica, mi ha dato l’occasione di osservare il comportamento dell’utenza-genitori in modo più naturale, senza quella barriera comunicativa che il camice avrebbe potuto comportare. Quando mi avvicinavo ad un bambino con il camice, i genitori, soprattutto quelli più ansiosi, subito interferivano nella nostra relazione per assicurarsi chi fossi e quale fosse stata la mia competenza medica come una sorta di “ispezione”; con il solo cartellino questo controllo su di me si è verificato lo stesso, come è giusto che sia, ma con altre modalità. In questa occasione si dimostravano più accoglienti, in quanto meno spaventati, e, chiarita la mia posizione di tirocinante di psicologia, erano, nella maggioranza dei casi, ben disposti al fatto che io giocassi con i loro figli, anche perché più che una psicologa venivo avvertita, per la mia attività, come animatrice o come maestra. Infatti, forse, proprio per questo motivo, riuscivo a far crollare con più facilità le loro difese, ed essendo bisognosi di conforto e di un libero sfogo, in quanto la maggior parte dei genitori tende a nascondere il proprio stato emotivo, mi chiedevano consigli su quale dovesse essere il loro comportamento più giusto da adottare in tale situazione. Nonostante loro avessero questa percezione di me non come tirocinante psicologa, io invece ero cosciente di esserlo; mi avvalevo di questo loro modo di vedermi come difesa, per sperimentare e con il tempo consolidare le mie competenze psicologiche. Inoltre, questa loro immagine, che quindi era quella che io davo, poteva giustificarmi di fronte a mie incertezze e lacune.
Al contrario, con i bambini, indossare o non il camice non ha avuto molto differenza; il mio gioviale modo di pormi, non essendo un medico e non richiedendo loro nessuna prestazione che non fosse una attività di gioco, veniva quasi subito avvertito e un grembiule bianco non rappresentava un’ostacolo alla relazione. Potevo avere addosso questo tipo di abbigliamento, che richiama serietà, rigore e disciplina, ma non mostrare un corrispettivo nel mio comportamento, sia verbale che motorio, viste le mie attività ricreative.

4.6 Strumenti utilizzati

Sono stati numerosi gli strumenti utilizzati durante la mia attività. Abbiamo cercato di creare, all’interno della sala giochi del reparto, un ambiente caldo e accogliente a “misura di bambino” dove svolgere attività ludiche e ricreative. Ho utilizzato il gioco come terapia proponendo varie attività manuali quali origami, pasta di sale, utilizzo creativo della carta, cartone e lana, fogli, stampe, pennarelli, colori e tutto ciò che poteva servire alla creazione di oggetti-gioco e lavoretti. Oltre agli strumenti pratici, ho utilizzato quelle “competenze tecniche” dello psicologo quali la relazione, la condivisione delle attività svolte, l’ascolto, l’empatia, il confronto e delle griglie di osservazione ed elaborazione della valutazione, già prima citate. (Allegati a, b e c). Attraverso l’utilizzazione di quest’ultimo strumento, utilizzato sempre come punto di riferimento per qualsiasi osservazione partecipante, sono riuscita a rilevare diversi aspetti della relazione madre bambino: comportamento motorio del bambino, capacità di stabilire contatti, esplorazione, accettazione limiti, comportamento visivo, comportamento ludico, comportamenti sociali, modalità di contenimento, verbalizzazione, comportamento di fronte a stimoli distonici, situazioni di pericolo; relazioni amicali tra i bambini ed infine la relazione con l’osservatore. Le griglie di osservazione potevano essere lette sia utilizzando una dimensione di verifica e sia di contenimento. Infatti, dovendo essere compilate, potevano essere vissute come prova del mio operato e quindi come controllo da parte della mia responsabile. Invece, personalmente, tali griglie hanno facilitato la rilevazione dei diversi aspetti delle varie relazioni del bambino in quanto mi indicavano cosa avrei dovuto osservare all’interno di un modello di contenimento. Nonostante rientrassero in questa dimensione, però, essendo già date a priori potevano essere interpretate sia come una guida sicura a cui far riferimento nei momenti di incertezza o come un limite oltre il quale non era possibile andare. Utilizzare un’attenzione selettiva mi ha permesso di non disperdere le mie energie focalizzando con sicurezza i punti che dovevo rilevare ma, al tempo stesso, poteva limitare l’osservazione di altri dati psicologici interessanti.


4.7 Caso clinico

Durante il mio tirocinio presso “Ali di Scorta” ho svolto numerose osservazioni partecipanti all’interno di un’area circoscritta quale è la sala giochi cercando di cogliere e osservare le diverse sfaccettature della relazione genitore-bambino, osservatore-bambino e relazioni amicali tra pari durante un periodo molto difficile della vita di un bambino come quello dell’ospedalizzazione e di una grave malattia.
Riporto, di seguito, una relazione di un caso clinico stilata sulla base di griglie di osservazioni (già prima citate), dopo l’incontro con una bambina ricoverata nel reparto, affinché si possa comprendere la mia attività svolta.

4.7.1 Relazione osservatore-bambino (allegato a)

Entro in sala giochi e Claudia sta intorno al tavolo da lavoro vicino alla mamma, con la psicologa ed un altro bambino a dipingere su un foglio. Mette un po’ di colore sparso su un cartoncino bianco che viene ripiegato in due: il colore sembra dar vita a una farfalla. Perde la concentrazione e insieme a me e un altro bambino iniziamo a fare un puzzle di Biancaneve. Riconosce subito il volto di Biancaneve mentre nell’attaccare gli altri pezzi mostra un po’ di difficoltà tanto che viene aiutata sia dalla mamma, che è sempre presente accanto a lei, che dalla sottoscritta. Successivamente, a seguito dell’intromissione nel suo gioco da parte di un altro bambino, Claudia inizia a piangere e si rifugia tra le braccia della madre. Così decido di cambiare attività e di giocare a nascondino. Entusiasta di questa proposta di gioco corre a nascondersi mentre contando mi bendo gli occhi. Faccio finta per diverso tempo di non vedere la bambina e alla fine lei esce dal suo nascondiglio mettendomi paura. Questo gioco occupa un bel po’ della nostra interazione finche’ si passa a giocare con la palla. La madre, Claudia ed io giochiamo a pallavolo fin quando non si unisce a noi il solito amico Gabriele. Riesco a creare un gruppo di gioco anche con i loro genitori ma i bambini bisticciano perché entrambi vogliono la stessa palla gialla nonostante nella sala ce ne sia un’altra uguale di color rosso. Claudia non tollera che nella nostra relazione si intrometta una terza persona: vuole una relazione esclusiva. Ad avere la meglio è Claudia che subito dopo decide di cambiare attività: riprende il foglio fatto all’inizio dell’interazione a forma di farfalla ed insieme, lo ritagliamo e lo attacchiamo ad un filo di spago. La bambina, soddisfatta, corre per la sala facendo volare la farfallina. Con lo stesso metodo facciamo un pipistrello e un fantasmino che, attaccati poi sulla fronte, diventano mascherine. Entrambe, assumendo il ruolo di fantasma e pipistrello, giochiamo a rincorrerci: il pipistrello (Claudia) deve far più paura del fantasma (io) e deve correre più veloce. Queste sono le regole del gioco e quando mi dimostro di essere più veloce di lei la bambina mette il muso e si isola fin quando le sue regole non sono di nuovo rispettate. All’arrivo del pranzo decidiamo di andare nella sua camera rincorrendoci per il corridoio e mettendo “paura” alla gente che sarebbe passata in quel momento. Al letto saluto la bambina chiedendole un bacio; è Claudia questa volta ad accettare la mia richiesta. Mi dà un bacio e mi saluta con la manina. Non assume mai una posizione da spettatore, se non quando, mi richiede attenzione ma soprattutto alla mamma attraverso capricci. Perde spesso la concentrazione e svolge numerose attività che la bambina preferisce fare solo con la madre. Accetta ma non ricerca particolarmente la prossimità; inizialmente, nonostante non fosse la prima volta che giocavamo insieme, mostra un po’ di distacco ma poi soprattutto nell’ultima parte del gioco dimostra anche affetto positivo. Alla fine dell’incontro vengo salutata con un gesto affettuoso anche se su richiesta. Non conversa molto e utilizza un linguaggio semplice. Al termine dell’interazione la madre riflette, davanti a me, se sia giusto accettare tutte le sue richieste di attenzione e accondiscendere sempre ai suoi capricci.

4.7.2 Relazione amicale tra pari (allegato b)

Inizialmente Claudia al tavolo da lavoro svolge un’attività individuale: dipinge su un foglio bianco. In seguito tutte le attività da lei svolte vengono affiancate da un altro bambino di nome Gabriele, più piccolo di lei. Claudia vive ciò come un’invasione del proprio spazio e così i due bambini finiscono per bisticciare e piangere. Infatti si verifica spesso un conflitto per l’oggetto con una risoluzione di questo dove Claudia ha quasi sempre la meglio. All’inizio sembra ricercare la prossimità e la presenza di Gabriele ma poi difende il suo spazio interattivo e deve essere sempre la più brava o la più veloce in tutti i giochi svolti. Ma Gabriele, pur essendo più piccolo, riesce a fronteggiare la situazione tanto che Claudia, ha quasi sempre la meglio, ma con difficoltà e attraverso i capricci. Così a volte la bambina svolge attività parallele a quelle di Gabriele al quale dimostra comunque affetto non assumendo mai una posizione da spettatore. Conversa molto poco e con un linguaggio semplice.

4.7.3 Interazione madre-bambino (allegato c)

La madre è presente per tutto il tempo dell’interazione accanto alla figlia sia nelle attività svolte al tavolo da lavoro e sia nelle attività di movimento. Aiuta Claudia a dipingere una farfallina, a ritagliare degli stampi per creare delle mascherine, a dipingere un foglio bianco pieno di colori e a fare la forma della mano su un foglio. Condivide tutte le attività della figlia; a volte però Claudia sembra mostrare fastidio come se la madre gli negasse comunque la libertà nel modo di colorare e dipingere. Il loro è un legame molto stretto: la bambina, a volte, non svolge nessuna attività se non c’è lei ma quando c’è, qualche volta risente dell’aspetto normativo proposto dalla mamma. La madre la lascia libera di compiere azioni sia sul suo corpo e sia su oggetti. La bambina si muove attivamente e ricerca, anche se non molto, il contatto con il mondo esterno e le persone; la madre consente il movimento e favorisce e stimola il contatto con se stessa, con gli altri e il mondo esterno non delimitando spazi, tempi e modalità di contatto. La bambina esplora con la mamma e in sua presenza; non potrei affermare il contrario in quanto la madre non si è mai allontanata dalla sala. Ho percepito questa relazione un po’ troppo soffocante non dando alla bambina la possibilità di esprimersi liberamente. Claudia non accetta i limiti che la madre le dà. Per sviare da questi limiti utilizza il pianto e i capricci ai quali la mamma risponde accontentando la figlia in tutte le sue richieste. Giocano molto insieme anche se la bambina non è in grado di mantenere un’alta concentrazione e vola tra giochi e giocattoli. Entrambe sono sempre in contatto fisico, verbale e visivo; durante i suoi capricci Claudia compie gesti affettivi come abbracciare la mamma che risponde accogliendo la figlia con carezze, baci e abbracci. La madre assolve alle funzioni di contenimento calmando e rassicurando la figlia nelle situazioni di stress. E’ sempre disponibile nei casi di bisogno sia per le attività didattiche che per quelle mediche che incutono paura e dolore fisico. E’ capace di strutturare un ambiente idoneo; la bambina non parla molto, piange, smette di piangere e utilizza sorrisi e risate. La madre spesso in tutti i suoi comportamenti, soprattutto in quelli dove la bambina fa i capricci, utilizza modalità dolci e comprensive; durante le attività di gioco utilizza invece espressioni verbali di apprezzamento, sorrisi e risate. Si sono verificate diverse situazioni di disturbo alle quali la bambina reagisce con pianto che scompare con l’eliminazione del disagio e con agitazione motoria. La madre riesce a prevedere i bisogni della bambina in modo adeguato essendo in grado di intendere ed eliminare subito il disagio.











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