CONSIGLIO DIRETTIVO ALI DI SCORTA

Ultimo Aggiornamento: 07/04/2013 09:18
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12/07/2009 08:23

3.2.4 Il ruolo dello psicologo e il suo intervento

L’ingresso dello psicologo nella struttura ospedaliera è in Italia un fatto recente che negli ultimi anni ha subito delle modificazioni. Infatti, mentre sino ad alcuni anni fa lo psicologo operava unicamente negli ospedali psichiatrici, oggi la sua opera è richiesta in vari altri reparti: pediatrici, neurologici, ginecologici. In particolare, lo psicologo dell’età evolutiva ha acquistato un ruolo sempre più importante anche perché molte malattie dell’infanzia, un tempo mortali, hanno assunto un decorso cronico. Il ruolo dello psicologo in ospedale non è comunque di facile definizione; sia perché si inserisce in un ambiente dove esistono modalità di lavoro consolidate ormai da molti anni, sia perché la stessa realtà ospedaliera, che mette di fronte alla sofferenza e talvolta alla morte, può essere sconvolgente e coinvolgente anche per gli operatori. E’ perciò necessario che egli conosca la malattia per la quale è richiesto il suo intervento, le caratteristiche e le sofferenze ad esse connesse e che abbia imparato, attraverso una adeguata formazione professionale, a gestire la proprie ansie connesse alla malattia e alla morte (Senatore Pilleri R., Oliverio Ferrarsi A., 1989). In questo tipo di contesto, quindi, il ruolo dello psicologo è di fondamentale importanza sin dal momento iniziale nel quale i medici comunicano la malattia ai genitori. Una delle primarie finalità dello psicologo è quella di contenimento: contenere l’angoscia dei genitori provocata dall’avere un bambino gravemente ammalato, stando con lui e la sua famiglia come accompagnatore in un lungo viaggio che fa dell’incertezza e del buio una regola di vita. A volte è necessario contenere un genitore affinché a sua volta poi riesca a contenere il figlio. Inoltre, lo psicologo, deve garantire al bambino delle relazioni familiari in cui poter esprimere le proprie paure e ricevere rassicurazione e protezione; deve impedire quell’inversione dei ruoli attraverso cui il bambino protegge il genitore; deve ridefinire le relazioni familiari precedenti l’insorgenza della malattia e soprattutto rispettare la specificità del contesto medico in cui si opera, non proponendo né ai pazienti né ai medici, regole di setting psicoterapeutico che snaturerebbero tale contesto. Si ha l’opportunità di accompagnare la famiglia attraverso l’intero iter della malattia che può vedere, dopo la diagnosi: una remissione seguita dalla guarigione, una persistenza della malattia, una o più recidive che comportano nuovi trattamenti che si possono tradurre in trattamenti palliativi di fronte ad un’incurabile progressione della morte. L’atteggiamento dello psicologo, in tale ambito, è quello di una presa in carico dell’intero nucleo familiare, intendendo il supporto psicologico come un servizio integrato nel sistema di cura, ma nel rispetto di quella che si ritiene la relazione fondante, cioè la relazione oncologo-famiglia. La famiglia propone un linguaggio concreto legato alla malattia neoplastica e la possibilità di intervento psicologico risiede nella capacità dell’equipè di uniformarsi a questo linguaggio, rinunciando ad una metodologia specifica di contesti più strettamente psichiatrici. La malattia oncologica del bambino irrompe nella famiglia con una forte carica destrutturante: separa i suoi componenti, altera le linee generazionali, priva i genitori del loro abituale ruolo di guida. Bambino e genitori sono costretti a nuove relazioni e nuove esperienze cariche di angoscia. Proprio per questo, un’altra finalità dell’intervento psicologico è quella di ridefinire le relazioni familiari precedenti l’insorgenza della malattia. Il genitore si può affidare all’equipè psicologica, solo se questa, non è vissuta come un ulteriore elemento di intrusione e di violenza. La domanda di aiuto rivolta dal genitore deve, pertanto, essere raccolta rispettando le modalità e i tempi che il genitore può e vuole scegliere. Questo tipo di approccio consente di accompagnare le famiglie attraverso il tortuoso iter della malattia, e di individuare il processo psicologico vissuto dalla famiglia parallelamente al percorso clinico.
Nell’impostare un intervento di supporto psicologico, secondo P. Paglia e S. Di Giovanni, si deve tenere conto di molte variabili interdipendenti:
• Situazione emotiva dei genitori di fronte alla perdita;
• Situazione emotiva dell’equipè di fronte alla perdita;
• Situazione emotiva del bambino nella relazione con i genitori e nella relazione con l’equipè curante;
• Situazione emotiva del bambino di fronte all’angoscia di morte;
• Situazione emotiva dei fratelli.
In relazione a queste variabili, si riconoscono diverse situazioni ricorrenti; tali punti saranno, a seguito, trattati più nello specifico.
L’equipè può proporre la sospensione dei farmaci curativi in favore di trattamenti palliativi solo se è in grado di accettare ed elaborare il senso di frustrazione ed impotenza, che deriva dalla constatazione del fallimento della cura adottata. Nel caso contrario, l’oncologo continuerà a ricercare in letteratura conferme della validità di una proposta terapeutica, le cui probabilità di risposta si aggirano intorno allo zero.
La possibilità dei genitori di aderire alla scelta medica è legata alla loro personale possibilità di vivere il lutto preparatorio, di poter cioè, disidentificarsi delle cause della morte del bambino e vivere liberi da sensi di colpa. Nel caso contrario, il genitore continuerà a ricercare un prolungamento delle cure che gli consenta un tempo riparatorio, in realtà quasi mai sufficiente a compensare il suo senso di inadeguatezza.
Il senso di morte è presente nella maggior parte dei bambini, sin dai primi anni di età, in tutte le fasi della malattia. La possibilità di superare l’angoscia di morte da parte del bambino risiede essenzialmente nella capacità di contenimento di tale angoscia, manifestato dagli adulti con i quali interagisce in questa fase. Operando una distinzione tra bambino e adolescente, possiamo affermare che il bambino può esprimere e superare l’angoscia legata alla sofferenza fisica ed alla paura per il suo progressivo peggioramento, mettendo in atto quella forma di simbiosi con i genitori, già sperimentata nelle prime tappe della sua esistenza e che lo ha garantito dai pericoli. Solo l’insopprimibile ansia dei genitori lo costringerà ad agire una stessa protettività nei loro confronti, negando la consapevolezza del suo stato. L’adolescente, non potendosi accontentare dei meccanismi difensivi propri dell’infanzia, ha bisogno di rifugiarsi con fiducia nella relazione con l’equipè curante; questa deve mantenere, fino alla fine, la capacità di rapportarsi a lui con chiarezza, attenzione ed estrema disponibilità. Di fronte alla fuga del suo medico, l’adolescente farà un uso abnorme dei reali sintomi esistenti, nel disperato tentativo di creare o di ristabilire con lui quella relazione unica, capace di garantirgli la vivibilità delle incognite future.
Un’attenzione speciale meritano i fratelli del bambino malato che rischiano di essere i “grandi assenti” in questo scenario. I genitori raramente li rendono partecipi dalla malattia dei fratelli per proteggere, almeno loro dal dolore non valutando, che loro potranno in seguito elaborare il lutto, solo se sarà stato concesso a loro, di vivere la perdita senza doverla negare.
La conoscenza di tutte le variabili, il non coinvolgimento diretto della cura e dell’accudimento del bambino, l’equidistanza dai vari sistemi (medici, genitori, bambino) fanno, in teoria, dello psicologo il mediatore ideale nelle situazioni conflittuali o palesemente inadeguate. In realtà, l’alto coinvolgimento emotivo, l’intensità delle relazioni derivante da una presenza quotidiana in reparto, espongono anche l’operatore psicologico ad un alto rischio di collusione con l’uno o con l’altro dei sistemi (P. Paglia, S. Di Giovanni, 2001).
Di fondamentale importanza è, quindi, la relazione medico-paziente. Ma, solo il modello medico della relazione tra un “malato”ed un “esperto della salute”, alla cui base vi è una diagnosi clinica che ha l’obiettivo di rilevare le cause e i meccanismi di insorgenza della malattia, risulta inadeguato rispetto alle richieste di intervento psicologico clinico in ambito oncologico. In questi casi seguire un modello medico di intervento, “diagnosi” e “terapia”, non è possibile perché ciò che viene chiesto non è da considerarsi come una richiesta di cura. Ogni richiesta di intervento psicologico è caratterizzata dalla presenza di alcuni elementi comuni come la relazione, contesto e richiesta. In riferimento a ciò la competenza dello psicologo clinico “si esplica nell’orientare un processo di significazione di specifiche relazioni in specifici contesti, in funzione di specifiche richieste, al fine di produrre conoscenza e in virtù di essa un cambiamento” (Grasso, 2002). Inoltre lo stesso autore, in riferimento al ruolo di psicologo, definisce la competenza psicologico-clinica come “capacità di assumere e analizzare, in specifici contesti, i problemi e la domanda dell’utenza, di progettare interventi e di strutturare setting funzionali allo stesso lavoro di riflessione”(Grasso, 2001).
E’ stato importante, in riferimento a ciò, superare la visione dicotomica medico/psicologo, ovvero procedere verso un’integrazione di entrambi i punti di vista non separando il sapere medico da quello psicologico. In conclusione, la collaborazione tra medici e psicologi deve essere considerata un’occasione di conoscenza, condivisione e riflessione circa l’operare clinico di entrambi gli attori, non solo un aumento del sapere reciproco bensì la co-costruzione di un pensiero sul paziente, sul disagio come sulla salute; un passaggio da una “nomenclatura arroccata” al “dialogo”, inteso come un processo co-creativo che procede secondo una logica di esplorazione, apprendimento e cambiamento reciproco (Tomassoni, Solano, 2003).

3.2.5 Interpretazioni psicodinamiche del gioco

Il gioco e le sue interpretazioni sono parte essenziale delle tecniche psicodinamiche infantili che hanno permesso di approfondire le conoscenze sui meccanismi profondi della psiche nel corso dello sviluppo.
Il gioco fu usato per la prima volta da Sigmund Freud, padre della psicanalisi, nel trattamento del piccolo Hans, un bambino di cinque anni, la cui paura improvvisa dei cavalli preoccupava il padre, amico e paziente di Freud. Egli interpretò il caso nell’ambito delle sue teorie e considerò il gioco spontaneo in cui Hans faceva finta di essere un cavallo, lasciando cadere cavallini, giocattoli e così via, come sintomatico non tanto della paura ispirata da un evento reale, bensì di quelle paure più generali e di quegli adattamenti che il bambino cercava di affrontare e raggiungere nel corso del suo sviluppo. Freud comprese l’importanza del gioco non solo ai fini diagnostici ma anche terapeutici, e tale aspetto emerge dalla famosa descrizione del “gioco del rocchetto” che egli ci dà in “Al di là del principio di piacere” (1920). Egli descrive un bambino di diciotto mesi che fa sparire e riapparire a suo piacimento un rocchetto attaccato ad un filo e che ne saluta la ricomparsa con un allegro “o-o-o”. Freud ha spiegato questo semplice gioco come un tentativo del piccolo di dominare una situazione per lui inquietante, rappresentata dall’ allontanarsi della madre: con il rituale della scomparsa e ricomparsa del rocchetto il bambino, secondo l’autore, immagina di allontanare la mamma da sé e di farla ritornare a suo piacimento. Ripetendo l’esperienza sotto forma di gioco, il piccolo assume una parte “attiva” e diventa, per così dire, padrone della situazione. Dopo Freud, altri autori si sono occupati del gioco nella prospettiva psicoanalitica e, tra i primi, Melanie Klein che iniziò ad applicare la psicoanalisi ai bambini sin dal 1919.
La Klein ritenne il gioco il mezzo principale attraverso il quale il bambino, mediante l’attività simbolica, può “scaricare” e manifestare le sue tensioni ai vari livelli e si servì del gioco per rendere i bambini consapevoli dei loro conflitti emotivi perché, a suo parere, l’unica via che porta alla sparizione dei disturbi psichici è la consapevolezza. Poiché nel gioco il bambino simbolizza desideri, paure, piaceri, conflitti e preoccupazioni, se l’analista gioca con lui può renderlo consapevole delle sue proiezioni e dei suoi vissuti. Compito dell’analista sarà perciò, da prima, quello di capire ciò che il bambino pensa e, successivamente, quello di trovare il modo per comunicarglielo.
Al contrario di Melanie Klein, Anna Freud considerò le interpretazioni date al bambino dall’analista soltanto un aspetto della terapia e ritenne il gioco un mezzo per rieducare il piccolo paziente e per offrirgli la possibilità di sviluppare il senso di autostima e di fiducia in se stesso. Nel suo pensiero, il ruolo educativo svolto dall’analista è infatti il fattore terapeutico più importante per alleviare le ansie del bambino, per poterlo rieducare e renderlo capace di rapporti sociali positivi. A suo parere può essere fuorviante cercare di rintracciare il significato simbolico nelle azioni che il bambino esprime giocando perché non sempre il gioco simboleggia qualcosa che emerge dall’incoscio o che sfugge alla coscienza di colui che gioca. E’ opportuno, per Anna Freud, interpretare e considerare il gioco alla luce della situazione familiare del bambino, delle sue esperienze sia insignificanti che importanti, dei suoi desideri, delle sue paure, delle sue speranze, e servirsi del gioco per ottenere le sua fiducia e la sua confidenza, indispensabili per un buon rapporto terapeutico.
Anche E. H. Erikson, nel tracciare la sua teoria dello sviluppo infantile, dedica ampio spazio al gioco, che considera una forma di psicoterapia spontanea. Egli afferma che il gioco possiede delle caratteristiche compensatorie che permettono al bambino di superare molte delle difficoltà che incontra nel corso del suo sviluppo: è nel gioco infatti che il bambino può realizzare qualsiasi desiderio e che può eseguire con la fantasia ciò che gli è impedito o che non è capace di fare nella vita reale.
Un altro autore di formazione psicoanalitica che ha dato importanza al gioco è D. W. Winnicott. Le sue teorizzazioni sulla funzione ludica quale condizione dell’adattamento umano alla realtà possono essere comprese solo facendo riferimento al suo pensiero sugli “oggetti transizionali”. Il gioco è inteso da Winnicott come uno spazio potenziale o transizionale tra il bambino e la madre, come un’area intermedia che esprime il passaggio dal Sé al non Sé, dal mondo puramente soggettivo all’obiettività. Winnicott ritiene che nel neonato esista già una vita psichica ma che, per potersi estrinsecare e sviluppare adeguatamente, necessiti di una particolare condizione di ipersensibilità da parte della madre, che da prima deve adattarsi completamente ai bisogni del bambino e successivamente deve far sì che il bambino impari pian piano ad adattarsi da sé alle varie frustrazioni che via via incontra. L’oggetto transizionale è per Winnicott il punto di passaggio tra il Sé e il non Sé, tra il simbolo e la cosa simboleggiata e permette pertanto l’acquisizione dell’attività simbolica. Nel corso del tempo, l’oggetto transizionale è soggetto a un “disinvestimento” progressivo, ma il ruolo del primo oggetto transizionale può essere svolto da altri “oggetti” o attività, come l’attività immaginativa o la produzione creativa. Secondo Winnicott è nel giocare, e forse soltanto mentre gioca, che l’individuo, adulto o bambino che sia, è in grado di essere creativo e di fare uso dell’intera personalità, ed è solo nell’essere creativo che l’individuo scopre il vero Sé (R. Senatore Pilleri, A., Oliverio Ferraris, 1989).
Un’attenzione particolare va rivolta al pensiero di Piaget, al quale, dobbiamo una esauriente trattazione basata sulle componenti cognitive e affettive dell’attività ludica che segue le tappe dello sviluppo cognitivo.
Piaget distingue infatti tre tipi di giochi: i giochi d’esercizio, quelli simbolici e quelli di regole.
I giochi d’esercizio iniziano nel periodo sensomotorio e sono caratterizzati da condotte che il bambino compie, dapprima per impadronirsi degli schemi d’azione e, successivamente, per il piacere di agire sulla realtà, di produrre degli effetti, di sentirsi impegnato nei movimenti. Quando il bambino succhia a vuoto per prolungare il piacere di mangiare, egli precorre con questo comportamento il gioco. Si può parlare di gioco vero e proprio quando, una volta imparata una azione, il bambino la ripete per il solo gusto che gli procura. L’attività ludica si realizza, cioè, solo quando il bambino non si preoccupa dell’accomodamento alla realtà e agisce per semplice piacere, senza obiettivi particolari e senza preoccuparsi dei risultati delle sue azioni.
Il gioco simbolico consiste anch’esso nella ricezione di uno schema di comportamento ma, a differenza del gioco d’esercizio, qui il bambino applica i propri schemi motori e vocali non agli oggetti cui sono ordinariamente applicati, ma a oggetti nuovi oppure a situazioni immaginarie. Si tratta cioè di situazioni in cui egli “fa finta” che tali oggetti esistano. Può usare, per esempio, un oggetto simile a un bicchiere e far finta di bere; un bastoncino di legno facendo finta che sia una forchetta. Il gioco simbolico presuppone, quindi, la “capacità rappresentativa” e permette di rivivere e trasformare la realtà secondo i bisogni del bambino e la sua esigenza di divertirsi. Rientrano in questa categoria i giochi delle bambole, degli indiani e cowboys, il gioco dei burattini e quello del dottore. Il gioco simbolico, per queste sue caratteristiche, serve anche a superare certe esperienze negative o che hanno prodotto turbamento o stizza perché qualsiasi fatto di rilievo accada al bambino, egli cerca di riprodurlo nel gioco. A questo proposito, Piaget, 1958, ricordava il caso di suo figlio che, dopo un’accesa discussione con lui, aveva iniziato un gioco di aeroplani durante il quale avvenivano catastrofi e morivano persone illustri; in particolare, moriva un signore che assomigliava sorprendentemente a Piaget.
I giochi di regole compaiono verso i cinque-sei anni. Questi giochi, che coesistono con quelli simbolici e di esercizio, presuppongono le capacità operatorie o logiche, e rapporti basati sulla reciprocità, sull’uguaglianza e sul possesso di alcune competenze di base. I giochi di regole, come i giochi di squadra, la dama, il monopoli e così via, sono quindi il prodotto della realtà collettiva e divengono le forme essenziali del gioco dell’adulto (R. Senatore Pilleri, A., Oliverio Ferraris, 1989).

3.2.6. Terapie collaterali

Sempre più negli ospedali, specialmente nei grandi centri pediatrici, si tenta, con programmi e servizi adeguati, di far sentire i piccoli pazienti “più a casa”, riducendo al massimo i danni prodotti dal ricovero. Già dagli anni ottanta, per esempio, si è data ai genitori la possibilità di rimanere accanto ai propri figli ricoverati ventiquattro ore su ventiquattro; sono entrate negli ospedali associazioni di volontariato, specializzate nell’assistenza al bambino malato ed ai suoi genitori, e le stesse Direzioni Sanitarie hanno richiesto con sempre maggior frequenza l’intervento di operatori ludici e l’istituzione del servizio scolastico all’interno dei presidi sanitari, come sostegno socio-psico-pedagogico per i bambini ospedalizzati. Oggi, in moltissimi ospedali italiani, pediatrici e non, ci sono sezioni di scuola dell’obbligo, perfino di scuola materna la cui importanza sappiamo essere fondamentale in un periodo in cui vanno particolarmente soddisfatti i bisogni affettivi e cognitivi del bambino (Fantone G., 2000).
Tutto ciò in linea ad un principio sostenuto da molti medici ed al quale si affidano molti ospedali, in particolare esteri, secondo il quale la cura del malato spesso non porta alla cura della persona. A questa conclusione si è giunti osservando che i bambini non curati contestualmente e globalmente nel corpo e nella mente corrono il rischio di rimanere vulnerabili e fragili con conseguenti danni psicofisici. Nasce così il convincimento di intervenire prontamente con terapie collaterali alla cura del tumore che siano tali da limitare il danno terapeutico e che hanno l’obiettivo di limitare il dolore, scaricare la tensione nel gioco o nella musica, recuperare abilità perse attraverso una pronta riabilitazione, godere di attività che promuovono distensione, poter curare una nutrizione alterata dalle terapie.
Tra gli interventi più accreditati possiamo citare la musicoterapia, la clownterapia, la terapia del dolore, la terapia nutrizionale, la terapia riabilitativa, la ludoterapia e videoteca (www.iodomani.it).

La musicoterapica. Nella maggior parte dei centri di oncologia pediatrica all’estero è parte integrante della terapia oncologica. E’ una disciplina di medicina alternativa che utilizza la musica (forma di comunicazione non-verbale) come strumento per intervenire sul disagio di persone malate o affette da handicap, agendo soprattutto a livello psicosomatico.
Elemento fondamentale è il rapporto che si stabilisce tra paziente e musicoterapeuta, dove il linguaggio per comunicare è dunque quello della "musica", dove per "musica" s'intende l'intero mondo del suono e cioè: suono e ritmo, suono e movimento, e infine vocalità. Il concetto di musicoterapia come tale si sviluppa solo all'inizio del secolo scorso e seppure non sia ancora annoverata tra le tecniche mediche riconosciute ufficialmente dalla medicina tradizionale, essa diviene un supporto importante ed utilizzata per svariate tipologie di malattie, prevalentemente di origine nervosa.
I principi base della pratica musicoterapeutica sono:
• il paziente è assolutamente parte attiva della terapia;
• la centralità del rapporto di fiducia e l'accettazione incondizionata rispetto al paziente;
• l'adattamento e la personalizzazione della tecnica volta per volta;
• scambio reciproco di proposte tra paziente e musicoterapeuta.
La musica dà alla persona malata la possibilità di esprimere e percepire le proprie emozioni, di mostrare o comunicare i propri sentimenti o stati d'animo attraverso il linguaggio non- verbale.
La clownterapia. Una delle ultime novità portata allo scoperto dall’ormai famoso film “Patch Adams” è la cosiddetta “clownterapia” che si sta diffondendo negli ospedali e reparti pediatrici, e in qualche caso persino nei reparti adulti. Distrarre almeno per qualche ora i piccoli degenti dalle sofferenze fisiche e psichiche mediante “gags”, giochi di mimi, magie, musica, trapianti di cioccolata, costumi colorati e buffi nasi rossi a palloncino può sicuramente dare risultati positivi. Con il loro viso colorato ed indossando bellissimi camici, si divertono a disinfettare le camere dei piccoli degenti con delle bolle di sapone, a costruire mille oggetti e animaletti con i palloncini colorati: hanno sempre qualche nuova magia nelle loro tasche ed annunciano il loro arrivo con il suono di vari strumenti musicali. Tuttavia è importante che questi “terapisti del sorriso” non si limitano a far divertire il bambino, ma sappiano capire quali siano le reali paure e necessità del singolo (Fantone G., 2000).
Terapia del dolore. Particolare attenzione deve essere prestata a questa terapia. Non si può pensare che un “po’ di dolore” possa essere sopportato senza conseguenze. In passato la medicina riteneva che i bambini, avendo un sistema nervoso in formazione, avvertissero il dolore con meno intensità. Oggi, fortunatamente, questa teoria è superata ed alla terapia oncologica si affianca quella del dolore, evitando che altre inutili sofferenze si aggiungano alla già complessa vita del piccolo malato.
La terapia del dolore è rivolta al contenimento del dolore acuto e cronico del bambino; si applica inoltre per la sedazione e per la sofferenza nella fase terminale. Occorre individuare, valutare e misurare i vari livelli del dolore così da definire i protocolli operativi; effettuare interventi di sedazione farmacologia per tutte le procedure o causa di ansia e paura che coinvolgono il bambino ricoverato ed infine proporre, ai bambini e ai loro familiari, interventi con tecniche specifiche di distrazione dal dolore, senza ricorso a farmaci dal rilassamento alla respirazione (ibidem).
Terapia nutrizionale. Nell’oncologia pediatrica un adeguato stato nutrizionale è indispensabile nel bambino malato sia per una migliore risposta alla terapia antitumorale sia per fronteggiare le esigenze nutrizionali richieste dalla crescita fisiologica. Le cause della malnutrizione in oncologia sono molteplici; schematicamente si possono suddividere cause legate alla neoplasia e cause relative al trattamento antineoplastico. Il tumore è causa di malnutrizione in quanto può indurre ipermetabolismo, stimolare fattori circolanti che provocano anoressia e perdita di peso, può provocare un blocco meccanico del transito intestinale. Inoltre la terapia antitumorale è causa di malnutrizione poiché può essere associata a nausea e vomito, stomatite ed esofagite, diarrea, alterazioni del gusto o alterazioni dei normali ritmi dei pasti e del sonno. Si può ipotizzare che anche il cambiamento dei normali ritmi di vita quotidiana, l’aspetto psicologico negativo, il cambiamento del gusto, le alterazioni del metabolismo indotto dai vari trattamenti possono incidere sfavorevolmente sullo stato nutrizionale dei piccoli pazienti oncologici.
Informazioni più approfondite sullo stato nutrizionale dei pazienti in corso di trattamento potrebbero essere utili per intervenire sulla dieta e su eventuali problemi psicologici connessi con la terapia, al fine di migliorare il trattamento terapeutico e di incidere favorevolmente sul processo di crescita e di sviluppo (www.iodomani.it).
Terapia riabilitativa. In oncologia pediatrica sono diversi i casi per i quali occorre far ricorso alla terapia riabilitativa. Le neoplasie cerebrali, infatti, spesso comprimendo radici nervose o vie nervose deputate al movimento muscolare, causano deficit neurologici che vanno da paralisi di un arto a emiparesi o a tetraparesi. Le stesse neoplasie degli arti possono causare una perdita di funzione del segmento interessato per fratture ossee, immobilità dell’arto da sintomatologia dolorosa. La gravità della patologia a volte può costringere il paziente a letto per periodi prolungati causando un’immobilità recuperabile solo attraverso riabilitazioni. Nella terapia riabilitativa il piccolo paziente, assistito da personale qualificato, mobilizza attraverso esercizi compiuti attivamente e passivamente il segmento corporeo interessato. Può essere sottoposto ad applicazioni di terapie effettuate con macchinari specifici quali elettrostimolazione, laserterapia, terapia con ultrasuoni. Tali trattamenti richiedono periodi lunghi di applicazioni per cui spesso proseguono al di fuori del periodo di ospedalizzazione. Nel campo dell’oncologia pediatrica la terapia riabilitativa rappresenta un approccio terapeutico atto a migliorare la qualità di vita del paziente intervenendo su deficit funzionali che limitano la validità della persona (www. iodomani.it).
Ludoterapia e videoteca. Le attività ludiche hanno l’obiettivo di fornire ai piccoli ricoverati uno spazio mentale che consenta di trascorrere il tempo in maniera serena e piacevole cogliendo l’opportunità di esprimere dubbi, riflessioni, preoccupazioni legate all’età ma anche all’esperienza difficile e dolorosa che stanno vivendo. Il gioco si configura come strumento per stabilire una relazione ma principalmente per offrire ascolto. I ricoveri prolungati o ripetuti rischiano di portare il bambino ad una caduta della vivacità e della vitalità che devono essere mantenuti ad uno standard elevato per una migliore reattività, per una risposta più efficace alle terapie e per un rapporto positivo con il sistema ospedaliero. Ne deriva che la “presa in carico” globale del bambino deve tenere conto di tutti questi fattori che non possono essere chiesti all’equipè sanitaria ma sono la premessa affinché anche in ospedale, il bambino non si senta “malato”, non si senta fuori dalla vita “normale”, non abbia un impoverimento dell’autostima. Per distogliere le angosce quotidiane, per mantenere viva l’attenzione e per stimolare la creatività, i reparti sono dotati di giochi intelligenti e di filmati idonei alle singole fasce di età dei piccoli pazienti. La ludoteca e la videoteca sono parte integrante della terapia ludica e devono contribuire a creare momenti di distensione e di fiducia. Dovranno essere costituite e gestite da personale specializzato che, rapportandosi con lo psicologo, raccoglieranno le proposte dei bambini e dovranno guidarli nelle scelte, anche per stimolare i loro interessi che nella fase della malattia rischiano di sopirsi (www.iodomani.it).




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