CONSIGLIO DIRETTIVO ALI DI SCORTA

Ultimo Aggiornamento: 07/04/2013 09:18
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12/07/2009 08:22

3.2.2 Il bambino oncologico e la sua famiglia

A differenza delle affezioni acute, che alterano le abitudini di vita solo temporaneamente, le malattie croniche incidono continuamente sulla vita del paziente e dei suoi familiari comportando problematiche specifiche che interferiscono in misura variabile con la qualità della vita del paziente, le sue aspirazioni e i suoi progetti. Di fronte a una malattia cronica di una certa gravità, l’intera famiglia, oltre allo stress causato dalla diagnosi, deve affrontare una serie di cambiamenti di abitudini che influiscono sui rapporti tra i suoi vari membri.
J. de Ajuriaguerra (1979) parla di un’evoluzione delle reazioni familiari di fronte alla malattia che si articolano in una serie di fasi: il periodo dello shock iniziale, il periodo della lotta contro la malattia e, infine, il lungo periodo di riorganizzazione e di accettazione. Le fasi possono variare per durata e gravità da una famiglia all’altra; lo shock iniziale è estremamente grave e tale da produrre una completa disorganizzazione o in altri casi, invece, è di breve durata e tale da venir superato facilmente (Senatore Pilleri, Oliverio Ferraris, 1989).
Nel momento in cui una diagnosi di malattia oncologica di un bambino irrompe in una famiglia, una gran quantità di meccanismi di difesa si organizzano nel disperato tentativo di “fermare il tempo”, impedendo così, che il divenire della vita porti allo scempio della morte.
Una reazione molto diffusa all’insorgere della malattia è il diniego, che solitamente si manifesta nell’incredulità della diagnosi, nelle critiche al personale sanitario, nella ricerca di una disconferma ai propri tragici timori. E’ proprio il diniego che porta talvolta a pellegrinaggi inutili e stressanti alla ricerca di un parere diagnostico diverso, ed è proprio il diniego che rende più difficile la comunicazione con il medico. Inizialmente il diniego può aiutare a superare il trauma della diagnosi ma se tale atteggiamento si protrae ed è associato ad aggressività e risentimento, esso ostacola l’accettazione della malattia e delle cure (Senatore Pilleri, Oliverio Ferraris, 1989).
Questo “bisogno di negare” non è una caratteristica esclusiva della prima fase di reazione in quanto può manifestarsi in ogni momento del processo adattivo. Per mantenere la speranza e continuare a vivere, afferma Kubler-Ross, non si può affrontare la morte continuamente. E’ importante per chi assiste il paziente comprendere queste apparenti contraddizioni e rispettare in ogni momento, le sue modalità di difesa dall’angoscia (E. Kubler-Ross, 1984).
Al diniego possono essere associati, o far seguito, sentimenti di ansia e depressione, e talvolta sensi di colpa e risentimenti. Il risentimento, solitamente viene diretto contro il personale medico, gli amici, il coniuge e più raramente contro il bambino; i sensi di colpa si evidenziano, in particolare, qualora la malattia sia congenita o ereditaria. Molti genitori si colpevolizzano ritenendosi la causa delle difficoltà del figlio o per non averlo seguito a sufficienza e, come reazione, gli dedicano quasi tutte le loro energie assumendo atteggiamenti iperprotettivi. Talvolta la malattia è sentita come una giusta punizione alla propria inadeguatezza parentale che determina stati di profonda prostrazione e depressione.
Se preesisteva una famiglia serena, tali squilibri possono essere superati più facilmente; tuttavia vi è quasi sempre una fase iniziale piuttosto difficile, non soltanto per gli aspetti emotivi connessi al cambiamento ma anche per le trasformazioni delle abitudini di vita.
Nell’ambito dell’attività clinica con le famiglie che devono confrontarsi con una malattia somatico-cronica, almeno per quanto emerge nella maggior parte della letteratura in merito, l’attenzione sembra sia stata focalizzata per lo più sulla situazione della perdita imminente, quando cioè la morte è ormai un evento certo oppure sull’impatto che perdite non elaborate precedenti hanno sulle dinamiche della vita familiare (Bowlby, 1979). Relativamente poca attenzione sembra sia stata prestata, invece, al “processo di anticipazione della perdita” (Chilman C., Nunnally E., Cox F., 1988), implicita in molte malattie somatiche-croniche e che può essere altrettanto dolorosa e modificante per la famiglia e per l’individuo quanto la morte stessa, sia alla miriade di sentimenti e di transazioni associati a tale processo e al modo in cui interferiranno nel tempo con tutte le dimensioni della vita familiare. L’“anticipazione della perdita” deve essere, infatti, considerata una esperienza ben distinta da quella del “lutto anticipato”. Mentre quest’ultimo si riferisce più strettamente ad emozioni individuali proprie della fase terminale, l’“anticipazione della perdita” è un’esperienza che coinvolge, lungo tutto il corso della malattia, un vasto raggio di emozioni intense e di interazioni complesse che si sviluppano in risposta alle grandi sfide e ai grandi sforzi che l’individuo malato e la sua famiglia si trovano ad affrontare. Essi cominciano a sviluppare una storia di rapporti con la malattia e con tutto ciò che implica, sin dal momento della diagnosi iniziale, situazione in cui tutti gli sforzi sono tesi ad alimentare la speranza e al tempo stesso prepararsi ad una possibile “perdita”, nel senso lato di cui abbiamo accennato, lungo l’intero decorso della malattia. Il momento della comunicazione della diagnosi è un momento altamente emotivo e di grande vulnerabilità; eppure, molto spesso, ancora oggi si tende a trascurare quanto il colloquio con lo staff medico sulla natura della malattia, sulla sua prognosi, sulle prescrizioni da adottare costituiscano un “evento cornice” molto potente per i membri della famiglia. Essi, sia individualmente che come unità familiare, si trovano, spesso all’improvviso, a dover affrontare simultaneamente la perdita della “normalità di vita” che avevano prima della diagnosi e tutte le ulteriori “minacce di perdita” che l’evolvere della malattia presenterà loro nel tempo.
Al momento della comunicazione della diagnosi, si sviluppa uno stato ipervigilante, ansioso o a volte come una sorta di “trance” che rende la famiglia altamente ricettiva a comprendere o a non comprendere i messaggi che vengono rivolti su come destreggiarsi nelle difficoltà e nelle incertezze a cui ci si trova di fronte. E tutto ciò che viene detto, o non decifrato, o lasciato ambiguo da parte dei medici diventa un elemento fortemente critico per il malato e per i suoi familiari. Dovrebbe essere valutata, ma purtroppo ciò accade molto raramente, l’eventuale esistenza di modalità e sistemi di valori e di credo differenti, dal punto di vista etnico-culturale, tra staff medico e famiglia, differenza che, soprattutto nel momento della comunicazione della diagnosi, può indurre a confusione e magari nel tempo, a comportamenti conflittuali e disfunzionali rispetto alla prescrizione di cura. L’esperienze di Chilman e collaboratori, (Chilman C., Nunnally E., Cox F., 1988), hanno evidenziato la necessità di una visione sistemica, complessa nelle sue implicazioni a più livelli, dell’“anticipazione della perdita” lungo l’intero decorso della malattia. Si sviluppa nel tempo, infatti, una mutua influenza delle dinamiche familiari con gli effetti della minaccia di perdita nelle varie persone:
• nel malato rispetto ai propri familiari;
• nei familiari nei confronti del membro malato;
• nel membro malato rispetto a se stesso;
• nei singoli familiari relativamente a se stessi.
Malattie ad andamento recidivante e dall’esito imprevedibile si riacutizzano in modo spesso violento e possono anche causare morti improvvise. Così che, periodi di stabilità o comunque di relativa remissione dei sintomi, alternati a periodi di recrudescenza, fanno sì che i problemi e le angosce relativi all’ “anticipazione della perdita”, oscillino tra l’essere in primo o in secondo piano rispetto all’impatto emotivo che provocano. Le famiglie, sono spesso fortemente provate sia dalla frequenza del passaggio da una situazione di crisi ad una situazione di non crisi e viceversa, sia dall’incertezza relativamente a quando una ulteriore situazione di “minaccia di vita” si potrà ripresentare. Perciò, poiché il timore prevalente riguarda il rischio di una crisi che possa insorgere all’improvviso ed essere letale, spesso le famiglie, per proteggersi dall’angoscia del “potrebbe succedere”, modificano l’organizzazione familiare e livelli di intimità sia tra di loro che con il familiare malato. Si può arrivare anche a situazioni estreme in cui, sempre come difese dell’angoscia, la persona malata diventa, per la sua famiglia, morta dal punto di vista psicologico anche se è invece viva dal punto di vista fisico. Le incertezze riguardo al decorso della malattia spingono spesso le famiglie a riorganizzarsi escludendo il malato, o all’estremo opposto, a minimizzare le esigenze poste dalla malattia e ad aspettarsi, del tutto irrealisticamente, che il familiare malato possa mantenere il ruolo che aveva da sano all’interno della famiglia, oppure ancora a stringersi intorno al malato in un rapporto iperprotettivo che finisce con il limitare le possibili risorse di autonomia. Esistono, quindi, strade diverse, che dipendono anche dal livello di coesione presente nella famiglia e dal suo grado di flessibilità e tolleranza rispetto alle incertezze poste dalla malattia. Nelle situazioni di malattie somatico-croniche gravi vi sono passaggi cruciali che mettono in crisi le organizzazioni familiari precedenti in quanto richiedono cambiamenti a volte fortemente discontinui che impegnano notevolmente le famiglie nel trovare nuove forme di adattamento (Falicov C. J., 1988).
Spesso l’esperienza emozionale delle persone coinvolte fluttua tra sentimenti aspri come la delusione, la rabbia, la disperazione, il senso di colpa ed altri come un intensificato senso dell’intimità, della complicità, della speranza, con un aumentato apprezzamento per gli avvenimenti quotidiani. Tutt’altro che raro è il verificarsi di una grande ambivalenza verso il familiare malato, con forti oscillazioni tra movimenti di avvicinamento e di allontanamento, con fantasie di fuga da una situazione vissuta come insopportabile ed eventuali sensi di colpa collegati a queste fantasie. Specialmente con malattie somatiche croniche che implicano una minaccia di perdita a lungo termine, emozioni complesse possono influenzare nel tempo lo sviluppo delle dinamiche familiari e, proprio nei momenti di passaggio, a cui si accennava prima, la persona malata e i suoi familiari avrebbero bisogno di maggiore aiuto e sostegno (Elliot, 1993).
La figura della madre in rapporto al figlio è stata la più studiata. Ciò è d’altronde comprensibile perché sono in genere le madri a essere maggiormente coinvolte nell’assistenza quotidiana del bambino e a passare più tempo con lui. Sono quasi sempre le madri che accompagnano il figlio dal medico e che partecipano attivamente e praticamente alla gestione della malattia. Diversi autori hanno descritto gli “stadi” attraverso cui le madri passerebbero prima e dopo la diagnosi. Essi sostengono che dapprima vi è la fase dello “shock” o dell’incredulità ( “Non può essere così, hanno sbagliato…”); in seguito vi è un periodo di rabbia e di risentimento ( “E’ colpa dei medici…” , “E’ colpa di mio marito che l’ha trascurato…”); quindi compaiono momenti di autocolpevolezza e di autoaccusa (“ E’ colpa mia…”, “Ho sbagliato”); infine vi è un periodo di tristezza, cui può far seguito ora l’accettazione dell’evenienza ora il persistere di una psicopatologia di tipo depressivo.
Il sostare più o meno a lungo negli stadi indicati è una questione che dipende da vari fattori, spesso di ordine individuale. Le modalità di reazione materna possono essere le più varie e possono andare da una eccessiva sollecitudine al rifiuto, da una considerazione massima per i problemi posti dalla malattia, al disprezzo nei confronti delle indicazioni fornite dal medico. La variabilità di tali reazioni è difficile da spiegare. Alcuni autori danno importanza alla storia di sviluppo delle madri stesse, ai loro rapporti con i genitori, alle loro precedenti esperienze di perdita. Altri danno importanza alla loro situazione attuale, ai loro rapporti con il marito, alle possibilità economiche della famiglia e alla sua struttura. Anche l’età del bambino al momento della diagnosi, la gravità della malattia e la prognosi possono avere, ovviamente, un peso rilevante.
Le conseguenze delle malattie croniche infantili sui padri sono state oggetto di minore attenzione, anche perché molti padri trascorrono parecchie ore lontano da casa e hanno rapporti sporadici con il personale sanitario. In apparenza, molti sembrano più distaccati e meno coinvolti di quanto non siano le madri; in realtà è difficile sostenere questa tesi, perché un certo tipo di educazione impartita agli uomini impedisce loro di verbalizzare il dolore e di mostrare apertamente la loro vulnerabilità. Perciò, se alcuni padri restano marginali, altri collaborano con la moglie nelle cure del figlio malato e altri ancora si fanno carico del problema lasciando alla moglie le incombenze meno pesanti.
La presenza di un bambino malato cronico può creare qualche implicazioni ai fratelli.
J. Vance (1980) ha potuto constatare che parecchi fratelli di bambini con malattie croniche gravi hanno prestazioni scolastiche insoddisfacenti e tendono ad isolarsi e a non avere amici. Nella pratica clinica si incontrano molti fratelli disturbati: l’entità del disturbo non è quasi mai da correlarsi alla gravità della malattia bensì alle relazioni familiari alterate. Particolarmente a rischio sono i bambini con precedenti stress e con relazioni non buone con i loro genitori già prima dell’esordio della malattia (Taylor, 1980). Spesso i fratelli del bambino malato rischiano di essere i “grandi assenti” in questo scenario. Solo raramente essi partecipano alle fasi precedenti della malattia a causa della lontananza, della scuola, delle regole imposte nel reparto. Di fronte alla consapevolezza che il bambino morirà, lo spazio di attenzione rivolta loro dai genitori sembra restringersi ulteriormente. Molti fratelli parlano con sofferenza della scarsità di informazioni ricevute, dell’esclusione dal rapporto diretto con gli altri membri del nucleo familiare, della mancanza di fiducia nei loro confronti, che si traducono in un senso di profondo abbandono. Nonostante alcune sollecitazioni per un più diretto coinvolgimento, i genitori oppongono quasi sempre motivazioni razionalmente molto valide che nascondono in realtà, il desiderio inconscio di risparmiare almeno agli altri figli l’insostenibile dolore che li minaccia (Di Giovanni S., Paglia P., 2001).
La necessità di utilizzare i meccanismi di difesa per antagonizzare l’evolvere del tempo trasforma ben presto l’ariosità e la fluidità delle relazioni familiari, garanti peraltro dei processi di individuazione, in una vera e propria cristallizzazione delle relazioni. Il naturale senso di appartenenza, insito nella famiglia, viene modificato in un sentimento tanto soffocante quanto inevitabile di massificazione delle individualità al suo interno e ogni istanza di fisiologica separazione non può che essere vissuta come presentificazione della morte.
Le relazioni familiari sono mediate esclusivamente dalla malattia e dall’angoscia di morte a questa legata. Ma proprio questa reciproca protettività porta ad una situazione paradossale che vede la fusione come difesa dalla morte e al tempo stesso causa di morte. La protettività, infatti, agisce come potente meccanismo omeostatico nell’evoluzione di un ciclo vitale, proprio perché tende a cristallizzare le relazioni tra gli individui. Tutto ciò si traduce in un’anticipazione paradossale della morte nel tentativo sterile di evitarla: bloccare l’evoluzione del ciclo vitale non è che attualizzare la morte (Di Giovanni S., Paglia P., 2001).

3.2.3 I meccanismi di difesa e informazioni mediche in Nch Infantile

La scoperta di una malattia potenzialmente mortale al proprio figlio induce i genitori a scontrarsi con ciò che precedentemente era impensabile: “mio figlio può morire: perché è capitato a me?”. Spesso nello sforzo di darsi una ragione si cercano i motivi di una sorta di nemesi del fato per qualche precedente colpa. Terapie assunte nel periodo antecedente o contemporaneo alla gravidanza oppure problemi personali o relazionali, ritornano come “scheletri nell’armadio”, come se avesse potuto contaminare la vita del proprio figlio. Il sentimento di “partecipazione” alla malattia del bambino rende questa esperienza doppiamente dolorosa provocando una dispersione nel pozzo del passato di energie che invece sarebbero necessarie per affrontare la malattia (Di Giovanni S., 2003).
La paura della morte conseguente alla consapevolezza della gravità della malattia costituisce una minaccia che viene evitata attraverso meccanismi di difesa. Le difese inducono una sorta di anestesia, per evitare o sopportare il continuo confronto con la morte attraverso una fuga dal piano emotivo e/o cognitivo e dall’agire. Se è impossibile “non sapere”, almeno “non sentire” può apparire istintivamente una via di fuga più accettabile per salvaguardare uno pseudo-equilibrio. Le reazioni emotive dei genitori possono quindi apparire incongrue alla gravità dell’informazione comunicata dal medico. Tali incongruità sono dovute proprio alla messa in atto di meccanismi di difesa, cioè di risposte automatiche di cui spesso si è inconsapevoli. Le difese possono svolgere una funzione adattiva o difensiva secondo la loro gravità, la loro rigidità e il contesto nel quale si verificano (Ibidem).
I meccanismi di difesa agiscono influenzando la rielaborazione dell’informazione del soggetto, tanto da poter distorcere percezioni, falsificare ricordi e bloccare azioni. Trovo necessario soffermarmi su tali difese, qui a seguito riportate, elaborate e descritte dalla psicologa Di Giovanni, esperta nel trattamento dei bambini colpiti da tumori cerebrali infantili. Questi concetti sono caratterizzati da una visione molto specifica e ancorati ad un contesto prettamente oncologico.
Le difese più facilmente riscontrabili in coloro che si trovano di fronte ad una minaccia di vita sono:
• Negazione. Il soggetto nega attivamente che un sentimento, un comportamento o un’intenzione, riguardante il presente o il passato, sia stata o sia presente, anche se l’evidenza afferma il contrario. Questa difesa consente di non ammettere o di non prendere coscienza di un’idea o di un sentimento che si ritiene potrebbe causare conseguenze negative come vergogna, rammarico o altri affetti dolorosi. Il soggetto è del tutto inconsapevole dei pensieri e delle emozioni inerenti alla sua esperienza. E’ proprio il diniego o la negazione ad essere la difesa che compare comunemente in pazienti gravemente malati con una funzione protettiva soprattutto nella prima fase di adattamento alla minaccia di morte. E’ una sorta di facciata che permettere di sopravvivere allontanando da sé la vera percezione dei sentimenti e delle nozioni. Nei genitori sono frequenti, per esempio, minimizzazioni dei deficit o del ritardo cognitivo o motorio del bambino.
• Rimozione. E’ una difesa che protegge il soggetto dalla consapevolezza di ciò che prova o che ha provato in passato. A differenza della negazione dove sia l’idea che l’affetto sono al di fuori della consapevolezza, nella rimozione gli aspetti emotivi sono presenti e percepiti mentre quelli cognitivi restano al di fuori della coscienza. Esempi di rimozione sono lapsus mentre si dice qualcosa che poi si nega o che è l’opposto di ciò che si afferma di voler dire, oppure il dimenticare più volte quanto si sta dicendo nel mezzo di una discussione, dimenticare particolari significativi di eventi traumatici. Nel contesto medico, i genitori possono “dimenticare” i rischi dell’intervento del bambino dei quali sono stati informati con precisione dal chirurgo.
• Dissociazione. L’individuo affronta conflitti emotivi e stress interni o esterni attraverso un’alterazione temporanea del proprio stato psichico o della propria identità, che gli consente di sentirsi meno colpevole o minacciato. Un particolare affetto o impulso vissuto come troppo minaccioso, troppo conflittuale, o troppo ansiogeno viene reso inconscio e contemporaneamente espresso attraverso un’alterazione della coscienza. Nel contesto medico una lunga degenza del proprio figlio, ad esempio, in condizione di coma vigile, obbliga un costante contatto con la paura della morte. Il genitore può parlare della malattia del bambino con “indifferenza”, dando al medico il messaggio affettivo che l’evento in questione sembra quasi non essere stato registrato nel suo significato, pur non negandone l’esistenza.
• Anticipazione. L’uso di questa difesa permette all’individuo di mitigare gli effetti delle tensioni o dei conflitti futuri. Essa implica la capacità di tollerare l’ansia che si manifesta quando il soggetto immagina quanto possa essere angosciante una situazione futura. Attraverso tale prova affettiva, ad esempio, “come mi sentirò quando morirà mio figlio” e la pianificazione delle risposte future, il soggetto diminuisce gli aspetti angoscianti del futuro fattore stressante. Sono i genitori che partecipano attivamente al funerale di un bambino conosciuto durante la malattia, mettendosi al primo banco accanto al genitore del bambino morto.
• Aggressione passiva. E’ caratterizzata dal modo indiretto, velato e passivo con il quale vengono espressi l’ostilità e i sentimenti di rancore nei confronti degli altri. La persona che fa uso di questa difesa ha imparato ad attendersi una punizione, una frustrazione o un rifiuto se esprime bisogni o sentimenti direttamente a qualcuno che ha potere o autorità su di lui. Il soggetto si sente impotente e pieno di risentimento. Le richieste di attenzione, di aiuto, o il desiderio di esprimere sentimenti sono presenti ma non vengono verbalizzati o sono verbalizzati troppo tardi, mentre il risentimento viene espresso tramite l’inettitudine, i ritardi ecc. come mezzo per irritare gli altri. Questo meccanismo di difesa è molto presente nei genitori del bambino malato rispetto alla propria famiglia d’origine. Ci sono genitori che non hanno mai “permesso” loro di ricevere una visita in ospedale anche a seguito di lunghi ricoveri, per poi a tempo debito lamentarsene.
• Scissione. L’individuo affronta conflitti emotivi e stress interni o esterni considerando se stesso o gli altri come completamente buono o completamente cattivi, non riuscendo ad integrare le caratteristiche positive e negative di sé e degli altri in immagini coese; spesso lo stesso individuo sarà alternativamente idealizzato e svalutato. I genitori che adottano tale difesa possono mutare rapidamente l’opinione del proprio medico lodandolo o biasimandolo sulla base di informazioni parziali o incomplete.
• Ipocondria. Comporta l’uso ripetuto di una o più lamentele nelle quali il soggetto chiede apparentemente aiuto. Contemporaneamente, poi, il soggetto, rifiutando suggerimenti, consigli o qualsiasi cosa gli altri gli offrano, esprime sentimenti nascosti di ostilità e risentimento. E’ dunque una difesa contro la rabbia che il soggetto prova ogni volta che sente la necessità di dipendere emotivamente dagli altri. La rabbia sorge dalla convinzione, o spesso dall’esperienza passata, che nessuno soddisferà i suoi bisogni. E’ il tipico soggetto che si lamenta sempre con il medico o inscena una pantomima su tutti i suoi acciacchi fisici eludendo i tentativi di indagare a fondo un disturbo, di affrontarlo e capirlo efficacemente e contemporaneamente si lamenta della mancanza di aiuto. Oppure è il soggetto che si lamenta spontaneamente di come gli altri, medici e/o parenti, non si preoccupino realmente o abbiano di fatto peggiorato il problema, anche quando il suo resoconto dimostra il contrario. In questi casi il medico, dopo aver eseguito un difficile e delicato intervento, verrà investito da tutta una serie di preoccupazioni del genitore su aspetti evidentemente secondari, tralasciando gli importanti risultati raggiunti.
• Fantasia. L’individuo affronta conflitti emotivi e stress passando tempi eccessivi a sognare ad occhi aperti, evitando così le relazioni umane, un agire più diretto ed efficace o la soluzione dei problemi. La fantasia diventa un mezzo per non affrontare o risolvere problemi esterni o per esprimere o soddisfare i propri sentimenti e desideri; permette di ottenere una qualche transitoria e sostitutiva gratificazione fantasticando una soluzione a un conflitto con il mondo reale. Il soggetto, mentre utilizza la fantasia, si sente bene e allontana momentaneamente la convinzione di essere impotente; infatti mentre fantastica può essere attiva la convinzione opposta di essere onnipotente, di poter fare qualsiasi cosa. Nel contesto medico, sono frequenti “innamoramenti” da parte delle bambine nei confronti del medico curante e chiacchierate serali “goliardiche” tra le mamme (Di Giovanni S., 2003).
Il bisogno del genitore è di poter avere un’area di illusione, nella quale e per mezzo di, evitare l’impatto diretto con l’evento della morte. In questa area di illusione parziale coesistono entrambi le componenti: quella che sa che la morte è imminente e quella che si illude di poter avere ancora tempo di vivere e di fare le cose che non ha fatto nel passato. L’area illusionale si pone, quindi, come una delle risorse più valide per mediare con una realtà così drammatica, e al tempo stesso diviene il mezzo con cui un genitore può accettare di identificare le sue risorse, per trascorrere il tempo che rimane al proprio figlio nel modo più costruttivo possibile. L’illusione di essere eterno, quando interagisce costantemente con la realtà, diviene un rifugio consolatorio dalla realtà dell’impotenza e della frustrazione e permette di tollerare la propria reale situazione di perdita. Diviene, di fronte alla morte, un patrimonio di risorse interne ed emotive, che si contrappone all’irreparabile, ovvero la morte nel presente o nel futuro, gli errori, i fallimenti, le colpe, le occasioni perdute, consentendo di dar valore e significato a ciò che di positivo e di possibile esiste anche di fronte alla realtà più tragica (Di Giovanni S., 2003).
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