CONSIGLIO DIRETTIVO ALI DI SCORTA

Ultimo Aggiornamento: 07/04/2013 09:18
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Città: ROMA
Età: 65
Sesso: Maschile
12/07/2009 08:16


Università degli Studi di Roma
“La Sapienza”
Facoltà di Psicologia 1





Tesi di Laurea in Scienze e Tecniche Psicologiche per l’Intervento Clinico
per la Persona, il Gruppo e le Istituzioni




Resoconto
del Tirocinio





Relatore Candidato

Chiar.mo Prof. Grasso Valentina Pellegrini
Matricola 852094




Anno accademico 2005/2006








Ai miei genitori
con immenso affetto




“…morire significa continuare a vivere in chi ci ama”.
Senatore Pilleri, Oliverio Ferraris.













INDICE

Introduzione 1

I. Capitolo primo 3
1. Il resoconto clinico 3
1.1 Definizione di resoconto clinico 3
1.2 Funzioni del resoconto 7
1.3 Modelli del resoconto 9
1.4 Conclusioni 10

II. Capitolo secondo 13
2. Il tumore cerebrale infantile 13
2.1 I tumori cerebrali infantili 13
2.2 I tumori del cervello primitivi e i tumori del cervello secondari 15
2.3 I segni e sintomi più comuni 17
2.3.1 Sintomi dipendenti dalla localizzazione del tumore 18
2.3.2 Cambiamenti della personalità 19
2.4 La diagnosi 19
2.5 I metodi di cura 21
2.5.1 Gli effetti collaterali 23
2.6 La riabilitazione e il follow-up 23

III. Capitolo terzo 25
3. L’Associazione “Ali di Scorta” e l’intervento psicologico 25
3.1 L’Associazione “Ali di Scorta” 25
3.1.1 Oggetto e scopo 25
3.2 Intervento psicologico 28
3.2.1 Il concetto di morte nel bambino 29
3.2.2 Il bambino oncologico e la sua famiglia 32
3.2.3 I meccanismi di difesa e informazioni mediche in Nch. Infantile 39
3.2.4 Il ruolo dello psicologo e il suo intervento 44
3.2.5 Interpretazioni psicodinamiche del gioco 49
3.2.6 Terapie collaterali 53

IV. Capitolo quarto 59
4. La mia esperienza di tirocinio 59
4.1 Motivazioni ed aspettative 59
4.2 Il mio ruolo 63
4.3 Attività svolte 65
4.4 Approccio al dolore 67
4.5 Riflessioni sulle relazioni instaurate 68
4.5.1 Il camice 70
4.6 Strumenti utilizzati 72
4.7 Caso clinico 74
4.7.1 Relazione osservatore-bambino (allegato a) 74
4.7.2 Relazione amicale tra pari (allegato b) 76
4.7.3 Interazione madre-bambino (allegato c) 76
4.7.4 Allegati 78
4.8 Conclusioni 83

Bibliografia…………………………………….……………………………………….85





















Introduzione

La nuova riforma universitaria prevede, per gli studenti di psicologia iscritti a tutti i nuovi corsi di laurea triennali, attivati a partire dall’anno 2001-2002, un periodo di formazione obbligatorio definito tirocinio. Questa attività è stata istituita sulla base di alcune delle seguenti finalità: apprendere procedure collegate a conoscenze psicologiche, integrare le conoscenze teoriche con quelle pratiche ed in particolare iniziare a lavorare in uno specifico setting professionale ed essere capaci di riflettere e di discutere sulle proprie esperienze.
Infatti, il tirocinio diviene lo strumento ufficiale della formazione universitaria dove l’obiettivo è quello di affiancare alla formazione teorica anche quella esercitativa, appunto. Esso è un’esperienza formativa che permette l’acquisizione di una competenza organizzativa che è poi quella che fonda la professionalità psicologico-clinica. Tale competenza organizzativa consente a noi studenti universitari di trasformare l’agito della nostra esperienza formativa in pensiero sulla formazione; un pensiero in grado di dare senso alle dinamiche emozionali, simboliche che la formazione stessa evoca in noi.
Di fondamentale importanza è quindi, l’analisi della propria esperienza formativa che diviene uno spazio di formazione “alla pratica” ovvero l’analisi del proprio modo di vivere l’esperienza istruttiva. Per attuare questo “pensiero” sul tirocinio è necessario che lo studente utilizzi il resoconto, sia come strumento di lavoro che orienta la prassi professionale psicologico-clinico permettendo di individuare quelle categorie psicologico-cliniche attraverso cui leggere la propria esperienza, e sia come spazio di riflessione e confronto.
Personalmente, ho iniziato a riflettere sulla mia esperienza di tirocinio, secondo tale metodo, soltanto nel contesto di tesi considerandolo come un “luogo” di riproduzione della mia esperienza vissuta. E’ infatti attraverso la condivisione e il continuo confronto con chi mi sta seguendo in questo lavoro di resocontazione che sto individuando modelli e categorie per leggere la mia esperienza di tirocinio e proponendo un lavoro di costruzione in alternativa alla passività dell’agito emozionale senza “senso”, senza pensiero. Avendo così, la possibilità di usufruire di tale spazio di riflessione sulla mia esperienza, sono passata da una dimensione adempitiva ad una costruttiva, non vivendo il mio tirocinio solo come agito istituzionale. Nella dimensione di tirocinio costruito intendo la costruzione come modalità di porsi nei confronti del processo, per raggiungere un tirocinio consapevole, partecipato, e del quale si riesca a scorgere la coerenza nei confronti della nuova formazione universitaria. Diventa, quindi, importante in quest’ottica essere committenti del proprio tirocinio; ciò significa non “fare tanto per”, ma porsi una domanda, all’interno di una relazione con un contesto, riflettendo sulla propria posizione, all’interno della nuova funzione del tirocinante triennalista.

In questo mio lavoro di tesi il primo capitolo è dedicato alla definizione del resoconto clinico, alle sue funzioni e ai suoi modelli. In quello successivo tratterò l’argomento della mia tesi, ovvero i tumori cerebrali infantili, secondo un’ottica medica evidenziando i vari tipi di tumori, primitivi e secondari, i sintomi, la diagnosi e i vari metodi di cura. Nel terzo capitolo vi presenterò l’associazione “Ali di Scorta”, ente dove ho svolto il mio tirocinio, soffermandomi sugli aspetti psicologici della malattia oncologica e le finalità dell’intervento psicologico. Infine, nell’ultimo capitolo vi descriverò la mia esperienza di tirocinio proponendo ai lettori, a titolo esplicativo, un caso clinico da me resocontato.
I. Capitolo primo
1. Il resoconto clinico

1.1 Definizione di resoconto clinico

Secondo la lingua italiana il resoconto è una relazione per lo più particolareggiata, finalizzata ad informare il pubblico o un organo superiore. Il termine clinico [dal gr. Klinikè, arte relativa a chi giace a letto (kline)] è un aggettivo relativo alla diagnosi ed al controllo di una malattia. Partendo da una prospettiva psicologica, i termini letti assumono accezioni differenti. L’aggettivo clinico non può essere semplicemente considerato come un equivalente di “medico” ma può essere ricondotto almeno a tre significati:
• un approccio alla realtà basato sul rapporto interpersonale;
• una metodologia di studio della realtà fondata sull’osservazione diretta e sistematica, nei suoi momenti di analisi e sintesi, di vari individui, “al fine di cogliere gli elementi tipici come pure quelli differenziabili”, implicando un lavoro sul campo e l’utilizzazione di una dimensione storica;
• un sistema didattico basato sull’esperienza diretta di una realtà e non sull’uso di modelli artificiali (Grasso M., Lombardo G.P., Pinkus L., 1988).
Il resoconto clinico, quindi, non è una mera enunciazione di fatti di quanto accade nel corso del processo di intervento, quanto piuttosto uno strumento di riflessione e di verifica su quanto operato, che dovrebbe rendere chiari i rapporti tra obiettivi, metodi e risultati raggiunti in una esposizione critica caratterizzata da leggibilità, aderenza alla realtà e ricchezza di dettagli. Esso è un processo conoscitivo, un modo di riflettere che ha lo psicologo di raccontarsi e raccontare gli eventi riportandoli al senso della propria prassi, ad una teoria della tecnica (Montesarchio, Margherita, 1998).
L’uso dei resoconti è un’attività costitutiva dell’iter formativo e professionale di ciascun psicologo clinico; è importante quindi, sottolineare il raccordo tra la tecnica, ossia il momento operativo vero e proprio e la teoria della tecnica, ossia la dimensione teorica di riferimento che si esplica nel produrre un processo di significazione e di riflessione sulla prassi (Grasso, Cordella, Pennella, 2003). Il resoconto permette di costruire una narrazione dando la possibilità a chi racconta, di descrivere un’esperienza e le emozioni ad essa correlate e, a chi ascolta, di dare un nome a queste emozioni e rappresentazioni. Ritengo, quindi, necessario soffermarmi sull’importanza di tale concetto.
La narrazione è una pratica culturale che ha origini molto lontane; un modo attraverso il quale l’uomo è riuscito a dare un senso e un ordine alle vicende umane (Grassi, 2002).
Il termine narrare deriva da una radice, gna-, che significa “render noto”. Il suffisso -zione, inoltre, derivato dal latino actione, trasmette al termine narrazione il tratto semantico dell’agire, espandendo il suo significato fino a comprendere l’azione, il gesto e la situazione relazionale (Arrigoni e Barbieri, 1999). Le storie non sono solo dotate di un testo ma anche e soprattutto di un contesto relazionale e la conoscenza di presupposti culturali. Si delinea così l’importanza del contesto definito come “l’insieme delle relazioni e della loro struttura organizzativa, entro il quale ciascun individuo vive la propria esperienza” (Carli, 1993) e del suo concetto sottostante di collusione, che indica l’insieme delle simbolizzazioni affettive evocate dai differenti partecipanti alla vita sociale e che trova la sua manifestazione naturale nel linguaggio e più propriamente nella cultura e nell’agito sociale. Il contesto evoca quindi la collusione mentre quest’ultima influenza ed orienta il contesto stesso. Si stabilisce quindi, tra collusione e contesto, una circolarità tendente ad orientare dinamicamente la relazione sociale (Montesarchio, Buccoleri, 1999).
Seguendo alcuni autori, si possono distinguere due differenti approcci allo studio dei testi narrativi. Secondo l’approccio contenutistico il testo è considerato una cosa a sé e l’obiettivo è quello di mettere in relazione gli schemi mentali del soggetto con la grammatica del testo; l’approccio contestuale, invece, prende in considerazione gli aspetti situazionali in quanto presuppone che il significato delle narrazioni non può prescindere dalla dimensione relazionale in cui la storia viene narrata (Grassi, 2002).
Il resoconto stesso, quindi, affinché risulti uno strumento di conoscenza non può prescindere dal contesto della prassi clinica e dai suoi obiettivi. Questo concetto si esplica se confrontiamo i resoconti sperimentali da quelli clinici. Mentre i resoconti sperimentali, redatti a prescindere dall’oggetto di ricerca, ripercorrono puntualmente fasi della ricerca rendendone possibile una spiegazione metodica e sistematica, e consentono ad altri ricercatori, date le medesime condizioni, di ripetere la ricerca ottenendo i medesimi risultati, la costruzione dei resoconti clinici, invece, cambia, oltre che in funzione della tecnica applicata anche da un autore all’altro comportando l’esplorazione di aspetti non noti, unici e irripetibili di ogni situazione. Per questo motivo possiamo considerare il resoconto clinico e quello sperimentale, quindi, funzionali a prassi cliniche che si fondano su modelli opposti di azioni (Lancia, 1990).
Alcune ricerche sono giunte a classificare i resoconti clinici secondo due categorie di lettura, assertiva e indagatoria, che si pongono come criteri organizzanti della propria prassi clinica, in riferimento alle due componenti fondamentali dell’azione psicologica-clinica: la teoria e l’evento. Il resoconto clinico riassume in sé queste due componenti e si pone come elemento di mediazione tra le regolarità che fondano l’operare clinico, e cioè le leggi generali che sono astoriche, ripetibili e generalizzabili e le irregolarità trattate dalla psicologia clinica, e cioè i casi clinici che sono irripetibili, storicizzati e contestualizzati (Gandini, Gheduzzi, Montixi, Raggiu, 1990). Nei resoconti assertivi, la situazione clinica presentata conferma un enunciato teorico di partenza precedentemente espresso. Il caso clinico è funzionale ad un’argomentazione teorica o all’esemplificazione di certi concetti. Nei resoconti indagatori il punto di osservazione è l’evento relazionale da cui si parte per ricavare formulazioni generali. A differenziarli è soprattutto la variabilità del contesto che impone un atteggiamento esploratorio non scontato nei confronti dell’esperienza; proprio per questo il resoconto può essere considerato uno strumento prezioso di verifica e conoscenza della prassi clinica solo se lo utilizziamo come modalità di investigazione.
Benchè, scritto e parlato, rappresentino le due facce del linguaggio verbale, presentano diversità notevoli sulle quali credo sia opportuno soffermarmi.
Infatti, vi è una notevole differenza tra il parlato e lo scritto relativo ad un evento clinico. Secondo Stern la capacità di tradurre l’esperienza personale in termini linguistici è compresa in una tappa evolutiva, che egli definisce il Sé narrativo, ovvero la capacità umana di vivere sia nel mondo della realtà e sia in un modo simbolico che aumenta le potenzialità comunicative ed adattive. Esempi di tale capacità sono l’uso del pronome, il comportamento allo specchio e gioco simbolico. Un senso verbale del Sé comincia ad organizzarsi nel bambino già intorno ai 15-18 mesi ma è solo dopo il secondo anno di vita che emergerebbe un vero senso del Sé narrativo, che da la possibilità al bambino di riorganizzare il proprio modo di percepire gli eventi come conseguenza di nuove acquisizioni sia linguistiche che concettuali (Stern, 1985). Seguendo questa concezione troviamo che sono gli schemi narrativi del Sé (SNS) a fornire all’individuo gli strumenti prevalenti per interpretare i dati di realtà e a creare e archiviare le narrazioni sul sé fornendo una cornice dove le esperienze passate acquistano significato e predetermina le azioni future del soggetto. Quest’ultimo concetto si avvicina alla definizione di “pensiero autobiografico” per il quale il soggetto che narra è sia narratore che attore. Il resoconto autobiografico diventa uno strumento privilegiato non solo per rappresentare il proprio passato ma anche per fornire un’anticipazione sul futuro, un modello che guida l’azione (Grassi, 2002).
1.2 Funzioni del resoconto

Il resoconto clinico non è solo una trascrizione acritica di fatti ed azioni ma deve essere inteso come un percorso che, a partire dall’evento, porti in seguito ad una riflessione sulla teoria della tecnica utilizzata durante l’intervento. La capacità di stilare resoconti viene considerata una competenza organizzativa dello psicologo: “capirci qualcosa su cosa sta succedendo e cosa si sta facendo” e non “raccontare quello che è successo” (Carli, 1997, p. 102). Il resoconto clinico, aiutandoci a ricentrare periodicamente la nostra attenzione sull’evento e sui significati di cui è portatore, ci consente di riflettere e poi di lavorare coerentemente sulle dimensioni culturali e contestuali che esso esprime individuando così ogni volta obiettivi differenziati ed adeguati. Analizziamo, dunque, più in dettaglio le funzioni del resoconto in psicologia clinica (Grassi, 2002):

Il resoconto come ragionamento metarappresentativo, rappresenta una sintesi creativa che lo psicologo attua, una sua interpretazione e narrazione personale della realtà. Viene considerato tale in quanto il clinico mette in relazione le proprie emozioni, i propri pensieri con la rappresentazione degli eventi: “chi scrive mette in piazza se stesso” (Gori, 2001). Infatti lo psicologo, ascoltando il paziente, costruisce anche un’immagine di se stesso; egli riflette non solo sui contenuti dell’evento ma anche sul suo modo di porsi in relazione, sull’immagine professionale e personale che di sé trasmette, sulle proprie capacità e difficoltà. Questi aspetti sono componenti fondamentali di quella competenza psicologica che viene definita capacità di essere orientati sull’utenza (Montesarchio, Ponzio, 1998). Per Montesarchio e Margherita, selezionare e rendere rilevanti i fatti all’interno del continuum comunicativo della relazione è una questione di “punti di vista” e “inquadrature”. I primi rispecchiano la posizione dell’autore rispetto a ciò che sta narrando, assumendo una distanza necessaria per poter interpretare i comportamenti di tutti i partecipanti all’azione mentre le seconde permettono di selezionare quegli elementi che si ritengono utili per la narrazione eliminandone altri. In psicologia clinica il resoconto fornisce la possibilità di controllare le proprie azioni e controllarne il controllo. E’ solo lavorando a posteriori sui dati di un resoconto che si viene a creare uno spazio di riflessione sull’esperienza clinica che rende possibile l’istituzione di un processo di comprensione e conoscenza che permette di strutturare l’azione clinica (Gandini, Gheduzzi, Montixi, Raggiu, 1990).

Il resoconto come comunicazione scientifica e verifica dell’intervento costituisce uno strumento di trasmissione di conoscenze, un’attività di scambio, di comunicazione e di verifica del raggiungimento degli obiettivi prefissati. Il resoconto, in quanto elaborazione codificata dell’esperienza relazionale, costituisce la prima forma con cui questa relazione diviene pubblica: esso realizza il tramite fra la dimensione “privata” del setting e quella pubblica della comunità scientifica mediando il rapporto tra la prassi psicologico-clinica e la sua teoria. Attraverso il resoconto si rende soggetta la propria prassi ad una validazione o disconferma da parte della comunità scientifica. Tramite questa funzione pubblica del resoconto è possibile risalire al modo di ragionare dello psicologo in funzione dei suoi interlocutori, i quali, determinano gli obiettivi e forniscono i criteri con cui valutare gli esiti e l’efficacia dello stesso.

Il resoconto come mezzo per apprendere e categorizzare. Nella prassi clinica, comunemente, le dinamiche di appartenenza si esplicano attraverso l’uso da parte degli psicologi di un “set” di tecniche e di modelli concettuali che rinviano alle scuole di cui essi fanno parte. In questi casi il resoconto, si limita a categorizzare l’evento relazionale secondo la teoria e il gruppo di appartenenza del suo estensore rimandando ai processi di identificazione e di identità dello psicologo. In definitiva, il resoconto dovrebbe articolare i rapporti fra le teorie e gli eventi clinici, ponendosi come elemento di intercessione fra le regolarità generali e astoriche delle prime, e le particolarità contestualizzate dei casi clinici (Grassi, 2002).

1.3 Modelli del resoconto

Diversi autori si sono interessati a tale argomento. In particolare, Grassi individua e descrive vari tipi di modelli-base del resoconto (Grassi, 2002):
Il resoconto come memoria storica è ciò che lo psicologo scrive di “getto” utilizzando il linguaggio che più ritiene opportuno (schizzi, fumetti, schemi…). E’ un modello interno del tutto personale in conseguenza al fatto che il livello di strutturazione è molto basso in quanto lo scritto non è concepito per la pubblicazione. Lo psicologo può scegliere di scrivere i fatti in ordine cronologico o di scrivere le idee mano a mano che vengono in mente o di citare solo gli elementi ritenuti più importanti. L’importante è che, riguardando il suo materiale, gli ritorni in mente l’evento e le emozioni ad esso correlate.

Il resoconto come oggetto di supervisione è costituito dalle narrazioni scritte dei casi clinici che lo psicologo porta al supervisore e/o colleghi per confrontarsi e proseguire il lavoro. Anche nel resoconto di supervisione bisogna prestare attenzione allo specifico contesto nel quale si colloca (Gori, 2002) in quanto è possibile che la falsificazione dei dati sia più consapevole. Per questo motivo è necessaria una supervisione delle dinamiche collusive non solo tra il supervisionato e il cliente ma anche tra il supervisore e il supervisionato (Montesarchio , Grasso, 1993).

Il resoconto come comunicazione scientifica è una relazione di un caso clinico ritenuto così significativo da essere pubblicato; solo così la conoscenza scientifica si sviluppa e si consolida. La trascrizione di un racconto dettagliato comporta inevitabilmente la perdita di alcuni dati come il clima emotivo e il non-verbale nel quale si è svolto l’intervento. Per Arrigoni e Barbieri (1998) il resoconto scritto di un caso clinico non è mai, per definizione, una narrazione oggettiva e distaccata in quanto l’analista-scrittore inserisce le sue osservazioni per portare il lettore a condividere le sue impostazioni teoriche.

Il “ report”: il resoconto come relazione tecnica si verifica quando lo psicologo descrive l’operato in funzione di una precisa committenza, tenendo presente che lo stile e il contenuto della narrazione cambieranno a seconda di chi lo leggerà. Ancora una volta è necessario, quindi, sottolineare l’influenza del contesto sulla narrazione. Lo psicologo può stilare report con finalità:
• di giustizia penale o civile (perizie);
• cliniche (analisi della domanda, interventi di formazione);
• amministrative (pensionamenti, rapporti lavorativi).

1.4 Conclusioni

Se l’intento della psicologia clinica è riconducibile a correggere il deficit e a promuovere lo sviluppo, lo strumento essenziale per verificare l’intervento psicologico è il resoconto clinico. Esso consiste nella lettura di ciò che avviene entro l’intervento attraverso categorie che diano senso agli eventi e nello stesso tempo orientino la prassi dello psicologo. Senza resoconto non esiste intervento in quanto non si ha nessuna informazione per intervenire secondo una prospettiva psicologica-clinica (Carli, Paniccia, 2005). Stilare un resoconto clinico sulla mia esperienza formativa di tirocinio mi ha dato la possibilità di individuare, attuando un processo riflessivo, quelle categorie psicologico-cliniche attraverso cui leggere la mia esperienza. Infatti, il resoconto, può essere di fondamentale importanza non solo allo psicologo già inserito nel mondo lavorativo ma anche per noi studenti, ancora in formazione, come saldo punto di riferimento per rileggere a posteriori la nostra esperienza di tirocinio. Ci dà la possibilità di crearci uno spazio di riflessione, di crescita, professionale e personale, e di confronto. Perciò è necessario sottolineare che, nel lungo percorso universitario, oltre ad una formazione prettamente teorica vi è anche una formazione “personale” alla quale ci si arriva analizzando le modalità simbolico-affettive con le quali i differenti studenti “vivono” la propria esperienza universitaria (Carli, 1997). La formazione personale è rappresentata dalla motivazione a fare lo psicologo; è un luogo entro il quale lo studente potrà analizzare la sua dinamica intrapsichica, le sue simbolizzazioni che, stratificate nel suo mondo interno, influenzeranno la sua vita. Gli studenti vivono il proprio apprendimento e la propria partecipazione alla vita dell’università anche entro un processo di simbolizzazione emozionale dello studio e dell’anticipazione professionale. Sarebbe necessario, ai fini di una formazione completa, spostare l’asse motivazionale degli studenti da attese passive di affiliazione e di appartenenza, ad un interesse ad appropriarsi della propria formazione professionalizzante. Tale cambiamento si può ottenere istituendo uno spazio di riflessione sull’esperienza formativa che per me è costituito dall’elaborazione della mia tesi. Questo lavoro di “riflessione su” ha, nell’ambito del rapporto tra studente e contesto formativo universitario, la valenza, al tempo stesso di una formazione personale, formazione personale che consente la costruzione di un’identità professionale. La formazione di uno studente, quindi, dipende sia da una dimensione teorica che una più personale. Con il contributo di entrambe le dimensioni lo studente può arrivare a costruirsi una competenza organizzativa, ovvero quella capacità di pensare e riflettere sulla propria esperienza vissuta. Ed è proprio questo che io, in questo lavoro di resocontazione sto cercando di realizzare. Sono ormai anni che frequento il mondo universitario e che “alimento” con una cerca continuità la mia formazione. Ma, nonostante tutto, è solo durante la mia attività di tirocinio che ho preso coscienza di avere, oltre che delle nozioni teoriche, anche delle competenze psicologiche pratiche. Inoltre, mi sono resa conto dell’importanza dell’apprendimento, sia del “saper fare”(acquisire competenze professionali) che del “saper essere”(acquisire competenze interpersonali) e di come, questo concetto, sia importante per la mia crescita personale.
Ma allora, come formare lo psicologo? Carli, (Carli, 1997), sostiene che lo studente di psicologia, in particolare quello che frequenta il triennio di psicologia clinica, debba farsi committente della propria formazione esercitando una funzione critica nei confronti delle varie proposte formative. La critica concerne, da quello che lo studente si trova a leggere per la preparazione dei suoi esami alle proposte di “formazione personale” che gli vengono proposte. Quindi, lo studente, con tutte le sue forze, deve assumere quella funzione committente della propria formazione che è l’unica via per organizzare la sua futura professionalità ed al contempo contribuire ad un cambiamento utile della Facoltà (ibidem).

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