CONSIGLIO DIRETTIVO ALI DI SCORTA

Ultimo Aggiornamento: 07/04/2013 09:18
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Città: ROMA
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Sesso: Maschile
01/02/2013 19:18

RICOMINCIARE DOPO LA MALATTIA
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Un paziente complesso in ospedale. Dalla diagnosi alla guarigione. L’eventualità della morte
La malattia oncologica comporta sicuramente un'improvvisa interruzione della vita quotidiana a livello
emozionale, cognitivo, sociale. Il paziente è invaso da una netta prevalenza del corpo e del vissuto
corporeo su ogni altra esperienza di vita: sottoposto a una serie di indagini, interventi chirurgici, terapie,
sperimenta attraverso il dolore fisico, la nausea, il vomito, il suo nuovo modo di stare al mondo.
L'esistenza è segnata dai ritmi imposti dai protocolli che seguono tappe precise: la definizione della
diagnosi, l'impostazione terapeutica, la somministrazione dei blocchi terapeutici, il consolidamento fino
allo stop terapia. All’emergenza della prima comunicazione diagnostica, segue come fattore di ulteriore
impatto, in termini razionali ed emotivi, il riferimento alla prognosi.
L’incertezza prognostica cattura qualsiasi risorsa del cuore e della mente. L’eventualità di perdere
un bambino diventa, per il genitore, un dolore del corpo, un insulto immotivato alla genitorialità,
una dichiarazione di incompetenza. Per il paziente quasi adulto la prognosi limita l’orizzonte,
colpevolizza il tentativo di autonomia, ravviva la dipendenza, conflittuale, dagli adulti di
riferimento. Il paziente piccolo avverte la gravità attuale in rapporto al corpo che cambia, allo stile
di vita che si contrae, alle percezioni dolorose che sopporta. Per lui le sensazioni ed i sentimenti
sono ancora i canali comunicativi più efficaci: la sofferenza propria corrisponde a quella stampata
sul viso della mamma e del papà .
“Il fare”, diluisce la tensione e stempera le attese. Perché tutta la famiglia è sopraffatta dalla
dimensione dell’attesa, secondo due estremi: la paura e la speranza.
“Paura di perdere, speranza di acquisire. Rivolte come sono entrambe al futuro, dischiudendo quello
scenario dell’”indeterminato” che la ragione controlla e placa con il calcolo”. (Galimberti, 2006).
Viene attaccato proprio uno dei bisogni primari per l’uomo: il bisogno di sicurezza, la fiducia nella
possibilità di “controllare” gli eventi, di possedere un potere su ciò che accade intorno a sé e dentro
di sé (Carotenuto, 1997).
Diventa quindi fondamentale come l’equipe imposta la propria attività di cura e sostegno alla famiglia e
al paziente, inserendo all’interno del percorso terapeutico una progettualità di lunga durata.
Il piccolo può così essere pensato come persona dentro le proprie relazioni di accudimento che continua il
proprio percorso evolutivo, anche all’interno dell’ambiente ospedaliero.
Il gioco, la scuola, la psicologia esprimono occasioni comunicative normali che segnano il passo verso la
crescita del minore e offrono alla famiglia spazi di riflessione e spunti di contatto col mondo esterno.
 La malattia cronica e mortale in età pediatrica: vissuti psicologici estremi
Il paziente, ancor prima della comunicazione della diagnosi, sembra subire, fin dal primo ricovero, una
regressione nella rappresentazione di sé, dandoci l’immagine di un corpo appiattito dei suoi caratteri
somatici. Aumentano le immagini, che ci fornisce della famiglia, in cui torna a collocarsi di preferenza2
all’interno delle costellazioni familiari, a testimoniare lo spostamento verso la posizione della dipendenza
dagli adulti significativi. Questi segnali compaiono indipendentemente dal fatto che sappia o meno dei
caratteri di cronicità e mortalità della malattia.
L’équipe medico-psicologica è continuamente chiamata a ridefinirsi, in termini dialettici e operativi, a
partire dalla comunicazione della diagnosi che richiede più di una modalità per comunicare la malattia al
paziente; si fornisce il tempo e l’appoggio alla famiglia per trovare insieme il modo che il paziente
predilige per venire a conoscenza delle cose spiacevoli, tenendo in considerazione la sua età, il contesto
socio-culturale, la diagnosi e la prognosi. Di solito è la mamma che racconta la diagnosi, nella maniera in
cui è solita fare per tutte le altre cose della vita. Quando però la famiglia non riesce a dare un senso, un
significato alla patologia, solitamente è un medico dell’equipe che dà informazioni sulla malattia, sulla
terapia, sui tempi e i rischi. Facendo quindi fede non tanto al principio che: “il bambino deve sapere”,
quanto alla considerazione che è meglio dire “ciò che il bambino riesce a capire”, con uno stile che gli è
familiare. Nonostante tutta l'attenzione i bambini si trovano comunque a vivere atmosfere incerte o
paradossali dove ciò che viene detto non trova corrispondenza con ciò che viene sperimentato sul corpo e
sentito nell'intimo.
 La famiglia in ospedale. Una risorsa.
Durante il ricovero di un bambino in ospedale il gruppo familiare è strettamente coinvolto nel
mantenimento della integrità psico-fisica del paziente: il nucleo genitoriale diventa il corpo e la mente che
funzionano al posto del bambino malato, impossibilitato nelle attività consuete, isolato dal contesto
sociale. Tale modalità di funzionamento degli adulti di riferimento, per cui “si fa tutto al posto del
paziente”, se da una parte assicura la continuità delle esperienze vitali del bambino, dall'altra lo espone
allo sguardo altrui, tanto che egli tende a rappresentarsi, nei disegni, con un corpo trasparente, in balia di
eventi incontrollabili. Nell'esperienza ospedaliera pediatrica risulta attuale l’intuizione di Winnicott
secondo la quale alla nostra attenzione non appare mai solo un bambino ma un bambino e la sua mamma,
intesa come ambiente familiare. Quando nella famiglia non siano presenti particolari difficoltà relazionali,
essa si accosta all’équipe fornendo una sorta di protezione al bambino il quale col passare del tempo sarà
sostenuto a stabilirvi anche rapporti diretti e più autonomi, senza cioè la costante mediazione familiare.
Quando invece la famiglia accusa forti problematiche relazionali, può capitare che sia proprio il bambino
il primo interlocutore il quale ci rende possibile collaborare con il resto del nucleo familiare. All'interno
del nucleo genitoriale, solitamente la madre abbandona il lavoro, il padre utilizza permessi, aspettative,
malattia, ferie, mentre i nonni si occupano dei fratelli sani. Rispetto a questo ultimo aspetto per alcuni
anni la famiglia in ospedale si riforma come triade, dove il paziente funziona da figlio unico. L'istituzione
pediatrica tende a muoversi così come fa la famiglia: quando funziona da "buona famiglia" condivide col
nucleo genitoriale la gestione del bambino lasciandola il più possibile autonoma nel preservare la
continuità della cura e dell'igiene personale, nel prelevamento dei parametri come la febbre.
 La continuità del ciclo evolutivo
Al paziente pediatrico, quasi sempre minore, della sua malattia giungono informazioni selezionate,
concordate con le figure di riferimento, perché la comunicazione non sia né carente né eccessiva,
rispettando le tappe del ciclo evolutivo, lasciando sempre un ampio margine di speranza. Gli operatori
tendono ad assumere, di solito, un ruolo educativo nei confronti di quei familiari che, per tutelare il
minore dalla verità, rifiuterebbero ogni forma di comunicazione sulla malattia. In questi casi il non detto
rischierebbe di diventare disarmante e fonte continua di angoscia.
I pazienti adeguatamente preparati ad affrontare la malattia e il ricovero, mobilitano grandi risorse
emozionali e procedono nella crescita cognitivo-comportamentale, in maniera adeguata. Per un periodo
piuttosto prolungato l’attività mentale prevale su quella motoria così che essi spesso sviluppano eccellenti
competenze riflessive.
I contatti mantenuti con l’ambiente di provenienza, anche grazie all’uso delle nuove tecnologie,
permettono di mantenere una discreta disposizione sociale. Il gioco in ospedale consente un continuo
contatto con le fonti più intime di creatività e inventiva. Il sostegno psicologico trova nella relazione3
strumento privilegiato di incoraggiamento. Con la guarigione, per i pazienti che vivono la condizione di
“fuori terapia”, la percezione di sé e del proprio corpo esprime l’interruzione della storia personale:
mancano alcuni pezzi. Il corpo familiare si disloca a catena intorno al paziente per formare un corpo
unico, sostenendolo nella ripresa delle attività quotidiane precedenti la malattia. La differenziazione degli
individui dentro la famiglia diventa un compito impegnativo e ha nella comunicazione il nodo centrale
per la ricomposizione della salute complessiva del nucleo familiare.
 L’avventura della guarigione
Indipendentemente dall’età d’insorgenza della malattia, quando terminano i cicli terapeutici, torna a
funzionare in uno stato di riconquistata indipendenza. Essere “fuori terapia” esprime una serie
complicata di cambiamenti, sentimenti, aspettative, dominata comunque dalla voglia di essere
normali. Finalmente si può tornare a scuola e si possono frequentare gli amici. Finiscono l’incubo
della mascherina portata ovunque, anche dentro casa, l’isolamento dai fratelli, i controlli medici e i
prelievi frequenti. Dell’ospedale si vogliono mantenere i ricordi più creativi, quelli legati alla
concretezza del gioco, delle lezioni, dei compagni di avventura.
 La ricostruzione del senso di sé. I meccanismi di difesa
Nell’intermezzo della malattia, adulti e piccoli della famiglia dispiegano difese, più o meno
consapevoli, per far fronte all’angoscia di separazione e di morte attivata da tale esperienza (Anna
Freud,1967).
Le difese psichiche, quando adeguate, permettono una sorta di adattamento alla realtà: la continuità
del pensiero, della vita interiore, delle relazioni sociali. I più piccoli in età prescolare nascondono
dietro l’irritabilità e l’aggressione l’angoscia di perdere le figure parentali di accudimento, dovendo
far fronte, da soli, ad alcune esperienze quali le manovre tecnico-strumentali, le manovre dolorose. I
pre-adolescenti e gli adolescenti adottano modalità difensive più adulte, quali la razionalizzazione
ma non sono rari comportamenti di ritiro e rifiuto dell’ambiente esterno.
Con il miglioramento delle condizioni cliniche i soggetti, dapprima congelati, riprendono a
“funzionare”, migliora la loro partecipazione al progetto di cura, quanto più la cura prevede
occasioni di confronto e contatto con l’operatore. La guarigione decreta la possibilità di usare meno
strutture di difesa; col tempo bambini e adolescenti si concedono occasioni di apertura alle relazioni
sociali che confermano il passaggio alla normalità.
 I fratelli
Lungo il percorso della malattia i fratelli e le sorelle del paziente oncologico emergono solo
gradualmente dallo sfondo familiare, comparendo nel racconto dei genitori quando iniziano a
manifestare una serie di vissuti inaspettati. Durante le prime fasi dell'iter diagnostico e terapeutico
al malato oncologico di età pediatrica, infatti, il fratello quasi scompare dalle cure parentali,
concentrate invece a proteggere il paziente nel momento del ricovero, nei suoi moti di paura e di
sconforto. il fratello tende a razionalizzare la differenza di trattamento in cui il malato risulta
preferito, sia per la reale preoccupazione che nutre nei suoi confronti, sia perché questo corrisponde
ad una necessità dei genitori.
La consapevolezza che la malattia possa essere determinata da fattori genetici o ambientali scatena
poi la forte paura di poter essere colpiti dallo stesso male. Non meno evidente può esserci la
vergogna nel dover comunicare fuori dalla famiglia l'esperienza di malattia. Comunque forti sono il
dolore e il
senso di perdita nei confronti dell'opportunità di avere un fratello senza problemi (3). Quando a tali
temi affianchiamo il timore rispetto all'eventualità che la malattia non solo possa durare molto ma
che sia anche mortale, tutte le fantasie che un fratello può aver nutrito acquistano un senso di4
estrema e drammatica concretezza. Tutto diventa "vero, anche la colpa, la cattiveria, l'aggressività
solo fantasticate. I fratelli sviluppano modalità difensive, di sopravvivenza psicologica
all'emergenza di tali e tanti timori e giungono alla nostra osservazione solitamente quando il fratello
malato sospende la terapia, perché clinicamente guarito.
In questa fase la famiglia sembra più portata a pensarsi in termini progettuali tanto da rendersi
disponibile a raccogliere richieste di aiuto che non abbiano a che fare col tema della sopravvivenza.
ed il fratello sano inizia a dare spazio ai propri vissuti perché maggiore è la possibilità di trovare
accoglimento. Le sue difficoltà sono per lo più comportamentali (irritabilità a scuola, aggressività
verso i genitori) o di tipo psicosomatico (enuresi, insonnia, dermatosi). Il fratello/sorella pare
scegliere, inconsapevolmente, proprio una comunicazione che passa per il corpo, con tutto un corteo
di sintomi psicosomatici, forse ritenendo che, solo da malato, potrebbe interessare la mamma o il
papà.
Invitati a disegnare una famiglia, i soggetti sani collocano il fratello malato in una posizione
privilegiata, tra il papà e la mamma, mentre il più delle volte tendono ad eliminare se stessi. Quando
si chiede loro di spiegare la rappresentazione grafica dicono che il fratellino è in mezzo perché
sempre malato e quindi bisognoso di attenzione; manca la propria figura, confinata in un'altra
stanza, che non compare.
Non senza una punta di avidità di amore familiare il bambino appena ospedalizzato tende a
cancellare, durante i suoi primi ricoveri, i veri fratelli o sorelle dal disegno che dà della famiglia,
mettendosi al centro della rappresentazione, come "appeso" tra mamma e papà.
La tendenza comune al gruppo dei fratelli collude inoltre con l'isolamento nel quale la famiglia
confina il figlio sano come se "escluso", per il timore della contaminazione, corrispondesse a
"salvo".
Diverso è il percorso emozionale del fratello che è anche donatore di midollo osseo. In questo caso
il suo coinvolgimento nella storia familiare è più importante, svolgendo un ruolo ben preciso che lo
vede protagonista insieme al fratello malato. Vivendo infatti in minor misura in uno stato di
isolamento, grazie ad un evento concreto quale è la donazione, il fratello riesce a risolvere
positivamente una serie di tensioni emotive legate alla fratria - rabbia, competizione, invidia -,
complicate dall'evento malattia, potendo contemporaneamente usufruire di sentimenti genitoriali
come la gratitudine e la riconoscenza. Inoltre l'immaginario terrifico intorno alla malattia si
ridimensiona proprio perché la si vede da vicino e se ne determina, in parte, l'andamento.
 La possibilità di diluire l’angoscia, attraverso spazi di condivisione.
La comunicazione tra genitori, tra genitori e operatori, risente di forti ondate emozionali che ruotano
intorno al tema della morte. I vissuti di disperazione e di impotenza rischiano di saturare le capacità
creative e progettuali degli adulti, complicando il difficile compito dell'accudimento e della cura del
bambino oncologico. La proposta di offrire uno spazio gruppale ai genitori è stata vissuta con l'aspettativa
di assicurare un momento di ascolto dei sentimenti delle figure parentali per diventare poi occasione di
riflessione per l'équipe. Tale esperienza riguarda la conduzione di gruppi aperti coi genitori dei pazienti
ricoverati presso la clinica, nata con lo scopo di fornire loro contenimento e sostegno. La discontinuità
delle presenze dei partecipanti ha creato difficoltà nello stabilirsi di una storia comune del gruppo, mentre
l'angoscia genitoriale ha prodotto reazioni di rabbia, moti di invidia e il timore che le parole potessero
contaminare ogni cosa.
La paura della "contaminazione da dolore" è forse la forza anti-gruppale più evidente in queste condizioni
che impedisce a molti genitori di partecipare al gruppo terapeutico: la condivisione di esperienze così
estreme e coinvolgenti può scatenare infatti la preoccupazione che, parlandone, la sofferenza possa
amplificarsi. Tale convinzione poggia su meccanismi difensivi di scissione ed isolamento di vissuti
d'angoscia concernenti la possibilità di separazione, i quali vengono come incistati nella storia psichica e
relazionale della famiglia fino alla completa negazione.5
Il gruppo terapeutico tende a sviluppare processi di pensiero intorno agli eventi, interni ed esterni, anche
se avvertiti come distruttivi, al fine di renderli comunicabili, comprensibili e creativamente utilizzabili.
La partecipazione al gruppo quando prevalentemente materna esprime la possibilità di poter pensare sui
sentimenti e sugli eventi, la tendenza cioè a funzionare secondo il codice materno; la figura paterna,
quando presente, tende invece a "tenere sotto silenzio" il proprio dolore per assicurare un buon
contenimento alla madre che, a sua volta, più intimamente accoglie il figlio. I padri sono quelli, inoltre,
che riescono tuttavia a rivolgere uno sguardo verso il mondo sociale esprimendo sentimenti come la
vergogna, il confronto, la competizione. La tendenza al "segreto" si palesa comunque all'interno della
coppia rispetto al tema di "cosa dire" della malattia al paziente ( la comunicazione della diagnosi
).Durante il percorso terapeutico è estremamente difficile, per i genitori, articolare sentimenti di speranza.
Il tempo è coartato intorno al presente, il futuro appare pericoloso o incerto. Il passaggio alla
“sospensione della terapia” viene temuto come sospensione-separazione dal contesto di cura che eroga
meno controlli e terapie. L’angoscia dilaga e invade ogni attività mentale degli adulti i quali esprimono
maggiore bisogno di sostegno psicologico.
La guarigione propriamente detta, anche psicologica si verifica nel corso di numerosi anni: mentre i
pazienti fronteggiano il futuro con notevoli chances vitali, madri e padri sono mentalmente imbrigliati
nella risoluzione di vissuti che hanno a che vedere, anche durante la risoluzione di malattia, col lutto.
 Eventi drammatici
La morte di un bambino o di un adolescente, colpisce la famiglia e la rete sociale a cui
appartengono, come una ferita insostenibile dal punto di vista mentale. Quando questo succede il
tempo e lo spazio si dileguano, la famiglia permane in una sorta di ottundimento cognitivo ed
affettivo. Si perdono le motivazioni di rimanere nel mondo o le si limita alla presenza dei fratelli e
delle sorelle del paziente scomparso.
La memoria diventa allora l’unica strada percorribile per mantenere in vita ciò resta della persona
amata, ogni azione, ogni pensiero, hanno l’obiettivo di mantenere un legame, oltre la morte.
Gli operatori che hanno accompagnato il paziente nelle ultime fasi della propria vita, vengono
percepiti dalla famiglia come custodi preziosi, testimoni di una tappa importante, coi quali si
continua a condividere, anche successivamente, pensieri e riflessioni.
Conclusioni . La complessità dell'esperienza di malattia del paziente pediatrico con tumore rende
ragione dell'attenzione crescente richiesta agli operatori (medici infermieri, psicologi, insegnanti,
volontari) nel considerarne lo stato di salute psico-fisico, comprensivo cioè oltre che degli aspetti fisici
anche di quelli psicologici e relazionali. Il paziente pediatrico, infatti, per lo stato di dipendenza a cui è
sottoposto e per la dinamicità del proprio percorso evolutivo, non può che essere costantemente visto
all'interno di una rete di rapporti (familiari, tra pari), con tutto il patrimonio di potenzialità, emozionali
e cognitive, tipiche degli individui in fase di crescita. La condizione della malattia, caratterizzata in
questo caso, tra l'altro, dallo stato di cronicità e di possibile mortalità, complica tali delicati momenti
evolutivi di vissuti centrati sull'angoscia di separazione e di morte, che richiedono maggiore
disponibilità degli adulti alla conoscenza e comprensione. Tutti gli operatori, a qualsiasi livello
svolgano la propria attività, all'interno di un lavoro di équipe, tendono a coordinare i compiti e le
aspettative propri con quelli dei colleghi e collaboratori più prossimi, mirando all'individuazione di
progetti medici, psicologici, didattici, ludici, centrati sulla persona.
Ogni bambino viene cioè riconosciuto nella sua unicità e per lui vengono pensati e successivamente
attuati progetti di cura individualizzati che lo possano sostenere nella crescita, fino ed oltre la
guarigione clinica.
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