CONSIGLIO DIRETTIVO ALI DI SCORTA

Ultimo Aggiornamento: 07/04/2013 09:18
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26/04/2009 20:25

TORNEO SAVIO CALCIO

E' stato un grande successo il torneo effettuato al savio calcio in onore di ALI DI SCORTA .

Grandi organizzatori sono stati il duo del savio Prof. Guerra e il resp. scuola calcio Puro ; tutto si è svolto nel miglior modo possibile ed i bambini e le squadre si sono divertiti un mondo .

Gran risalto e' stato dedicato a noi di ali di scorta ed i volantini e i bolletini sono stati presi d'assalto dalle persone presenti .

Bella mostra di se' facevano i nostri striscioni nei campi da gioco .

Le squadre partecipanti alla fine sono state le seguenti :

-savio
-pro roma
-calcio federale
-de rossi
-villa gordiani antel
-tanas casalotti
-kolbe
-tibur

Alla premiazione , che vedeva premiati alla pari tutte le societa' partecipanti,erano presenti il presidente del 6 municipio,due assessori comunali,un assessore regionale ed altri personaggi di spessore .

ALI DI SCORTA in questa occasione , con la presenza dei suoi paladini , Agostino-Mauro-Enzo-Marco-Pina , ha avuto una visibilita' ed un interesse della gente enorme e specialmente in una zona di Roma , quella Sud,dove sicuramente i piu' non sapevano della propria esistenza .

Un grazie al Savio calcio per averci annoverato fra le ONLUS amiche e di averci fatto questo grande,grande regalo .

Un grazie alle societa' partecipati ed ai loro tesserati , nonche' genitori e parenti presenti .

Grazie anche da parte dei ns/vs bambini malati e dei loro genitori , che ancora oggi vedono in pericolo la propria esistenza , ma che con questo affetto si sentono piu' protetti ed amati .






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02/05/2009 18:41

ALI DI SCORTA A SORA CON IL CICLISMO.......

Il 1 maggio 2009 ali di scorta e' intervenuta a Sora alla corsa ciclistica della cittadina del basso Lazio .
Da anni siamo chiamati in questa classica per dilettanti ; ogni ciclista depone per noi un piccolo contributo per porci alla volata....del sostegno per questa organizzazione ONLUS verso le famiglie bisognose dei bambini malati .
Giornata di sole , appassionati numerosi , voglia di beneficenza tanta ............ che chiedere di piu' ??
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03/05/2009 08:14

MANIFESTAZIONE CICLISTICA " CIOCIARISSIMA" PER ALI DI SCORTA


Da: agostinomz@virgilio.it




Oggetto: I: manifestazione 1°di maggio







si comunica,per opportuna conoscenza,che la manifestazione in oggetto
si è svolta nel modo migliore possibile con la consueta dedizione degli
amici di sora coinvolti da Serena e Maurizio.
Per ali di scorta di roma
erano presenti agostino e costanzo .
agostino

----Messaggio
originale----
Da: baldassarra.serena@fastwebnet.it
Data: 29-apr-2009
21.24

Ogg: manifestazione 1°di maggio

Carissimi
amici, anche quest'anno, in occasione della Ciociarissima, saremo in p
iazza con ALI DI SCORTA. Associazione che molti di voi conoscono, e
sanno quanto
grande è stata con noi e con i nostri piccolini.
Anche
quest'anno ti invito ad "aiutarci ad aiutare"...
Quei bimbi hanno
bisogno anche di te...
Hanno bisogno di un pò di "sole", dona un pezzo
del tuo sole...
Se hai bimbi, poi, dai loro un foglio e tanti colori...
sapranno con i loro dise
gni colorare le stanze di quei bimbi!!! Tutti,
anche i più piccoli possono contr
ibuire all'amore!

Ti aspetto!!!
Serena

Visita il sito www.alidiscorta.it per saperne di più








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17/05/2009 01:05

VERSA IL 5XMILLE AD ALI DI SCORTA

Versa il tuo 5xmille a favore di ali di scorta.................
Con il tuo contributo aiuterai l'organizzazione onlus nella lotta alle malformazioni e tumori in eta' pediatrica .
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Post: 6.689
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24/05/2009 13:09

NON SEMPRE SUCCEDEDE QUELLO CHE CI PREFIGGIAMO..........


Oggetto: la piccola Giada Ricevuto il: 24/05/09 11:40






Nelle ultime settimane,dopo l'operazione, la piccola Giada era alla TIP,
i genitori della piccola erano ospiti della casa di ali di scorta,
qualche giorno fa' hanno chiesto di utilizzare anche un'altra stanza...
pensavano ad un intervento difficilissimo a Zurigo .......
Ieri la
mamma Lucia ha comunicato la morte di Giada e l'avvenuta predispozione,
da parte di parenti, di quanto necessario per il rientro a Catania .


=======================================================

Penso sia opportuna/doverosa una lettera al papà
e alla mamma ( hanno altri due figli) come in altre occasioni.

Giovanna

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Post: 6.689
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30/05/2009 00:20

AIUTIAMOLI........................


Da: segreteria@alidiscorta.it



Oggetto: Fwd: I: aiutateci Ricevuto il: 25/05/09 23:08






tizianamarradi@alice.it wrote ..
> Gent.ma Associazione,
>
> provo a scrivervi nella speranza che possiate aiutarci. Sono la mamma di Letizia
> che ha 2 anni ed è affetta
> da encefalopatia distonico-epilettica accompagnata inoltre dall'alterazione dei
> nuclei della base, da uno scarso accrescimento e da microcefalia. Per parlare con
> un linguaggio comune Letizia non cammina, non parla ed ha spasmi continui che le
> procurano gravi sofferenze. Purtroppo il babbo di Letizia non è riuscito ad accettare
> una bambina con queste difficoltà e ha preferito andarsene, lasciandoci sole. Letizia
> soffre molto, ha contrazioni continue e nessun ospedale e nessun medico ci sa aiutare
> con dei farmaci che la facciano stare un po' meglio. Ha inoltre bisogno di assistenza
> continua e di educatori specializzati che si occupino della sua riabilitazione.
> Per favore aiutateci, guidateci e consigliateci in questo lungo cammino Tiziana
> Marradi 3335928298 Poggibonsi (Si)
>
>
>

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30/05/2009 00:23

CI STANNO CHIEDENDO AIUTO..................................... AIUTIAMOLI



Da: segreteria@alidiscorta.it




Oggetto: Fwd: I: aiutateci Ricevuto il: 25/05/09 23:08






tizianamarradi@alice.it wrote ..
> Gent.ma Associazione,
>
> provo a scrivervi nella speranza che possiate aiutarci. Sono la mamma di Letizia
> che ha 2 anni ed è affetta
> da encefalopatia distonico-epilettica accompagnata inoltre dall'alterazione dei
> nuclei della base, da uno scarso accrescimento e da microcefalia. Per parlare con
> un linguaggio comune Letizia non cammina, non parla ed ha spasmi continui che le
> procurano gravi sofferenze. Purtroppo il babbo di Letizia non è riuscito ad accettare
> una bambina con queste difficoltà e ha preferito andarsene, lasciandoci sole. Letizia
> soffre molto, ha contrazioni continue e nessun ospedale e nessun medico ci sa aiutare
> con dei farmaci che la facciano stare un po' meglio. Ha inoltre bisogno di assistenza
> continua e di educatori specializzati che si occupino della sua riabilitazione.
> Per favore aiutateci, guidateci e consigliateci in questo lungo cammino Tiziana
> Marradi 3335928298 Poggibonsi (Si)

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14/06/2009 08:20

ANCHE NEL GIORNO DEL MATRIMONIO , SI RICORDANO DI NOI...............





Oggetto: BOMBONIERE SOLIDALI DI FRANCESCA E ENNIO Ricevuto il: 12/06/09 18:27


RISPOSTA DELL'ASSOCIAZIONE ALI DI SCORTA
=============================================


Ciao Ennio e Francesca,
nel ringraziarvi per il versamento di 4.000
euro per le bomboniere solidali del vostro matrimonio,invio in allegato
gli auguri dell'associazione.
Quando passerete a Roma, vi portero' a
vedere la nuova casa dell'associazione
cari saluti








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17/06/2009 19:27

AIUTIAMO SEMPRE............ E COMUNQUE.............
da Agostino Mazza,vds roma nord ,appartenente al consiglio direttivo
ALI DI SCORTA
invio
due comunicazioni:quella che segue riguarda il servizio di trasporto
svolto lunedi' scorso e quella in allegato per gli aspetti procedurali .


.....................................
Nota
alla c.a. del Dott. Marco Squicciarini,commissario provinciale CRI
Roma ,del Sig. Felice Pistoia,commissario del gruppo Roma nord e di
Agostino...,commissario del gruppo Roma sud.

L'associazione Ali di
Scorta , che opera presso il policlinico Gemelli per la lotta ai
tumori pediatrici, ha assistito la famiglia Forgetta di Cassino e
quando le cure non hanno consentito speranza di vita , è stato deciso
il rientro a casa della famiglia.
In tale occasione mi sono rivolto
ai colleghi della CRI per rientro del piccolo Andrea di mesi 19.
Il
trasporto è avvenuto con la collaborazione/partecipazione di Roma sud (
vds Stefano,Corrado ,Gianluca Saetta con autoambulanza pediatrica ) e
di roma nord ( vds Maurizio Pavan, Alessandro gamba ,dott. Jacopo
Pagani e dott.ssa Claudia Pacchiarotti).
Il servizio si svolto nelle
migliori condizioni in termini di sicurezza,professionalità e
tempestività oltre che di dedizione unica.
L'associazione ringrazia,
anche a nome della famiglia,tutti coloro che hanno reso possibile il
trasporto nel modo sopra citato, a ciò aggiungo il ringraziamento
personale per l'ampia disponibilità avuta.
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20/06/2009 09:03

GRAZIE ALL'ISTITUTO PABLO NERUDA ( OTTAVIA )





L'istituto Pablo Neruda , nella sua festa di primavera ,ha donato i proventi della stessa e delle offerte dei professori,degli studenti e genitori .
Si fa copia della lettera di ringraziamento di ALI DI SCORTA al preside .



________________________________________________________________





Oggetto: DONAZIONE INIZIATIVA 26 MAGGIO Ricevuto il: 18/06/09 20:44






GENTILE PRESIDE ,
HO AVUTO RISCONTRO DEL VOSTRO VERSAMENTO DI 3.513,70
EURO RELATIVO ALLA INIZIATIVA DELLA VOSTRA SCUOLA ,RINNOVO I
RINGRAZIAMENTI A NOME DELL'ASSOCIAZIONE ANCHE PER UN RISULTATO CHE E'
ANDATO OLTRE LE ASPETTATIVE

CORDIALMENTE

AGOSTINO
ALI DI SCORTA


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28/06/2009 08:20

IPOTESI NOTTE BIANCA AL XIX MUNICIPIO








Oggetto: R: ipotesi notte bianca al XIX municipio Ricevuto il: 25/06/09 23:46






nella riunione del 24 us si e definito un programma di massima con la
partecipazione di 10-12 associazioni , alcune danno un contributo con
specifiche iniziative...
prossimo incontro martedi 7 luglio

----
Messaggio originale----

Data: 11-giu-2009
9.21

Ogg: ipotesi notte bianca al XIX municipio

ieri si è svolto il primo incontro SPES-CESV con alcune associazioni
ODV che operano nel municipio per una promozione ,è stato ipotizzato
il
seguente iter di max:
--data,metà settembre,tempo, un sabato e
domenica
--obiettivo :promozione della cultura del volontariato
--
ipotizzate
attrattive
--ipotizzata tavola di discussione
--luogo
pineta sacchetti
?
-- ha partecipato in parte Gallucci ( presidente
della commissione
affari sociali del municipio)
--saranno interessate
le istituzioni
la
spesa sarà sostenuta da CESV-SPES,le associazioni
dovranno contribuire
alla iniziativa costruendola insieme...
prossimo
incontro previsto per
il 24 ? prossimo
agostino


----Messaggio
originale----
10 giugno 2009

SPES mi ha detto di aver inviato l'invito venerdi
scorso,riguarda le
associazioni di zona
chi desidera e puo' ,partecipi
agostino

----
Messaggio originale----

Ogg: incontro 10
giugno 2009

Cari
amici,

anche per quest’anno i Centri
di servizio per il
volontariato
del Lazio Cesv e Spes hanno previsto,
nell’ambito della
loro programmazione
annuale, azioni volte a
favorire
le associazioni
coinvolte o interessate a
promuovere la
solidarietà e
il volontariato
alla cittadinanza.

A
questo proposito
abbiamo pensato di
proporre momenti di
animazione
cittadina che
possano promuovere l’
impegno delle singole
organizzazioni di
Volontariato, valorizzandone il
ruolo e l’azione di
cittadini attivi.

Pertanto al fine di promuovere
la cultura della
solidarietà e il
volontariato attivo nel territorio,
riteniamo
importante lavorare con
voi
nella ideazione ed animazione di
un
evento da programmare nel
vostro
municipio. Avremmo, dunque piacere
di incontrarvi il prossimo
10 giugno alle
ore 16.30 presso il centro
anziani di via Trionfale,
9089 adiacente il
Santa Maria della Pietà-
per condividere e elaborare
idee per
l’organizzazione di tale evento.



Ringraziandovi per la
disponibilità i più cordiali saluti



Set.
Promozione dei Centri di
Servizio per il Volontariato Cesv e
Spes
















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02/07/2009 16:40

CONCERTO DEL 30 GIUGNO'09 IN FAVORE DI ALI DI SCORTA



Oggetto: Re: Concerto del 30 Giugno 2009 a favore di Ali di Scorta Ricevuto il: 02/07/09 12:25







Nel ringraziare tutti gli amici che hanno partecipato al concerto in oggetto, ognuno con un suo compito, confermo senza tema di smentita che si è trattato di un evento e ciò è stato testimoniato al Presidente della ExxonMobil in Italia da più voci, per cui ho ricevuto i ringraziamenti da parte dell'ing. GB Merlo, che con questa nota condivido con voi e che spero siano trasferiti ai giovani, a Sandro e a tutti coloro che ci hanno aiutato.

Ricordo che il concerto, a zero costi, ha permesso di realizzare:

una raccolta fondi di "qualità"
e di creare, visto il valore dei musicisti e gli interventi a favore di ALI DI SCORTA, prima del concerto, un vivo interesse da parte degli ospiti, che hanno sollecitato altre occasioni di incontro di questo genere.

Ciao a tutti.
vice presidente ali di scorta
Franca Melotti



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04/07/2009 12:51

RINGRAZIAMENTO CONCERTO DAL PRESIDENTE DI ALI DI SCORTA


Oggetto: concerto-ringraziamenti Ricevuto il: 03/07/09 09:55






cara Franca,
ti sarei grata tu esprimessi a nome di ADS al Presidente Merlo ,all'ing Bevivino e al dr.Urbinati il nostro apprezzamento per il contributo concreto dato all'Associazione con il concerto.
ho provveduto a ringraziare personalmente anche tutti i fornitori che hanno contribuito al rinfresco (ditta Marzoli,panificio Passi,ditta Ricciarelli,ristorante Bucatino,ditta Armillas) consegnando loro anche la tessera di Socio Onorario.
uno speciale ringraziamento (lettera e tessera) al "presentatore"Stefano de Sando,oramai "testimonial" fisso dei nostri concerti.
Per ultimo,ma non meno importante!,un grazie a te ,Franca,che hai reso questa opportunita' possibile e insieme anche ad Agostino,Antonio ,Enzo , Giovanna e tutti gli altri giovani volontari ,hai fattivamente contribuito alla sua realizzazione.

silvia riccardi
presidente ali di scorta




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12/07/2009 08:16


Università degli Studi di Roma
“La Sapienza”
Facoltà di Psicologia 1





Tesi di Laurea in Scienze e Tecniche Psicologiche per l’Intervento Clinico
per la Persona, il Gruppo e le Istituzioni




Resoconto
del Tirocinio





Relatore Candidato

Chiar.mo Prof. Grasso Valentina Pellegrini
Matricola 852094




Anno accademico 2005/2006








Ai miei genitori
con immenso affetto




“…morire significa continuare a vivere in chi ci ama”.
Senatore Pilleri, Oliverio Ferraris.













INDICE

Introduzione 1

I. Capitolo primo 3
1. Il resoconto clinico 3
1.1 Definizione di resoconto clinico 3
1.2 Funzioni del resoconto 7
1.3 Modelli del resoconto 9
1.4 Conclusioni 10

II. Capitolo secondo 13
2. Il tumore cerebrale infantile 13
2.1 I tumori cerebrali infantili 13
2.2 I tumori del cervello primitivi e i tumori del cervello secondari 15
2.3 I segni e sintomi più comuni 17
2.3.1 Sintomi dipendenti dalla localizzazione del tumore 18
2.3.2 Cambiamenti della personalità 19
2.4 La diagnosi 19
2.5 I metodi di cura 21
2.5.1 Gli effetti collaterali 23
2.6 La riabilitazione e il follow-up 23

III. Capitolo terzo 25
3. L’Associazione “Ali di Scorta” e l’intervento psicologico 25
3.1 L’Associazione “Ali di Scorta” 25
3.1.1 Oggetto e scopo 25
3.2 Intervento psicologico 28
3.2.1 Il concetto di morte nel bambino 29
3.2.2 Il bambino oncologico e la sua famiglia 32
3.2.3 I meccanismi di difesa e informazioni mediche in Nch. Infantile 39
3.2.4 Il ruolo dello psicologo e il suo intervento 44
3.2.5 Interpretazioni psicodinamiche del gioco 49
3.2.6 Terapie collaterali 53

IV. Capitolo quarto 59
4. La mia esperienza di tirocinio 59
4.1 Motivazioni ed aspettative 59
4.2 Il mio ruolo 63
4.3 Attività svolte 65
4.4 Approccio al dolore 67
4.5 Riflessioni sulle relazioni instaurate 68
4.5.1 Il camice 70
4.6 Strumenti utilizzati 72
4.7 Caso clinico 74
4.7.1 Relazione osservatore-bambino (allegato a) 74
4.7.2 Relazione amicale tra pari (allegato b) 76
4.7.3 Interazione madre-bambino (allegato c) 76
4.7.4 Allegati 78
4.8 Conclusioni 83

Bibliografia…………………………………….……………………………………….85





















Introduzione

La nuova riforma universitaria prevede, per gli studenti di psicologia iscritti a tutti i nuovi corsi di laurea triennali, attivati a partire dall’anno 2001-2002, un periodo di formazione obbligatorio definito tirocinio. Questa attività è stata istituita sulla base di alcune delle seguenti finalità: apprendere procedure collegate a conoscenze psicologiche, integrare le conoscenze teoriche con quelle pratiche ed in particolare iniziare a lavorare in uno specifico setting professionale ed essere capaci di riflettere e di discutere sulle proprie esperienze.
Infatti, il tirocinio diviene lo strumento ufficiale della formazione universitaria dove l’obiettivo è quello di affiancare alla formazione teorica anche quella esercitativa, appunto. Esso è un’esperienza formativa che permette l’acquisizione di una competenza organizzativa che è poi quella che fonda la professionalità psicologico-clinica. Tale competenza organizzativa consente a noi studenti universitari di trasformare l’agito della nostra esperienza formativa in pensiero sulla formazione; un pensiero in grado di dare senso alle dinamiche emozionali, simboliche che la formazione stessa evoca in noi.
Di fondamentale importanza è quindi, l’analisi della propria esperienza formativa che diviene uno spazio di formazione “alla pratica” ovvero l’analisi del proprio modo di vivere l’esperienza istruttiva. Per attuare questo “pensiero” sul tirocinio è necessario che lo studente utilizzi il resoconto, sia come strumento di lavoro che orienta la prassi professionale psicologico-clinico permettendo di individuare quelle categorie psicologico-cliniche attraverso cui leggere la propria esperienza, e sia come spazio di riflessione e confronto.
Personalmente, ho iniziato a riflettere sulla mia esperienza di tirocinio, secondo tale metodo, soltanto nel contesto di tesi considerandolo come un “luogo” di riproduzione della mia esperienza vissuta. E’ infatti attraverso la condivisione e il continuo confronto con chi mi sta seguendo in questo lavoro di resocontazione che sto individuando modelli e categorie per leggere la mia esperienza di tirocinio e proponendo un lavoro di costruzione in alternativa alla passività dell’agito emozionale senza “senso”, senza pensiero. Avendo così, la possibilità di usufruire di tale spazio di riflessione sulla mia esperienza, sono passata da una dimensione adempitiva ad una costruttiva, non vivendo il mio tirocinio solo come agito istituzionale. Nella dimensione di tirocinio costruito intendo la costruzione come modalità di porsi nei confronti del processo, per raggiungere un tirocinio consapevole, partecipato, e del quale si riesca a scorgere la coerenza nei confronti della nuova formazione universitaria. Diventa, quindi, importante in quest’ottica essere committenti del proprio tirocinio; ciò significa non “fare tanto per”, ma porsi una domanda, all’interno di una relazione con un contesto, riflettendo sulla propria posizione, all’interno della nuova funzione del tirocinante triennalista.

In questo mio lavoro di tesi il primo capitolo è dedicato alla definizione del resoconto clinico, alle sue funzioni e ai suoi modelli. In quello successivo tratterò l’argomento della mia tesi, ovvero i tumori cerebrali infantili, secondo un’ottica medica evidenziando i vari tipi di tumori, primitivi e secondari, i sintomi, la diagnosi e i vari metodi di cura. Nel terzo capitolo vi presenterò l’associazione “Ali di Scorta”, ente dove ho svolto il mio tirocinio, soffermandomi sugli aspetti psicologici della malattia oncologica e le finalità dell’intervento psicologico. Infine, nell’ultimo capitolo vi descriverò la mia esperienza di tirocinio proponendo ai lettori, a titolo esplicativo, un caso clinico da me resocontato.
I. Capitolo primo
1. Il resoconto clinico

1.1 Definizione di resoconto clinico

Secondo la lingua italiana il resoconto è una relazione per lo più particolareggiata, finalizzata ad informare il pubblico o un organo superiore. Il termine clinico [dal gr. Klinikè, arte relativa a chi giace a letto (kline)] è un aggettivo relativo alla diagnosi ed al controllo di una malattia. Partendo da una prospettiva psicologica, i termini letti assumono accezioni differenti. L’aggettivo clinico non può essere semplicemente considerato come un equivalente di “medico” ma può essere ricondotto almeno a tre significati:
• un approccio alla realtà basato sul rapporto interpersonale;
• una metodologia di studio della realtà fondata sull’osservazione diretta e sistematica, nei suoi momenti di analisi e sintesi, di vari individui, “al fine di cogliere gli elementi tipici come pure quelli differenziabili”, implicando un lavoro sul campo e l’utilizzazione di una dimensione storica;
• un sistema didattico basato sull’esperienza diretta di una realtà e non sull’uso di modelli artificiali (Grasso M., Lombardo G.P., Pinkus L., 1988).
Il resoconto clinico, quindi, non è una mera enunciazione di fatti di quanto accade nel corso del processo di intervento, quanto piuttosto uno strumento di riflessione e di verifica su quanto operato, che dovrebbe rendere chiari i rapporti tra obiettivi, metodi e risultati raggiunti in una esposizione critica caratterizzata da leggibilità, aderenza alla realtà e ricchezza di dettagli. Esso è un processo conoscitivo, un modo di riflettere che ha lo psicologo di raccontarsi e raccontare gli eventi riportandoli al senso della propria prassi, ad una teoria della tecnica (Montesarchio, Margherita, 1998).
L’uso dei resoconti è un’attività costitutiva dell’iter formativo e professionale di ciascun psicologo clinico; è importante quindi, sottolineare il raccordo tra la tecnica, ossia il momento operativo vero e proprio e la teoria della tecnica, ossia la dimensione teorica di riferimento che si esplica nel produrre un processo di significazione e di riflessione sulla prassi (Grasso, Cordella, Pennella, 2003). Il resoconto permette di costruire una narrazione dando la possibilità a chi racconta, di descrivere un’esperienza e le emozioni ad essa correlate e, a chi ascolta, di dare un nome a queste emozioni e rappresentazioni. Ritengo, quindi, necessario soffermarmi sull’importanza di tale concetto.
La narrazione è una pratica culturale che ha origini molto lontane; un modo attraverso il quale l’uomo è riuscito a dare un senso e un ordine alle vicende umane (Grassi, 2002).
Il termine narrare deriva da una radice, gna-, che significa “render noto”. Il suffisso -zione, inoltre, derivato dal latino actione, trasmette al termine narrazione il tratto semantico dell’agire, espandendo il suo significato fino a comprendere l’azione, il gesto e la situazione relazionale (Arrigoni e Barbieri, 1999). Le storie non sono solo dotate di un testo ma anche e soprattutto di un contesto relazionale e la conoscenza di presupposti culturali. Si delinea così l’importanza del contesto definito come “l’insieme delle relazioni e della loro struttura organizzativa, entro il quale ciascun individuo vive la propria esperienza” (Carli, 1993) e del suo concetto sottostante di collusione, che indica l’insieme delle simbolizzazioni affettive evocate dai differenti partecipanti alla vita sociale e che trova la sua manifestazione naturale nel linguaggio e più propriamente nella cultura e nell’agito sociale. Il contesto evoca quindi la collusione mentre quest’ultima influenza ed orienta il contesto stesso. Si stabilisce quindi, tra collusione e contesto, una circolarità tendente ad orientare dinamicamente la relazione sociale (Montesarchio, Buccoleri, 1999).
Seguendo alcuni autori, si possono distinguere due differenti approcci allo studio dei testi narrativi. Secondo l’approccio contenutistico il testo è considerato una cosa a sé e l’obiettivo è quello di mettere in relazione gli schemi mentali del soggetto con la grammatica del testo; l’approccio contestuale, invece, prende in considerazione gli aspetti situazionali in quanto presuppone che il significato delle narrazioni non può prescindere dalla dimensione relazionale in cui la storia viene narrata (Grassi, 2002).
Il resoconto stesso, quindi, affinché risulti uno strumento di conoscenza non può prescindere dal contesto della prassi clinica e dai suoi obiettivi. Questo concetto si esplica se confrontiamo i resoconti sperimentali da quelli clinici. Mentre i resoconti sperimentali, redatti a prescindere dall’oggetto di ricerca, ripercorrono puntualmente fasi della ricerca rendendone possibile una spiegazione metodica e sistematica, e consentono ad altri ricercatori, date le medesime condizioni, di ripetere la ricerca ottenendo i medesimi risultati, la costruzione dei resoconti clinici, invece, cambia, oltre che in funzione della tecnica applicata anche da un autore all’altro comportando l’esplorazione di aspetti non noti, unici e irripetibili di ogni situazione. Per questo motivo possiamo considerare il resoconto clinico e quello sperimentale, quindi, funzionali a prassi cliniche che si fondano su modelli opposti di azioni (Lancia, 1990).
Alcune ricerche sono giunte a classificare i resoconti clinici secondo due categorie di lettura, assertiva e indagatoria, che si pongono come criteri organizzanti della propria prassi clinica, in riferimento alle due componenti fondamentali dell’azione psicologica-clinica: la teoria e l’evento. Il resoconto clinico riassume in sé queste due componenti e si pone come elemento di mediazione tra le regolarità che fondano l’operare clinico, e cioè le leggi generali che sono astoriche, ripetibili e generalizzabili e le irregolarità trattate dalla psicologia clinica, e cioè i casi clinici che sono irripetibili, storicizzati e contestualizzati (Gandini, Gheduzzi, Montixi, Raggiu, 1990). Nei resoconti assertivi, la situazione clinica presentata conferma un enunciato teorico di partenza precedentemente espresso. Il caso clinico è funzionale ad un’argomentazione teorica o all’esemplificazione di certi concetti. Nei resoconti indagatori il punto di osservazione è l’evento relazionale da cui si parte per ricavare formulazioni generali. A differenziarli è soprattutto la variabilità del contesto che impone un atteggiamento esploratorio non scontato nei confronti dell’esperienza; proprio per questo il resoconto può essere considerato uno strumento prezioso di verifica e conoscenza della prassi clinica solo se lo utilizziamo come modalità di investigazione.
Benchè, scritto e parlato, rappresentino le due facce del linguaggio verbale, presentano diversità notevoli sulle quali credo sia opportuno soffermarmi.
Infatti, vi è una notevole differenza tra il parlato e lo scritto relativo ad un evento clinico. Secondo Stern la capacità di tradurre l’esperienza personale in termini linguistici è compresa in una tappa evolutiva, che egli definisce il Sé narrativo, ovvero la capacità umana di vivere sia nel mondo della realtà e sia in un modo simbolico che aumenta le potenzialità comunicative ed adattive. Esempi di tale capacità sono l’uso del pronome, il comportamento allo specchio e gioco simbolico. Un senso verbale del Sé comincia ad organizzarsi nel bambino già intorno ai 15-18 mesi ma è solo dopo il secondo anno di vita che emergerebbe un vero senso del Sé narrativo, che da la possibilità al bambino di riorganizzare il proprio modo di percepire gli eventi come conseguenza di nuove acquisizioni sia linguistiche che concettuali (Stern, 1985). Seguendo questa concezione troviamo che sono gli schemi narrativi del Sé (SNS) a fornire all’individuo gli strumenti prevalenti per interpretare i dati di realtà e a creare e archiviare le narrazioni sul sé fornendo una cornice dove le esperienze passate acquistano significato e predetermina le azioni future del soggetto. Quest’ultimo concetto si avvicina alla definizione di “pensiero autobiografico” per il quale il soggetto che narra è sia narratore che attore. Il resoconto autobiografico diventa uno strumento privilegiato non solo per rappresentare il proprio passato ma anche per fornire un’anticipazione sul futuro, un modello che guida l’azione (Grassi, 2002).
1.2 Funzioni del resoconto

Il resoconto clinico non è solo una trascrizione acritica di fatti ed azioni ma deve essere inteso come un percorso che, a partire dall’evento, porti in seguito ad una riflessione sulla teoria della tecnica utilizzata durante l’intervento. La capacità di stilare resoconti viene considerata una competenza organizzativa dello psicologo: “capirci qualcosa su cosa sta succedendo e cosa si sta facendo” e non “raccontare quello che è successo” (Carli, 1997, p. 102). Il resoconto clinico, aiutandoci a ricentrare periodicamente la nostra attenzione sull’evento e sui significati di cui è portatore, ci consente di riflettere e poi di lavorare coerentemente sulle dimensioni culturali e contestuali che esso esprime individuando così ogni volta obiettivi differenziati ed adeguati. Analizziamo, dunque, più in dettaglio le funzioni del resoconto in psicologia clinica (Grassi, 2002):

Il resoconto come ragionamento metarappresentativo, rappresenta una sintesi creativa che lo psicologo attua, una sua interpretazione e narrazione personale della realtà. Viene considerato tale in quanto il clinico mette in relazione le proprie emozioni, i propri pensieri con la rappresentazione degli eventi: “chi scrive mette in piazza se stesso” (Gori, 2001). Infatti lo psicologo, ascoltando il paziente, costruisce anche un’immagine di se stesso; egli riflette non solo sui contenuti dell’evento ma anche sul suo modo di porsi in relazione, sull’immagine professionale e personale che di sé trasmette, sulle proprie capacità e difficoltà. Questi aspetti sono componenti fondamentali di quella competenza psicologica che viene definita capacità di essere orientati sull’utenza (Montesarchio, Ponzio, 1998). Per Montesarchio e Margherita, selezionare e rendere rilevanti i fatti all’interno del continuum comunicativo della relazione è una questione di “punti di vista” e “inquadrature”. I primi rispecchiano la posizione dell’autore rispetto a ciò che sta narrando, assumendo una distanza necessaria per poter interpretare i comportamenti di tutti i partecipanti all’azione mentre le seconde permettono di selezionare quegli elementi che si ritengono utili per la narrazione eliminandone altri. In psicologia clinica il resoconto fornisce la possibilità di controllare le proprie azioni e controllarne il controllo. E’ solo lavorando a posteriori sui dati di un resoconto che si viene a creare uno spazio di riflessione sull’esperienza clinica che rende possibile l’istituzione di un processo di comprensione e conoscenza che permette di strutturare l’azione clinica (Gandini, Gheduzzi, Montixi, Raggiu, 1990).

Il resoconto come comunicazione scientifica e verifica dell’intervento costituisce uno strumento di trasmissione di conoscenze, un’attività di scambio, di comunicazione e di verifica del raggiungimento degli obiettivi prefissati. Il resoconto, in quanto elaborazione codificata dell’esperienza relazionale, costituisce la prima forma con cui questa relazione diviene pubblica: esso realizza il tramite fra la dimensione “privata” del setting e quella pubblica della comunità scientifica mediando il rapporto tra la prassi psicologico-clinica e la sua teoria. Attraverso il resoconto si rende soggetta la propria prassi ad una validazione o disconferma da parte della comunità scientifica. Tramite questa funzione pubblica del resoconto è possibile risalire al modo di ragionare dello psicologo in funzione dei suoi interlocutori, i quali, determinano gli obiettivi e forniscono i criteri con cui valutare gli esiti e l’efficacia dello stesso.

Il resoconto come mezzo per apprendere e categorizzare. Nella prassi clinica, comunemente, le dinamiche di appartenenza si esplicano attraverso l’uso da parte degli psicologi di un “set” di tecniche e di modelli concettuali che rinviano alle scuole di cui essi fanno parte. In questi casi il resoconto, si limita a categorizzare l’evento relazionale secondo la teoria e il gruppo di appartenenza del suo estensore rimandando ai processi di identificazione e di identità dello psicologo. In definitiva, il resoconto dovrebbe articolare i rapporti fra le teorie e gli eventi clinici, ponendosi come elemento di intercessione fra le regolarità generali e astoriche delle prime, e le particolarità contestualizzate dei casi clinici (Grassi, 2002).

1.3 Modelli del resoconto

Diversi autori si sono interessati a tale argomento. In particolare, Grassi individua e descrive vari tipi di modelli-base del resoconto (Grassi, 2002):
Il resoconto come memoria storica è ciò che lo psicologo scrive di “getto” utilizzando il linguaggio che più ritiene opportuno (schizzi, fumetti, schemi…). E’ un modello interno del tutto personale in conseguenza al fatto che il livello di strutturazione è molto basso in quanto lo scritto non è concepito per la pubblicazione. Lo psicologo può scegliere di scrivere i fatti in ordine cronologico o di scrivere le idee mano a mano che vengono in mente o di citare solo gli elementi ritenuti più importanti. L’importante è che, riguardando il suo materiale, gli ritorni in mente l’evento e le emozioni ad esso correlate.

Il resoconto come oggetto di supervisione è costituito dalle narrazioni scritte dei casi clinici che lo psicologo porta al supervisore e/o colleghi per confrontarsi e proseguire il lavoro. Anche nel resoconto di supervisione bisogna prestare attenzione allo specifico contesto nel quale si colloca (Gori, 2002) in quanto è possibile che la falsificazione dei dati sia più consapevole. Per questo motivo è necessaria una supervisione delle dinamiche collusive non solo tra il supervisionato e il cliente ma anche tra il supervisore e il supervisionato (Montesarchio , Grasso, 1993).

Il resoconto come comunicazione scientifica è una relazione di un caso clinico ritenuto così significativo da essere pubblicato; solo così la conoscenza scientifica si sviluppa e si consolida. La trascrizione di un racconto dettagliato comporta inevitabilmente la perdita di alcuni dati come il clima emotivo e il non-verbale nel quale si è svolto l’intervento. Per Arrigoni e Barbieri (1998) il resoconto scritto di un caso clinico non è mai, per definizione, una narrazione oggettiva e distaccata in quanto l’analista-scrittore inserisce le sue osservazioni per portare il lettore a condividere le sue impostazioni teoriche.

Il “ report”: il resoconto come relazione tecnica si verifica quando lo psicologo descrive l’operato in funzione di una precisa committenza, tenendo presente che lo stile e il contenuto della narrazione cambieranno a seconda di chi lo leggerà. Ancora una volta è necessario, quindi, sottolineare l’influenza del contesto sulla narrazione. Lo psicologo può stilare report con finalità:
• di giustizia penale o civile (perizie);
• cliniche (analisi della domanda, interventi di formazione);
• amministrative (pensionamenti, rapporti lavorativi).

1.4 Conclusioni

Se l’intento della psicologia clinica è riconducibile a correggere il deficit e a promuovere lo sviluppo, lo strumento essenziale per verificare l’intervento psicologico è il resoconto clinico. Esso consiste nella lettura di ciò che avviene entro l’intervento attraverso categorie che diano senso agli eventi e nello stesso tempo orientino la prassi dello psicologo. Senza resoconto non esiste intervento in quanto non si ha nessuna informazione per intervenire secondo una prospettiva psicologica-clinica (Carli, Paniccia, 2005). Stilare un resoconto clinico sulla mia esperienza formativa di tirocinio mi ha dato la possibilità di individuare, attuando un processo riflessivo, quelle categorie psicologico-cliniche attraverso cui leggere la mia esperienza. Infatti, il resoconto, può essere di fondamentale importanza non solo allo psicologo già inserito nel mondo lavorativo ma anche per noi studenti, ancora in formazione, come saldo punto di riferimento per rileggere a posteriori la nostra esperienza di tirocinio. Ci dà la possibilità di crearci uno spazio di riflessione, di crescita, professionale e personale, e di confronto. Perciò è necessario sottolineare che, nel lungo percorso universitario, oltre ad una formazione prettamente teorica vi è anche una formazione “personale” alla quale ci si arriva analizzando le modalità simbolico-affettive con le quali i differenti studenti “vivono” la propria esperienza universitaria (Carli, 1997). La formazione personale è rappresentata dalla motivazione a fare lo psicologo; è un luogo entro il quale lo studente potrà analizzare la sua dinamica intrapsichica, le sue simbolizzazioni che, stratificate nel suo mondo interno, influenzeranno la sua vita. Gli studenti vivono il proprio apprendimento e la propria partecipazione alla vita dell’università anche entro un processo di simbolizzazione emozionale dello studio e dell’anticipazione professionale. Sarebbe necessario, ai fini di una formazione completa, spostare l’asse motivazionale degli studenti da attese passive di affiliazione e di appartenenza, ad un interesse ad appropriarsi della propria formazione professionalizzante. Tale cambiamento si può ottenere istituendo uno spazio di riflessione sull’esperienza formativa che per me è costituito dall’elaborazione della mia tesi. Questo lavoro di “riflessione su” ha, nell’ambito del rapporto tra studente e contesto formativo universitario, la valenza, al tempo stesso di una formazione personale, formazione personale che consente la costruzione di un’identità professionale. La formazione di uno studente, quindi, dipende sia da una dimensione teorica che una più personale. Con il contributo di entrambe le dimensioni lo studente può arrivare a costruirsi una competenza organizzativa, ovvero quella capacità di pensare e riflettere sulla propria esperienza vissuta. Ed è proprio questo che io, in questo lavoro di resocontazione sto cercando di realizzare. Sono ormai anni che frequento il mondo universitario e che “alimento” con una cerca continuità la mia formazione. Ma, nonostante tutto, è solo durante la mia attività di tirocinio che ho preso coscienza di avere, oltre che delle nozioni teoriche, anche delle competenze psicologiche pratiche. Inoltre, mi sono resa conto dell’importanza dell’apprendimento, sia del “saper fare”(acquisire competenze professionali) che del “saper essere”(acquisire competenze interpersonali) e di come, questo concetto, sia importante per la mia crescita personale.
Ma allora, come formare lo psicologo? Carli, (Carli, 1997), sostiene che lo studente di psicologia, in particolare quello che frequenta il triennio di psicologia clinica, debba farsi committente della propria formazione esercitando una funzione critica nei confronti delle varie proposte formative. La critica concerne, da quello che lo studente si trova a leggere per la preparazione dei suoi esami alle proposte di “formazione personale” che gli vengono proposte. Quindi, lo studente, con tutte le sue forze, deve assumere quella funzione committente della propria formazione che è l’unica via per organizzare la sua futura professionalità ed al contempo contribuire ad un cambiamento utile della Facoltà (ibidem).

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II. Capitolo secondo
2. Il tumore cerebrale infantile

Ho svolto la mia esperienza di tirocinio all’interno del reparto di Neuro-Chirurgia Infantile del policlinico “A. Gemelli”. Pertanto, ritengo necessario, presentare tale argomento, ovvero il tumore cerebrale infantile, adottando, in questo capitolo, una prospettiva totalmente medica, per poi, in seguito, soffermarmi sugli aspetti psicologici legati a questa malattia.

2.1 I tumori cerebrali infantili

Il cancro nei bambini rappresenta una delle cause più frequenti di morte in età pediatrica dopo i traumi. Colpisce 1 bambino su 650 entro i 15 anni di età ; ogni anno vi sono 120-140 nuovi casi per milione di bambini sotto i 15 anni. Dopo le leucemie, i tipi di tumore più frequenti sono quelli del Sistema nervoso centrale (Snc). In particolare i tumori cerebrali sono i soli in progressivo, anche se lieve, aumento con 30 nuovi casi all’anno ogni milione di soggetti di età inferiore ai 15 anni, con un picco di incidenza a 5-10 anni e una prevalenza maggiore nel sesso maschile. In generale, i tumori del Sistema nervoso centrale rappresentano il 30% circa di tutti i tumori maligni dell’età pediatrica, poco meno che le leucemie, seguiti da linfomi (12%), dai neuroblastoma (7%), dai sarcomi dei tessuti molli (7%) e dai tumori ossei (6,4%).
I tumori cerebrali vengono suddivisi in tumori cerebrali primitivi, se originano direttamente dal tessuto cerebrale, e secondari se si sviluppano come conseguenza della diffusione di un tumore originato in un altro organo (tumori metastatici). Solitamente, quando si parla di tumori cerebrali, ci si riferisce ai tumori primitivi: sono più frequenti in età infantile mentre, nell’adulto, insorgono più frequentemente tra i 40-60 anni. Un’altra distinzione è quella tra tumori benigni e tumori maligni. La maggior parte delle persone ritiene che i tumori benigni sono operabili e quindi curabili, mentre i tumori maligni sono così altamente aggressivi che si diffondono rapidamente nel corpo e sono fatali. Per quanto riguarda i tumori cerebrali il discorso è leggermente diverso; ciò è vero per i tumori che interessano altri distretti corporei. Occorre sapere, infatti, che i tumori del sistema nervoso rimangono nel sistema nervoso. I termini di benigno e maligno si riferiscono più alla velocità di crescita del tumore e al grado di invasione locale del tessuto cerebrale circostante. Non tutti i tumori cerebrali benigni sono trattabili o curabili completamente, come d’altra parte, ci sono tumori maligni che possono essere curati. Uno dei fattori più cruciali dei tumori cerebrali è la loro localizzazione nel cervello. Alcuni si trovano in aree definite neurologicamente “silenti” che sembrano avere funzioni meno importanti; la rimozione di un tumore da queste aree in genere non determina significative variazioni nelle funzioni del bambino. Altre aree, invece, sono dette neurologicamente più “eloquenti” e sono correlate a funzioni come linguaggio, movimenti, sensazioni, coordinazione e funzioni vitali come la respirazione o il livello di coscienza. Chiaramente l’eventuale rimozione di un tumore da tali aree è accompagnato da un altissimo rischio di creare gravi danni al bambino. A differenza di alcune neoplasie, per le quali è stata dimostrata una chiara relazione con specifici fattori di rischio, per quanto riguarda i tumori cerebrali alcuni studi hanno indicato possibili condizioni favorenti, ma numerosi sono i dubbi circa l’esatta relazione dose-effetto. L’unico fattore chiaramente implicato nella genesi di alcuni tumori sono le radiazioni ionizzanti, con un periodo di latenza che va dai 10 fino a più di 20 anni dall’esposizione. I dati riguardo all’uso dei telefonini cellulari, ai traumatismi, a fattori nutrizionali (nitrosamine, colesterolo, grassi) sono al momento conflittuali e poco convincenti. E’ invece da segnalare che circa l’1-5% dei tumori cerebrali sono causati da predisposizioni familiari e sindromi genetiche che determinano un rischio maggiore di sviluppare tumori del sistema nervoso (www.numedionline.it, www.sanitaesalute.it).

2.2 I tumori del cervello primitivi e i tumori del cervello secondari

I tumori che originano nel tessuto cerebrale sono conosciuti come tumori cerebrali primari e sono classificati in base al tessuto nel quale hanno origine. I più comuni sono i gliomi che si sviluppano nel tessuto gliale (di supporto). Esistono diversi tipi di gliomi:
• Astrocitomi: originano da piccole cellule stellate chiamate astrociti. Possono crescere ovunque nel cervello e nel midollo spinale. Negli adulti, gli astrocitomi si sviluppano più frequentemente nel cervello; nei bambini, invece, nel tronco encefalico, nel cervello e nel cervelletto.
• Gliomi del tronco encefalico: originano nella parte inferiore del cervello, cioè a livello del tronco encefalico che regola molte funzioni vitali. Questi tumori generalmente non possono essere rimossi.
• Ependimomi: normalmente si sviluppano nel tessuto di rivestimento dei ventricoli, ma possono originare anche nel midollo spinale. Sebbene questi tumori possano svilupparsi a qualsiasi età, sono però più comuni nei bambini e negli adolescenti.
• Oligodendrogliomi: si sviluppano dalle cellule che producono la mielina, il rivestimento protettivo dei nervi. Questi tumori generalmente originano nel cervello, crescono lentamente e di solito non si diffondono nei tessuti circostanti. Gli oligodendrogliomi sono rari e compaiono più spesso in adulti di media età.

Altri tipi di tumori cerebrali non originano dai tessuti gliali. Ecco una descrizione dei più comuni:
• Medulloblastomi: originano da cellule nervose primitive (in fase di sviluppo) che normalmente scompaiono dall'organismo dopo la nascita. La maggior parte dei medulloblastomi si forma nel cervelletto, ma possono svilupparsi anche in altre zone. Sono tumori molto più diffusi nei bambini, in particolar modo nei maschi.
• Meningiomi: si formano nelle meningi e generalmente sono benigni. Poiché sono tumori che si sviluppano molto lentamente, il cervello può adattarsi alla loro presenza; i meningiomi di solito raggiungono notevoli dimensioni prima di causare sintomi. Compaiono con più frequenza nelle donne di età compresa tra i 30 e i 50 anni.
• Schwannomi: sono tumori benigni che originano dalle cellule di Schwann, produttrici della mielina che protegge il nervo acustico. I neuromi acustici sono una varietà di Schwannoma. Sono tumori dell'età adulta e colpiscono le donne con una frequenza due volte superiore rispetto agli uomini.
• Craniofaringiomi: si sviluppano nella regione della ghiandola pituitaria, situata nei pressi dell'ipotalamo. Generalmente di carattere benigno, sono talvolta considerati maligni in quanto possono comprimere e danneggiare l'ipotalamo compromettendo funzioni vitali. Questi tumori sono più frequenti in bambini e adolescenti.
• Tumori delle cellule germinali: originano da cellule sessuali primitive (in fase di sviluppo) o da cellule germinali. I più frequenti sono i germinomi.
• Tumori della regione pineale: si sviluppano nelle regioni circostanti la ghiandola pineale, un minuscolo organo situato al centro del cervello. Possono essere sia a crescita lenta che veloce. Dato che la regione pineale è molto difficile da raggiungere, è spesso impossibile asportarli.

Un tumore, invece, che origina in altre parti del corpo può dare metastasi al Sistema Nervoso Centrale causando dei tumori secondari. Questi tumori non sono uguali ai tumori cerebrali primari: se un cancro al polmone si diffonde al cervello, la malattia viene chiamata cancro al polmone metastatico, perché le cellule del tumore secondario hanno l'aspetto di cellule polmonari anomale e non di cellule cerebrali. Il trattamento dipende dalla zona in cui essi hanno avuto origine, dall'estensione della malattia e da altri fattori come l'età del paziente, lo stato di salute generale e la reazione a precedenti trattamenti (www.medinews.it, www.aiom.it).

2.3 I segni e sintomi più comuni

• Ipertensione endocranica: questo sintomo si manifesta frequentemente con cefalea e nausea, soprattutto nelle prime fasi della malattia.
La cefalea può essere più intensa al mattino ma in genere migliora nell’arco della giornata ed essere accompagnata dalla nausea.
L’ipertensione endocranica consiste generalmente in un aumento della pressione all’interno della scatola cranica, che può essere dovuto a tre fattori: aumento di volume del tumore all’interno della scatola cranica, con conseguente compressione delle strutture adiacenti; blocco della circolazione del liquor cerebrospinale nei ventricoli e intorno al cervello; aumento di volume del cervello intorno al tumore a seguito di un accumulo di liquido extracellulare (edema).
La cefalea e la nausea possono avere molte altre cause; la probabilità che questi sintomi siano dovuti ad un tumore cerebrale è molto bassa.
• Disturbi della visione; perdita dell’equilibrio; senso di confusione.
• Convulsioni: sono un sintomo frequente. Le crisi convulsive si manifestano con spasmi muscolari o momenti di assenza di coscienza. Le crisi convulsive sono un’esperienza molto spiacevole e preoccupante per chi ne è colpito e i suoi familiari, ma non sono necessariamente causate da un tumore cerebrale.
2.3.1 Sintomi dipendenti dalla localizzazione del tumore

Tenendo conto del fatto che ogni area del cervello controlla una particolare funzione riportiamo di seguito alcuni sintomi strettamente connessi con la localizzazione del tumore:
• lobo frontale: perdita delle capacità intellettive e cambiamenti della personalità; perdita di coordinazione della deambulazione o debolezza di una metà del corpo; perdita dell’olfatto, a volte turbe del linguaggio;
• lobo parietale: difficoltà nell’uso o nella comprensione delle parole (disfasia) e difficoltà a scrivere e leggere; difficoltà di coordinazione di certi movimenti; perdita di sensibilità o di forza in una metà del corpo;
• lobo occipitale: perdita della visione di mezzo campo visivo. Il soggetto a volte non lo percepisce all’inizio e in alcuni casi si scopre durante una visita oculistica di routine;
• lobo temporale: le crisi epilettiche sono caratterizzate da senso di paura, l’impressione di ritrovarsi in un posto già noto (déja vu), allucinazioni sensoriali (si percepiscono strani odori) o episodi di blackout (perdite di conoscenza momentanee); a volte turbe del linguaggio;
• cervelletto: perdita di coordinazione dei movimenti, con conseguenti difficoltà di deambulazione e dell’eloquio (disartria), perdita dell’equilibrio, movimenti involontari degli occhi (nistagmo); vomito e rigidità del collo;
• tronco encefalico: perdita dell’equilibrio e della coordinazione dei movimenti nella deambulazione; debolezza dei muscoli del volto, capacità di sorridere solamente con metà bocca o caduta di una palpebra; visione doppia (diplopia); in casi rari vomito o cefalea subito dopo il risveglio; turbe del linguaggio e difficoltà di deglutizione. I sintomi possono comparire gradualmente.
È importante notare che tutti i sintomi elencati non necessariamente sono causati da un tumore cerebrale. Essi possono essere dovuti ad altre malattie del sistema nervoso.

2.3.2 Cambiamenti della personalità

In alcuni casi la presenza di un tumore cerebrale può causare cambiamenti della personalità o turbe comportamentali. Questi sintomi si manifestano di solito quando il tumore è localizzato agli emisferi cerebrali anteriori. Queste manifestazioni possono essere molto preoccupanti per il paziente e per i suoi familiari. A volte può essere utile un consulto psicologico per valutare l’entità del problema e individuare una soluzione (www.aimac.it).

2.4 La diagnosi

Un accurato esame clinico è il primo elemento che consente di porre il sospetto di un tumore cerebrale e che avvia l’iter diagnostico strumentale. La TAC, tecnica radiografica che consente di ottenere radiografie dettagliate delle strutture interne dell’organismo da angolazioni diverse, è solitamente il primo esame che viene eseguito. Le immagini si ottengono per mezzo di un computer collegato a un’apparecchiatura a raggi X. In alcuni casi, si usa un mezzo di contrasto (che sarà iniettato in vena oppure dato da assumere oralmente) che si evidenzia ai raggi X e che consente una migliore visualizzazione delle strutture cerebrali.
La procedura è indolore ma bisogna rimanere sdraiati, perfettamente immobili sul lettino, con la testa sistemata all’interno della macchina per circa 10 minuti e non mangiare e bere per almeno quattro ore prima dell’esecuzione dell’esame.
La Risonanza magnetica (RMN) cerebrale è una tecnica radiografica simile alla TAC, che utilizza campi magnetici e onde radio per trasmettere a un computer i dati, che poi questo rielabora per dare immagini dettagliate delle strutture interne dell’organo oggetto della prova. In alcuni casi, si usa un mezzo di contrasto (che sarà iniettato in vena oppure dato da assumere oralmente) allo scopo di ottenere una migliore visualizzazione delle strutture cerebrali. Durante lo svolgimento dell’esame bisogna rimanere sdraiati, perfettamente immobili, sul lettino all’interno di un cilindro di metallo, che in realtà è un magnete molto potente, aperto ad un’estremità, per un tempo massimo di 60 minuti. La RMN è indolore ma è molto rumorosa; per questo molti centri sono dotati di impianto stereofonico per irradiare musica. Prima di essere introdotti nel cilindro bisogna rimuovere tutti gli oggetti metallici che si indossano. I portatori di pacemaker e di alcuni tipi di clip chirurgiche non possono essere sottoposti a RMN a causa dei campi magnetici. L’integrazione delle due metodiche consente di superare i limiti di entrambe. La PET (tomografia ad emissione di positroni) è un’indagine radiologica di recente introduzione, molto sofisticata, che consente una migliore visualizzazione delle cellule neoplastiche all’interno dell’organismo. Richiede l’uso di una sostanza detta glucosio marcato radioattivamente, che sarà somministrata attraverso una vena – usualmente del dorso della mano. I tumori di solito assorbono una quantità di glucosio maggiore rispetto al tessuto sano, e di conseguenza sono più visibili alla scansione per la presenza dei radioisotopi.
La PET può essere utile per stabilire se un tumore è benigno o maligno. Dopo la somministrazione del contrasto, il paziente sarà sistemato nella corretta posizione sul lettino all’interno del cilindro. La dose di radiazione non è più alta di quella di una normale radiografia.
La conferma diagnostica di tumore cerebrale è data dall’esame istologico di un frammento tumorale prelevato mediante biopsia; l’esame microscopico consente di definire il tipo di tumore e il grading dello stesso (cioè il grado di aggressività della neoplasia in rapporto alla velocità di crescita, alla infiltrazione delle strutture adiacenti e alla somiglianza con le cellule normali). Per i tumori cerebrali si ricorre alla biopsia stereotassica. È un intervento neurochirurgico, che necessita di un piccolo foro nell’osso del cranio nel punto in cui, secondo le misurazioni del computer, è localizzata la neoplasia con prelievo di piccoli frammenti di tessuto malato. Questo tipo di biopsia si può eseguire in anestesia locale. Quando possibile, la diagnosi istologica dovrebbe essere completata da indagini immunoistochimiche e dalla ricerca di eventuali alterazioni genetiche che consentano di identificare sottotipi di neoplasie con diversa prognosi e diversa sensibilità ai trattamenti (www.aimac.it).

2.5 I metodi di cura

I trattamenti impiegati per la cura dei tumori cerebrali sono: chirurgia, radioterapia e chemioterapia. Questi metodi possono essere utilizzati anche in combinazione in base alle necessità del paziente. Il paziente durante il trattamento dovrebbe essere seguito da un gruppo di specialisti formato da un neurochirurgo, un neuroradiologo, un neuropatologo, un neurologo, un oncologo medico e un oncologo radioterapista che collaboreranno con personale di supporto come infermieri, dietisti e assistenti sociali. In alcuni casi, potrebbe essere necessario l'intervento di un fisioterapista, di un medico del lavoro e di un logopedista.
Non si deve tuttavia dimenticare il ruolo nascosto ma fondamentale del patologo e del biologo molecolare: devono fare la diagnosi e fornire la maggior parte dei fattori prognostici in grado di influenzare e guidare le scelte terapeutiche.

Chirurgia. E' il trattamento utilizzato con maggiore frequenza in caso di tumore cerebrale. Quando possibile, il chirurgo tenterà di rimuovere l'intero tumore; tuttavia, se l'asportazione del tumore dovesse danneggiare tessuti vitali, ne rimuoverà soltanto una porzione. Una rimozione parziale contribuirà ad alleviare i sintomi riducendo la pressione esercitata sul cervello sano e riducendo la quantità di cellule tumorali da trattare con la radioterapia o con la chemioterapia. Grazie all’uso di tecniche di microchirurgia, le complicanze post operatorie sono limitate.
Quando l’intervento chirurgico non è proponibile, al chirurgo viene richiesto solitamente l’esecuzione di una biopsia stereotassica, cioè il prelievo di una piccola quantità di tumore sufficiente per la diagnosi istologica e la definizione degli altri parametri prognostici.

Radioterapia. Consiste nell'utilizzo di radiazioni ad alta energia per danneggiare le cellule tumorali e fermarne la proliferazione. Spesso viene utilizzata anche per distruggere il tessuto tumorale che non può essere rimosso chirurgicamente o per distruggere le cellule cancerose residue dopo un'operazione; inoltre è utilizzata quando nessun intervento chirurgico è possibile. La radioterapia può essere somministrata in due modi differenti: come radiazioni esterne o interne. Le radiazioni esterne sono prodotte da un apparecchio di grandi dimensioni; generalmente le sedute si svolgono 5 giorni alla settimana per diverse settimane. Il piano di trattamento dipende dal tipo e dalle dimensioni del tumore e dall'età del paziente. Somministrare una dose totale di radiazioni per un periodo prolungato aiuta a proteggere i tessuti sani adiacenti all'area tumorale. Le radiazioni interne possono essere dirette sul tumore e sui tessuti circostanti, oppure, meno frequentemente, sull'intero cervello. A tutt’oggi quest’ultimo costituisce il trattamento standard; altre modalità terapeutiche non hanno dimostrato reali vantaggi.

Chemioterapia. E’ basata sull'utilizzo di farmaci che distruggono le cellule tumorali. Il medico può utilizzare un farmaco o una combinazione di farmaci somministrati per via orale o endovenosa. Spesso non è necessario il ricovero per sottoporsi a chemioterapia: infatti la maggior parte dei farmaci può essere somministrata in ambulatorio o nei reparti di day hospital.

2.5.1 Gli effetti collaterali

Gli effetti collaterali dei trattamenti anticancro sono di vario genere e dipendono dal tipo di intervento e dall'area a cui questo viene applicato. Inoltre, ogni persona reagisce in modo differente. Il medico pianificherà la terapia in modo da ridurre al minimo le manifestazioni avverse e seguirà il paziente con molta attenzione per intervenire all'insorgere di eventuali disturbi.
La craniotomia è un'operazione molto seria durante la quale i normali tessuti cerebrali possono riportare danni e può verificarsi un edema. Altri effetti dell'intervento comprendono debolezza, problemi di coordinazione, cambiamenti di personalità, difficoltà nel parlare e nel ragionamento. I pazienti potranno inoltre essere colpiti da accessi epilettici. La maggior parte degli effetti collaterali dell'operazione comunque si attenueranno o scompariranno col tempo (www.medinews.it).

2.6 La riabilitazione e il follow-up

La riabilitazione è un momento di particolare rilevanza nel percorso terapeutico. Gli obiettivi della riabilitazione dipendono dalle conseguenze, sul piano funzionale, della patologia e della terapia. Il programma riabilitativo può quindi coinvolgere figure diverse, dal fisioterapista al logopedista, dal neuropsicologo al tutor se il paziente è in età scolare.
Al termine della terapia vengono di solito programmate delle visite oncologiche di controllo, per valutare le condizioni del paziente e diagnosticare eventuali recidive, e, a seconda dei casi, la TAC o la risonanza magnetica. Altrettanto importante è il monitoraggio della tossicità dei chemioterapici utilizzati, che possono aumentare il rischio di insorgenza di leucemia o altre neoplasie (ibidem).





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III. Capitolo terzo
3. L’Associazione “Ali di Scorta” e l’intervento psicologico

3.1 L’Associazione “Ali di Scorta”

L’associazione “Ali di scorta” per la lotta ai tumori in età pediatrica è un’associazione nata dall’iniziativa di alcuni genitori di piccoli ricoverati nei reparti di Neurochirurgia Infantile ed Oncologia Pediatrica del Policlinico Universitario “Agostino Gemelli” di Roma. L’Associazione è stata fondata il 26 novembre 1999 ed è attualmente iscritta nel registro delle Organizzazioni non lucrative di utilità sociale (D 1862 DEL 20.05.04). Ha sede a Roma presso la sede del volontariato del Policlinico Universitario “Agostino Gemelli”.

3.1.1 Oggetto e scopo

L’associazione non ha scopo di lucro e persegue esclusivamente finalità di solidarietà sociale nel campo dell’assistenza sociale, socio-sanitaria e dell’assistenza sanitaria. Si propone di riunire, in forma di esclusivo volontariato, tutti i genitori e/o i tutori dei bambini in cura o in passato curati per malattie legate alla neurochirurgia ed alla oncologia in età pediatrica e coloro che si interessano alla realizzazione degli scopi della stessa associazione. E’ necessario sottolineare l’importanza di questo tipo di associazione. Oltre per il bambino malato, la situazione è stressante anche per i familiari, i quali, si trovano impotenti ad affrontare in modo risolutivo la malattia dei loro piccoli. Proprio per questo l’associazione vuole fungere da supporto, come già allude il nome della stessa struttura “Ali di scorta”, a tutte quelle famiglie che vivono tali situazioni. A volte, condividere significative esperienze con altri, aventi le stesse difficoltà, può aumentare la capacità di sopportare il dolore stesso e trasformarlo in qualcosa di positivo sia per chi lo vive e sia per chi gli è vicino.
“Ali di Scorta” si propone le seguenti finalità:
• Favorire e gestire iniziative atte al miglioramento ed allo sviluppo degli aspetti tecnico-medici, tecnico-organizzativi, sociali ed assistenziali, nonché degli specifici settori riguardanti l’informazione, la ricerca e la formazione delle persone coinvolte nelle malattie;
• Istituire premi, borse di studio o contributi per incoraggiare studi e ricerche scientifiche nell’ambito della neurochirurgia e della oncologia pediatrica;
• Provvedere a pubblicazioni periodiche o straordinarie;
• Stimolare rapporti con organizzazioni analoghe ed enti pubblici o privati;
• Assistere le famiglie in caso di particolare ed accertato stato di bisogno, sia sotto l’aspetto economico che burocratico.

Tutte le prestazioni fornite dagli aderenti sono volontarie e gratuite a qualsiasi titolo. Il patrimonio della associazione è costituito da beni mobili ed immobili che pervengano alla associazione a qualsiasi titolo, da elargizioni o contributi da parte di enti pubblici e privati o persone fisiche all’organizzazione di attività commerciali e produttive.
Per l’adempimento dei suoi compiti l’Associazione dispone delle seguenti entrate: dei versamenti effettuati dai fondatori originari, dei versamenti ulteriori effettuati da detti fondatori e da quelli effettuati da tutti coloro che aderiscono all’associazione, dei redditi derivanti dal suo patrimonio e degli introiti realizzati nello svolgimento della sua attività.

Gli introiti derivanti dall’organizzazione di attività commerciali e produttive marginali sono ad esempio quelli prodotti da:
• Attività di vendita occasionali o iniziative occasionali di solidarietà svolte nel corso di celebrazioni o ricorrenze o in concomitanza a campagne di sensibilizzazione pubblica verso i fini istituzionali dell’associazione;
• Attività di vendita a cura dei volontari dell’associazione e senza intermediari di beni acquisiti da terzi a titolo gratuito a fini di sovvenzione;
• Cessione a cura dei volontari dell’associazione di beni prodotti dagli assistiti e dai volontari stessi;
• Organizzazione di spettacoli di genere teatrale o musicale, con prestazioni gratuite degli artisti intervenuti;
• Organizzazione di sottoscrizioni volontarie a premi e di lotterie;
• Organizzazione di mostre di fotografie, quadri, oggetti di artigianato ecc. acquisiti esclusivamente a titolo gratuito.

Inoltre l’Associazione si avvale della collaborazione di altre figure professionali come la psicologa, che offre supporto psicologico alle famiglie all’interno dei reparti di Neurochirurgia e Oncologia Pediatrica con relativi tirocinanti da lei supervisionati e la responsabile delle relazioni esterne che si occupa di organizzare eventi, spettacoli di genere teatrale o musicale, mostre per ricavare introiti destinati agli obiettivi dell’Associazione stessa. Nonostante la struttura gerarchica dell’Associazione, le relazioni che vi sono al suo interno sono spesso di tipo amicale: alcuni componenti della stessa Assemblea degli Aderenti alla Associazione hanno avuto nel corso della loro vita esperienze personali riguardanti lotte contro i tumori cerebrali infantili e sono mossi, nel raggiungimento dei loro scopi, non solo da motivazioni esterne ma soprattutto interne. Questo facilita un clima di supporto, comprensione e di livellamento dei ruoli istituzionali.
L’Associazione è inserita all’interno di una vasta rete di relazioni. Prima tra tutte il Policlinico “Agostino Gemelli” in quanto alcune delle sue attività, in particolare quella del supporto psicologico alle famiglie, viene svolta all’interno dei Reparti di Neurochirurgia Infantile e Oncologia Pediatrica. Inoltre l’Associazione ha sede in Roma presso la sede del Volontariato del Policlinico Universitario. “Ali di Scorta” ha contatti con enti locali pubblici come il Comune di Roma e Regione Lazio e anche con i mass-media che aiutano l’Associazione nel reperire fondi destinati al raggiungimento degli scopi finora descritti. Importantissimo contatto è infine la “Federazione Italiana Associazione Genitori Oncologia Pediatrica” (www.fiagop.it) che rappresenta l’interlocutore unico a livello nazionale nei confronti delle strutture pubbliche e private. Il Presidente dell’Associazione “Ali di Scorta” è stato eletto membro del Consiglio Direttivo della FIAGOP. Le diverse Associazioni si sono riunite in Federazione per esprimere la loro solidarietà di gruppo, potenziando così le capacità di comunicazione, informazione ed intervento a livello nazionale per sconfiggere queste drammatiche patologie. Lo scopo primario è dare a tutti i bambini malati maggiori opportunità di cura, migliorare la qualità di vita cercando di render meno doloroso il loro cammino verso il traguardo della guarigione.

3.2 Intervento psicologico

In questo paragrafo ho deciso di trattare i tumori cerebrali infantili adottando una visione totalmente psicologica soffermandomi su alcuni aspetti psicologici legati a questa patologia. La necessità di esporre tali argomenti, come il concetto di morte nel bambino, il bambino oncologico e la sua famiglia ed i meccanismi di difesa specifici di tale malattia, è stata determinata da una mia esigenza di acquisizione di conoscenza affinché potessi capire in profondità le varie dinamiche psicologiche che potevano diramarsi nel contesto oncologico in modo da organizzare e potenziare le mie competenze psicologiche in tale ambito. Inoltre, la paura della morte è una delle paure più comuni ed antiche. Avendo tale paura la razionalizziamo cercando di eluderla attraverso affermazioni del tipo: “la morte è inevitabile, ogni cosa muore” o “l’unica certezza della vita è la morte”. Ma se vogliamo essere liberi da questa angoscia è sicuramente necessario sapere di cosa si tratta ed indagarne la natura. Quindi, penso di aver scelto questo argomento anche per comprendere quanto tale pensiero mi appartenesse, attuando un meccanismo di difesa che si è risolto, non con evitamento ma con l’affrontare sempre situazioni legate a questo concetto. Addentrarmi nella “dimensione della morte” è stato il mio modo di “esorcizzare” tale paura cercando di capire cosa si possa provare in queste situazioni ma soprattutto iniziando ad accettare che ci sia una fine per tutto. Osservando le varie sfaccettature con le quali le persone affrontavano la loro malattia e il loro dolore, nonostante sia stato toccante, ha apportato in me un profondo arricchimento personale dandomi una visione meno superficiale della nozione.
Per questi motivi propongo al lettore tali trattazioni affinché, attraverso l’esposizione e l’acquisizione di alcuni concetti, possa avvicinarsi a questa dimensione aiutandolo a comprendere la psicologia del malato oncologico e delle persone che lo accompagnano lungo le varie fasi che contraddistinguono questa patologia.

3.2.1 Il concetto di morte nel bambino

Noi adulti spesso riteniamo che un bambino è tanto lontano dal pensiero della morte quanto lo è la felicità dalla tristezza o la luce dalle tenebre. Siamo infatti portati a pretendere che il mondo dei bambini rimanga incontaminato dalle angosce dei grandi. La consapevolezza del dolore e della morte, intesa non solo come esasperazione dell’esperienza dolorosa ma anche come un evento in sé, nasce spontanea lungo il processo di crescita del bambino mano a mano che maturano le difese dell’io (Di Giovanni S., 2004).
Il concetto di morte fa parte del bagaglio di curiosità e di fantasia che il bambino nutre nei confronti delle cose del mondo e costituisce l’indispensabile premessa per una adeguata costruzione delle sue difese. La prima esperienza riguardo la morte avviene alla fine del primo anno, in coincidenza con la separazione dalla madre. Il bambino infatti stabilisce in questa circostanza, seppure in una forma limitata dal punto di vista cognitivo, l’equivalenza tra assenza e non esistenza. Quando il genitore è assente è come se non esistesse più. Immediatamente dopo, però, sperimenta la propria capacità di controllo su questo evento: se è vero che la madre sparisce può però tornare, anzi la si può far tornare attraverso il comportamento ricattatorio. In questo primo stadio il concetto di morte, dunque, essendo legato all’assenza-separazione, è considerato un evento reversibile.
Una prima modifica nel processo di consapevolezza della morte avviene tra i due e i quattro anni, quando il bambino comincia ad avere paura della propria morte in quanto causata dagli oggetti che lo circondano, da un evento atmosferico o dal buio; il pensiero di morte può affiorare anche in rapporto ad un sentimento di frustrazione e di rabbia. In ogni caso indica una più complessa percezione del proprio ambiente. Dopo i tre anni, l’idea di morte, pur continuando a rappresentare un evento reversibile, si associa all’idea di violenza: le fantasie di morte vengono infatti rivolte a persone che, pur costituendo per lui un importante legame affettivo, rappresentano il polo d’attrazione della sua aggressività. Per il bambino di questa età non sono più gli oggetti inanimati l’origine della paura della propria morte, ma i protagonisti animati della sua più ricorrente fantasia: la strega malefica della fiaba, l’orrendo mostro dei primi giornaletti, il tremendo robot del cartoon televisivo.
Dunque il concetto di morte è ancora dissociato dall’universalità, ovvero è un evento che riguarda tutti, e dalla causalità. Le ragioni della cessazione della vita sono ancora magiche e misteriose (Ibidem).
Dopo i nove anni, l’idea di morte subisce un secondo e fondamentale cambiamento; perde la sua connotazione di evento transitorio, di strumento di ricatto e di violenza per essere vissuto come evento definitivo, universale e irreversibile. La morte diventa anche attribuibile ad una persona diversa da sé. A nove anni, un bambino che ha affrontato due interventi chirurgici, disse: “mamma, è meglio che mi operino perché sono troppo giovane per morire!”
Ma non in tutti i bambini che hanno superato i nove anni la consapevolezza della morte subisce questa trasformazione. L’età non è l’unico fattore di riferimento nell’analisi dello sviluppo del concetto di morte. Lo stato emotivo e lo sviluppo cognitivo costituiscono delle variabili importanti nel processo di acquisizione. Secondo Di Giovanni, la possibilità di superare l’angoscia di morte da parte del bambino risiede essenzialmente nella capacità di contenimento manifestata dagli adulti con i quali interagisce. Il bambino può esprimere e superare l’angoscia legata alla sofferenza fisica ed alla paura per il suo progressivo peggioramento, mettendo in atto quella forma di simbiosi con i genitori già sperimentata nelle prime tappe della sua esistenza e che lo ha garantito dai pericoli. Solo l’insopprimibile ansia dei genitori lo costringerà ad agire una stessa protettività nei loro confronti, negandogli la consapevolezza del suo stato. Tale meccanismo di difesa viene definito adultismo: il bambino rassicura i genitori non lamentandosi, facendo finta che tutto è come prima, evitando domande sulla malattia quindi negando di sapere per evitare che la sua consapevolezza aumenti l’angoscia dei genitori. Quando avviene questa inversione dei ruoli, dove è il bambino a proteggere il genitore, il bambino sarà solo con le sue paure e angosce (Di Giovanni S., 2004).
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12/07/2009 08:22

3.2.2 Il bambino oncologico e la sua famiglia

A differenza delle affezioni acute, che alterano le abitudini di vita solo temporaneamente, le malattie croniche incidono continuamente sulla vita del paziente e dei suoi familiari comportando problematiche specifiche che interferiscono in misura variabile con la qualità della vita del paziente, le sue aspirazioni e i suoi progetti. Di fronte a una malattia cronica di una certa gravità, l’intera famiglia, oltre allo stress causato dalla diagnosi, deve affrontare una serie di cambiamenti di abitudini che influiscono sui rapporti tra i suoi vari membri.
J. de Ajuriaguerra (1979) parla di un’evoluzione delle reazioni familiari di fronte alla malattia che si articolano in una serie di fasi: il periodo dello shock iniziale, il periodo della lotta contro la malattia e, infine, il lungo periodo di riorganizzazione e di accettazione. Le fasi possono variare per durata e gravità da una famiglia all’altra; lo shock iniziale è estremamente grave e tale da produrre una completa disorganizzazione o in altri casi, invece, è di breve durata e tale da venir superato facilmente (Senatore Pilleri, Oliverio Ferraris, 1989).
Nel momento in cui una diagnosi di malattia oncologica di un bambino irrompe in una famiglia, una gran quantità di meccanismi di difesa si organizzano nel disperato tentativo di “fermare il tempo”, impedendo così, che il divenire della vita porti allo scempio della morte.
Una reazione molto diffusa all’insorgere della malattia è il diniego, che solitamente si manifesta nell’incredulità della diagnosi, nelle critiche al personale sanitario, nella ricerca di una disconferma ai propri tragici timori. E’ proprio il diniego che porta talvolta a pellegrinaggi inutili e stressanti alla ricerca di un parere diagnostico diverso, ed è proprio il diniego che rende più difficile la comunicazione con il medico. Inizialmente il diniego può aiutare a superare il trauma della diagnosi ma se tale atteggiamento si protrae ed è associato ad aggressività e risentimento, esso ostacola l’accettazione della malattia e delle cure (Senatore Pilleri, Oliverio Ferraris, 1989).
Questo “bisogno di negare” non è una caratteristica esclusiva della prima fase di reazione in quanto può manifestarsi in ogni momento del processo adattivo. Per mantenere la speranza e continuare a vivere, afferma Kubler-Ross, non si può affrontare la morte continuamente. E’ importante per chi assiste il paziente comprendere queste apparenti contraddizioni e rispettare in ogni momento, le sue modalità di difesa dall’angoscia (E. Kubler-Ross, 1984).
Al diniego possono essere associati, o far seguito, sentimenti di ansia e depressione, e talvolta sensi di colpa e risentimenti. Il risentimento, solitamente viene diretto contro il personale medico, gli amici, il coniuge e più raramente contro il bambino; i sensi di colpa si evidenziano, in particolare, qualora la malattia sia congenita o ereditaria. Molti genitori si colpevolizzano ritenendosi la causa delle difficoltà del figlio o per non averlo seguito a sufficienza e, come reazione, gli dedicano quasi tutte le loro energie assumendo atteggiamenti iperprotettivi. Talvolta la malattia è sentita come una giusta punizione alla propria inadeguatezza parentale che determina stati di profonda prostrazione e depressione.
Se preesisteva una famiglia serena, tali squilibri possono essere superati più facilmente; tuttavia vi è quasi sempre una fase iniziale piuttosto difficile, non soltanto per gli aspetti emotivi connessi al cambiamento ma anche per le trasformazioni delle abitudini di vita.
Nell’ambito dell’attività clinica con le famiglie che devono confrontarsi con una malattia somatico-cronica, almeno per quanto emerge nella maggior parte della letteratura in merito, l’attenzione sembra sia stata focalizzata per lo più sulla situazione della perdita imminente, quando cioè la morte è ormai un evento certo oppure sull’impatto che perdite non elaborate precedenti hanno sulle dinamiche della vita familiare (Bowlby, 1979). Relativamente poca attenzione sembra sia stata prestata, invece, al “processo di anticipazione della perdita” (Chilman C., Nunnally E., Cox F., 1988), implicita in molte malattie somatiche-croniche e che può essere altrettanto dolorosa e modificante per la famiglia e per l’individuo quanto la morte stessa, sia alla miriade di sentimenti e di transazioni associati a tale processo e al modo in cui interferiranno nel tempo con tutte le dimensioni della vita familiare. L’“anticipazione della perdita” deve essere, infatti, considerata una esperienza ben distinta da quella del “lutto anticipato”. Mentre quest’ultimo si riferisce più strettamente ad emozioni individuali proprie della fase terminale, l’“anticipazione della perdita” è un’esperienza che coinvolge, lungo tutto il corso della malattia, un vasto raggio di emozioni intense e di interazioni complesse che si sviluppano in risposta alle grandi sfide e ai grandi sforzi che l’individuo malato e la sua famiglia si trovano ad affrontare. Essi cominciano a sviluppare una storia di rapporti con la malattia e con tutto ciò che implica, sin dal momento della diagnosi iniziale, situazione in cui tutti gli sforzi sono tesi ad alimentare la speranza e al tempo stesso prepararsi ad una possibile “perdita”, nel senso lato di cui abbiamo accennato, lungo l’intero decorso della malattia. Il momento della comunicazione della diagnosi è un momento altamente emotivo e di grande vulnerabilità; eppure, molto spesso, ancora oggi si tende a trascurare quanto il colloquio con lo staff medico sulla natura della malattia, sulla sua prognosi, sulle prescrizioni da adottare costituiscano un “evento cornice” molto potente per i membri della famiglia. Essi, sia individualmente che come unità familiare, si trovano, spesso all’improvviso, a dover affrontare simultaneamente la perdita della “normalità di vita” che avevano prima della diagnosi e tutte le ulteriori “minacce di perdita” che l’evolvere della malattia presenterà loro nel tempo.
Al momento della comunicazione della diagnosi, si sviluppa uno stato ipervigilante, ansioso o a volte come una sorta di “trance” che rende la famiglia altamente ricettiva a comprendere o a non comprendere i messaggi che vengono rivolti su come destreggiarsi nelle difficoltà e nelle incertezze a cui ci si trova di fronte. E tutto ciò che viene detto, o non decifrato, o lasciato ambiguo da parte dei medici diventa un elemento fortemente critico per il malato e per i suoi familiari. Dovrebbe essere valutata, ma purtroppo ciò accade molto raramente, l’eventuale esistenza di modalità e sistemi di valori e di credo differenti, dal punto di vista etnico-culturale, tra staff medico e famiglia, differenza che, soprattutto nel momento della comunicazione della diagnosi, può indurre a confusione e magari nel tempo, a comportamenti conflittuali e disfunzionali rispetto alla prescrizione di cura. L’esperienze di Chilman e collaboratori, (Chilman C., Nunnally E., Cox F., 1988), hanno evidenziato la necessità di una visione sistemica, complessa nelle sue implicazioni a più livelli, dell’“anticipazione della perdita” lungo l’intero decorso della malattia. Si sviluppa nel tempo, infatti, una mutua influenza delle dinamiche familiari con gli effetti della minaccia di perdita nelle varie persone:
• nel malato rispetto ai propri familiari;
• nei familiari nei confronti del membro malato;
• nel membro malato rispetto a se stesso;
• nei singoli familiari relativamente a se stessi.
Malattie ad andamento recidivante e dall’esito imprevedibile si riacutizzano in modo spesso violento e possono anche causare morti improvvise. Così che, periodi di stabilità o comunque di relativa remissione dei sintomi, alternati a periodi di recrudescenza, fanno sì che i problemi e le angosce relativi all’ “anticipazione della perdita”, oscillino tra l’essere in primo o in secondo piano rispetto all’impatto emotivo che provocano. Le famiglie, sono spesso fortemente provate sia dalla frequenza del passaggio da una situazione di crisi ad una situazione di non crisi e viceversa, sia dall’incertezza relativamente a quando una ulteriore situazione di “minaccia di vita” si potrà ripresentare. Perciò, poiché il timore prevalente riguarda il rischio di una crisi che possa insorgere all’improvviso ed essere letale, spesso le famiglie, per proteggersi dall’angoscia del “potrebbe succedere”, modificano l’organizzazione familiare e livelli di intimità sia tra di loro che con il familiare malato. Si può arrivare anche a situazioni estreme in cui, sempre come difese dell’angoscia, la persona malata diventa, per la sua famiglia, morta dal punto di vista psicologico anche se è invece viva dal punto di vista fisico. Le incertezze riguardo al decorso della malattia spingono spesso le famiglie a riorganizzarsi escludendo il malato, o all’estremo opposto, a minimizzare le esigenze poste dalla malattia e ad aspettarsi, del tutto irrealisticamente, che il familiare malato possa mantenere il ruolo che aveva da sano all’interno della famiglia, oppure ancora a stringersi intorno al malato in un rapporto iperprotettivo che finisce con il limitare le possibili risorse di autonomia. Esistono, quindi, strade diverse, che dipendono anche dal livello di coesione presente nella famiglia e dal suo grado di flessibilità e tolleranza rispetto alle incertezze poste dalla malattia. Nelle situazioni di malattie somatico-croniche gravi vi sono passaggi cruciali che mettono in crisi le organizzazioni familiari precedenti in quanto richiedono cambiamenti a volte fortemente discontinui che impegnano notevolmente le famiglie nel trovare nuove forme di adattamento (Falicov C. J., 1988).
Spesso l’esperienza emozionale delle persone coinvolte fluttua tra sentimenti aspri come la delusione, la rabbia, la disperazione, il senso di colpa ed altri come un intensificato senso dell’intimità, della complicità, della speranza, con un aumentato apprezzamento per gli avvenimenti quotidiani. Tutt’altro che raro è il verificarsi di una grande ambivalenza verso il familiare malato, con forti oscillazioni tra movimenti di avvicinamento e di allontanamento, con fantasie di fuga da una situazione vissuta come insopportabile ed eventuali sensi di colpa collegati a queste fantasie. Specialmente con malattie somatiche croniche che implicano una minaccia di perdita a lungo termine, emozioni complesse possono influenzare nel tempo lo sviluppo delle dinamiche familiari e, proprio nei momenti di passaggio, a cui si accennava prima, la persona malata e i suoi familiari avrebbero bisogno di maggiore aiuto e sostegno (Elliot, 1993).
La figura della madre in rapporto al figlio è stata la più studiata. Ciò è d’altronde comprensibile perché sono in genere le madri a essere maggiormente coinvolte nell’assistenza quotidiana del bambino e a passare più tempo con lui. Sono quasi sempre le madri che accompagnano il figlio dal medico e che partecipano attivamente e praticamente alla gestione della malattia. Diversi autori hanno descritto gli “stadi” attraverso cui le madri passerebbero prima e dopo la diagnosi. Essi sostengono che dapprima vi è la fase dello “shock” o dell’incredulità ( “Non può essere così, hanno sbagliato…”); in seguito vi è un periodo di rabbia e di risentimento ( “E’ colpa dei medici…” , “E’ colpa di mio marito che l’ha trascurato…”); quindi compaiono momenti di autocolpevolezza e di autoaccusa (“ E’ colpa mia…”, “Ho sbagliato”); infine vi è un periodo di tristezza, cui può far seguito ora l’accettazione dell’evenienza ora il persistere di una psicopatologia di tipo depressivo.
Il sostare più o meno a lungo negli stadi indicati è una questione che dipende da vari fattori, spesso di ordine individuale. Le modalità di reazione materna possono essere le più varie e possono andare da una eccessiva sollecitudine al rifiuto, da una considerazione massima per i problemi posti dalla malattia, al disprezzo nei confronti delle indicazioni fornite dal medico. La variabilità di tali reazioni è difficile da spiegare. Alcuni autori danno importanza alla storia di sviluppo delle madri stesse, ai loro rapporti con i genitori, alle loro precedenti esperienze di perdita. Altri danno importanza alla loro situazione attuale, ai loro rapporti con il marito, alle possibilità economiche della famiglia e alla sua struttura. Anche l’età del bambino al momento della diagnosi, la gravità della malattia e la prognosi possono avere, ovviamente, un peso rilevante.
Le conseguenze delle malattie croniche infantili sui padri sono state oggetto di minore attenzione, anche perché molti padri trascorrono parecchie ore lontano da casa e hanno rapporti sporadici con il personale sanitario. In apparenza, molti sembrano più distaccati e meno coinvolti di quanto non siano le madri; in realtà è difficile sostenere questa tesi, perché un certo tipo di educazione impartita agli uomini impedisce loro di verbalizzare il dolore e di mostrare apertamente la loro vulnerabilità. Perciò, se alcuni padri restano marginali, altri collaborano con la moglie nelle cure del figlio malato e altri ancora si fanno carico del problema lasciando alla moglie le incombenze meno pesanti.
La presenza di un bambino malato cronico può creare qualche implicazioni ai fratelli.
J. Vance (1980) ha potuto constatare che parecchi fratelli di bambini con malattie croniche gravi hanno prestazioni scolastiche insoddisfacenti e tendono ad isolarsi e a non avere amici. Nella pratica clinica si incontrano molti fratelli disturbati: l’entità del disturbo non è quasi mai da correlarsi alla gravità della malattia bensì alle relazioni familiari alterate. Particolarmente a rischio sono i bambini con precedenti stress e con relazioni non buone con i loro genitori già prima dell’esordio della malattia (Taylor, 1980). Spesso i fratelli del bambino malato rischiano di essere i “grandi assenti” in questo scenario. Solo raramente essi partecipano alle fasi precedenti della malattia a causa della lontananza, della scuola, delle regole imposte nel reparto. Di fronte alla consapevolezza che il bambino morirà, lo spazio di attenzione rivolta loro dai genitori sembra restringersi ulteriormente. Molti fratelli parlano con sofferenza della scarsità di informazioni ricevute, dell’esclusione dal rapporto diretto con gli altri membri del nucleo familiare, della mancanza di fiducia nei loro confronti, che si traducono in un senso di profondo abbandono. Nonostante alcune sollecitazioni per un più diretto coinvolgimento, i genitori oppongono quasi sempre motivazioni razionalmente molto valide che nascondono in realtà, il desiderio inconscio di risparmiare almeno agli altri figli l’insostenibile dolore che li minaccia (Di Giovanni S., Paglia P., 2001).
La necessità di utilizzare i meccanismi di difesa per antagonizzare l’evolvere del tempo trasforma ben presto l’ariosità e la fluidità delle relazioni familiari, garanti peraltro dei processi di individuazione, in una vera e propria cristallizzazione delle relazioni. Il naturale senso di appartenenza, insito nella famiglia, viene modificato in un sentimento tanto soffocante quanto inevitabile di massificazione delle individualità al suo interno e ogni istanza di fisiologica separazione non può che essere vissuta come presentificazione della morte.
Le relazioni familiari sono mediate esclusivamente dalla malattia e dall’angoscia di morte a questa legata. Ma proprio questa reciproca protettività porta ad una situazione paradossale che vede la fusione come difesa dalla morte e al tempo stesso causa di morte. La protettività, infatti, agisce come potente meccanismo omeostatico nell’evoluzione di un ciclo vitale, proprio perché tende a cristallizzare le relazioni tra gli individui. Tutto ciò si traduce in un’anticipazione paradossale della morte nel tentativo sterile di evitarla: bloccare l’evoluzione del ciclo vitale non è che attualizzare la morte (Di Giovanni S., Paglia P., 2001).

3.2.3 I meccanismi di difesa e informazioni mediche in Nch Infantile

La scoperta di una malattia potenzialmente mortale al proprio figlio induce i genitori a scontrarsi con ciò che precedentemente era impensabile: “mio figlio può morire: perché è capitato a me?”. Spesso nello sforzo di darsi una ragione si cercano i motivi di una sorta di nemesi del fato per qualche precedente colpa. Terapie assunte nel periodo antecedente o contemporaneo alla gravidanza oppure problemi personali o relazionali, ritornano come “scheletri nell’armadio”, come se avesse potuto contaminare la vita del proprio figlio. Il sentimento di “partecipazione” alla malattia del bambino rende questa esperienza doppiamente dolorosa provocando una dispersione nel pozzo del passato di energie che invece sarebbero necessarie per affrontare la malattia (Di Giovanni S., 2003).
La paura della morte conseguente alla consapevolezza della gravità della malattia costituisce una minaccia che viene evitata attraverso meccanismi di difesa. Le difese inducono una sorta di anestesia, per evitare o sopportare il continuo confronto con la morte attraverso una fuga dal piano emotivo e/o cognitivo e dall’agire. Se è impossibile “non sapere”, almeno “non sentire” può apparire istintivamente una via di fuga più accettabile per salvaguardare uno pseudo-equilibrio. Le reazioni emotive dei genitori possono quindi apparire incongrue alla gravità dell’informazione comunicata dal medico. Tali incongruità sono dovute proprio alla messa in atto di meccanismi di difesa, cioè di risposte automatiche di cui spesso si è inconsapevoli. Le difese possono svolgere una funzione adattiva o difensiva secondo la loro gravità, la loro rigidità e il contesto nel quale si verificano (Ibidem).
I meccanismi di difesa agiscono influenzando la rielaborazione dell’informazione del soggetto, tanto da poter distorcere percezioni, falsificare ricordi e bloccare azioni. Trovo necessario soffermarmi su tali difese, qui a seguito riportate, elaborate e descritte dalla psicologa Di Giovanni, esperta nel trattamento dei bambini colpiti da tumori cerebrali infantili. Questi concetti sono caratterizzati da una visione molto specifica e ancorati ad un contesto prettamente oncologico.
Le difese più facilmente riscontrabili in coloro che si trovano di fronte ad una minaccia di vita sono:
• Negazione. Il soggetto nega attivamente che un sentimento, un comportamento o un’intenzione, riguardante il presente o il passato, sia stata o sia presente, anche se l’evidenza afferma il contrario. Questa difesa consente di non ammettere o di non prendere coscienza di un’idea o di un sentimento che si ritiene potrebbe causare conseguenze negative come vergogna, rammarico o altri affetti dolorosi. Il soggetto è del tutto inconsapevole dei pensieri e delle emozioni inerenti alla sua esperienza. E’ proprio il diniego o la negazione ad essere la difesa che compare comunemente in pazienti gravemente malati con una funzione protettiva soprattutto nella prima fase di adattamento alla minaccia di morte. E’ una sorta di facciata che permettere di sopravvivere allontanando da sé la vera percezione dei sentimenti e delle nozioni. Nei genitori sono frequenti, per esempio, minimizzazioni dei deficit o del ritardo cognitivo o motorio del bambino.
• Rimozione. E’ una difesa che protegge il soggetto dalla consapevolezza di ciò che prova o che ha provato in passato. A differenza della negazione dove sia l’idea che l’affetto sono al di fuori della consapevolezza, nella rimozione gli aspetti emotivi sono presenti e percepiti mentre quelli cognitivi restano al di fuori della coscienza. Esempi di rimozione sono lapsus mentre si dice qualcosa che poi si nega o che è l’opposto di ciò che si afferma di voler dire, oppure il dimenticare più volte quanto si sta dicendo nel mezzo di una discussione, dimenticare particolari significativi di eventi traumatici. Nel contesto medico, i genitori possono “dimenticare” i rischi dell’intervento del bambino dei quali sono stati informati con precisione dal chirurgo.
• Dissociazione. L’individuo affronta conflitti emotivi e stress interni o esterni attraverso un’alterazione temporanea del proprio stato psichico o della propria identità, che gli consente di sentirsi meno colpevole o minacciato. Un particolare affetto o impulso vissuto come troppo minaccioso, troppo conflittuale, o troppo ansiogeno viene reso inconscio e contemporaneamente espresso attraverso un’alterazione della coscienza. Nel contesto medico una lunga degenza del proprio figlio, ad esempio, in condizione di coma vigile, obbliga un costante contatto con la paura della morte. Il genitore può parlare della malattia del bambino con “indifferenza”, dando al medico il messaggio affettivo che l’evento in questione sembra quasi non essere stato registrato nel suo significato, pur non negandone l’esistenza.
• Anticipazione. L’uso di questa difesa permette all’individuo di mitigare gli effetti delle tensioni o dei conflitti futuri. Essa implica la capacità di tollerare l’ansia che si manifesta quando il soggetto immagina quanto possa essere angosciante una situazione futura. Attraverso tale prova affettiva, ad esempio, “come mi sentirò quando morirà mio figlio” e la pianificazione delle risposte future, il soggetto diminuisce gli aspetti angoscianti del futuro fattore stressante. Sono i genitori che partecipano attivamente al funerale di un bambino conosciuto durante la malattia, mettendosi al primo banco accanto al genitore del bambino morto.
• Aggressione passiva. E’ caratterizzata dal modo indiretto, velato e passivo con il quale vengono espressi l’ostilità e i sentimenti di rancore nei confronti degli altri. La persona che fa uso di questa difesa ha imparato ad attendersi una punizione, una frustrazione o un rifiuto se esprime bisogni o sentimenti direttamente a qualcuno che ha potere o autorità su di lui. Il soggetto si sente impotente e pieno di risentimento. Le richieste di attenzione, di aiuto, o il desiderio di esprimere sentimenti sono presenti ma non vengono verbalizzati o sono verbalizzati troppo tardi, mentre il risentimento viene espresso tramite l’inettitudine, i ritardi ecc. come mezzo per irritare gli altri. Questo meccanismo di difesa è molto presente nei genitori del bambino malato rispetto alla propria famiglia d’origine. Ci sono genitori che non hanno mai “permesso” loro di ricevere una visita in ospedale anche a seguito di lunghi ricoveri, per poi a tempo debito lamentarsene.
• Scissione. L’individuo affronta conflitti emotivi e stress interni o esterni considerando se stesso o gli altri come completamente buono o completamente cattivi, non riuscendo ad integrare le caratteristiche positive e negative di sé e degli altri in immagini coese; spesso lo stesso individuo sarà alternativamente idealizzato e svalutato. I genitori che adottano tale difesa possono mutare rapidamente l’opinione del proprio medico lodandolo o biasimandolo sulla base di informazioni parziali o incomplete.
• Ipocondria. Comporta l’uso ripetuto di una o più lamentele nelle quali il soggetto chiede apparentemente aiuto. Contemporaneamente, poi, il soggetto, rifiutando suggerimenti, consigli o qualsiasi cosa gli altri gli offrano, esprime sentimenti nascosti di ostilità e risentimento. E’ dunque una difesa contro la rabbia che il soggetto prova ogni volta che sente la necessità di dipendere emotivamente dagli altri. La rabbia sorge dalla convinzione, o spesso dall’esperienza passata, che nessuno soddisferà i suoi bisogni. E’ il tipico soggetto che si lamenta sempre con il medico o inscena una pantomima su tutti i suoi acciacchi fisici eludendo i tentativi di indagare a fondo un disturbo, di affrontarlo e capirlo efficacemente e contemporaneamente si lamenta della mancanza di aiuto. Oppure è il soggetto che si lamenta spontaneamente di come gli altri, medici e/o parenti, non si preoccupino realmente o abbiano di fatto peggiorato il problema, anche quando il suo resoconto dimostra il contrario. In questi casi il medico, dopo aver eseguito un difficile e delicato intervento, verrà investito da tutta una serie di preoccupazioni del genitore su aspetti evidentemente secondari, tralasciando gli importanti risultati raggiunti.
• Fantasia. L’individuo affronta conflitti emotivi e stress passando tempi eccessivi a sognare ad occhi aperti, evitando così le relazioni umane, un agire più diretto ed efficace o la soluzione dei problemi. La fantasia diventa un mezzo per non affrontare o risolvere problemi esterni o per esprimere o soddisfare i propri sentimenti e desideri; permette di ottenere una qualche transitoria e sostitutiva gratificazione fantasticando una soluzione a un conflitto con il mondo reale. Il soggetto, mentre utilizza la fantasia, si sente bene e allontana momentaneamente la convinzione di essere impotente; infatti mentre fantastica può essere attiva la convinzione opposta di essere onnipotente, di poter fare qualsiasi cosa. Nel contesto medico, sono frequenti “innamoramenti” da parte delle bambine nei confronti del medico curante e chiacchierate serali “goliardiche” tra le mamme (Di Giovanni S., 2003).
Il bisogno del genitore è di poter avere un’area di illusione, nella quale e per mezzo di, evitare l’impatto diretto con l’evento della morte. In questa area di illusione parziale coesistono entrambi le componenti: quella che sa che la morte è imminente e quella che si illude di poter avere ancora tempo di vivere e di fare le cose che non ha fatto nel passato. L’area illusionale si pone, quindi, come una delle risorse più valide per mediare con una realtà così drammatica, e al tempo stesso diviene il mezzo con cui un genitore può accettare di identificare le sue risorse, per trascorrere il tempo che rimane al proprio figlio nel modo più costruttivo possibile. L’illusione di essere eterno, quando interagisce costantemente con la realtà, diviene un rifugio consolatorio dalla realtà dell’impotenza e della frustrazione e permette di tollerare la propria reale situazione di perdita. Diviene, di fronte alla morte, un patrimonio di risorse interne ed emotive, che si contrappone all’irreparabile, ovvero la morte nel presente o nel futuro, gli errori, i fallimenti, le colpe, le occasioni perdute, consentendo di dar valore e significato a ciò che di positivo e di possibile esiste anche di fronte alla realtà più tragica (Di Giovanni S., 2003).
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3.2.4 Il ruolo dello psicologo e il suo intervento

L’ingresso dello psicologo nella struttura ospedaliera è in Italia un fatto recente che negli ultimi anni ha subito delle modificazioni. Infatti, mentre sino ad alcuni anni fa lo psicologo operava unicamente negli ospedali psichiatrici, oggi la sua opera è richiesta in vari altri reparti: pediatrici, neurologici, ginecologici. In particolare, lo psicologo dell’età evolutiva ha acquistato un ruolo sempre più importante anche perché molte malattie dell’infanzia, un tempo mortali, hanno assunto un decorso cronico. Il ruolo dello psicologo in ospedale non è comunque di facile definizione; sia perché si inserisce in un ambiente dove esistono modalità di lavoro consolidate ormai da molti anni, sia perché la stessa realtà ospedaliera, che mette di fronte alla sofferenza e talvolta alla morte, può essere sconvolgente e coinvolgente anche per gli operatori. E’ perciò necessario che egli conosca la malattia per la quale è richiesto il suo intervento, le caratteristiche e le sofferenze ad esse connesse e che abbia imparato, attraverso una adeguata formazione professionale, a gestire la proprie ansie connesse alla malattia e alla morte (Senatore Pilleri R., Oliverio Ferrarsi A., 1989). In questo tipo di contesto, quindi, il ruolo dello psicologo è di fondamentale importanza sin dal momento iniziale nel quale i medici comunicano la malattia ai genitori. Una delle primarie finalità dello psicologo è quella di contenimento: contenere l’angoscia dei genitori provocata dall’avere un bambino gravemente ammalato, stando con lui e la sua famiglia come accompagnatore in un lungo viaggio che fa dell’incertezza e del buio una regola di vita. A volte è necessario contenere un genitore affinché a sua volta poi riesca a contenere il figlio. Inoltre, lo psicologo, deve garantire al bambino delle relazioni familiari in cui poter esprimere le proprie paure e ricevere rassicurazione e protezione; deve impedire quell’inversione dei ruoli attraverso cui il bambino protegge il genitore; deve ridefinire le relazioni familiari precedenti l’insorgenza della malattia e soprattutto rispettare la specificità del contesto medico in cui si opera, non proponendo né ai pazienti né ai medici, regole di setting psicoterapeutico che snaturerebbero tale contesto. Si ha l’opportunità di accompagnare la famiglia attraverso l’intero iter della malattia che può vedere, dopo la diagnosi: una remissione seguita dalla guarigione, una persistenza della malattia, una o più recidive che comportano nuovi trattamenti che si possono tradurre in trattamenti palliativi di fronte ad un’incurabile progressione della morte. L’atteggiamento dello psicologo, in tale ambito, è quello di una presa in carico dell’intero nucleo familiare, intendendo il supporto psicologico come un servizio integrato nel sistema di cura, ma nel rispetto di quella che si ritiene la relazione fondante, cioè la relazione oncologo-famiglia. La famiglia propone un linguaggio concreto legato alla malattia neoplastica e la possibilità di intervento psicologico risiede nella capacità dell’equipè di uniformarsi a questo linguaggio, rinunciando ad una metodologia specifica di contesti più strettamente psichiatrici. La malattia oncologica del bambino irrompe nella famiglia con una forte carica destrutturante: separa i suoi componenti, altera le linee generazionali, priva i genitori del loro abituale ruolo di guida. Bambino e genitori sono costretti a nuove relazioni e nuove esperienze cariche di angoscia. Proprio per questo, un’altra finalità dell’intervento psicologico è quella di ridefinire le relazioni familiari precedenti l’insorgenza della malattia. Il genitore si può affidare all’equipè psicologica, solo se questa, non è vissuta come un ulteriore elemento di intrusione e di violenza. La domanda di aiuto rivolta dal genitore deve, pertanto, essere raccolta rispettando le modalità e i tempi che il genitore può e vuole scegliere. Questo tipo di approccio consente di accompagnare le famiglie attraverso il tortuoso iter della malattia, e di individuare il processo psicologico vissuto dalla famiglia parallelamente al percorso clinico.
Nell’impostare un intervento di supporto psicologico, secondo P. Paglia e S. Di Giovanni, si deve tenere conto di molte variabili interdipendenti:
• Situazione emotiva dei genitori di fronte alla perdita;
• Situazione emotiva dell’equipè di fronte alla perdita;
• Situazione emotiva del bambino nella relazione con i genitori e nella relazione con l’equipè curante;
• Situazione emotiva del bambino di fronte all’angoscia di morte;
• Situazione emotiva dei fratelli.
In relazione a queste variabili, si riconoscono diverse situazioni ricorrenti; tali punti saranno, a seguito, trattati più nello specifico.
L’equipè può proporre la sospensione dei farmaci curativi in favore di trattamenti palliativi solo se è in grado di accettare ed elaborare il senso di frustrazione ed impotenza, che deriva dalla constatazione del fallimento della cura adottata. Nel caso contrario, l’oncologo continuerà a ricercare in letteratura conferme della validità di una proposta terapeutica, le cui probabilità di risposta si aggirano intorno allo zero.
La possibilità dei genitori di aderire alla scelta medica è legata alla loro personale possibilità di vivere il lutto preparatorio, di poter cioè, disidentificarsi delle cause della morte del bambino e vivere liberi da sensi di colpa. Nel caso contrario, il genitore continuerà a ricercare un prolungamento delle cure che gli consenta un tempo riparatorio, in realtà quasi mai sufficiente a compensare il suo senso di inadeguatezza.
Il senso di morte è presente nella maggior parte dei bambini, sin dai primi anni di età, in tutte le fasi della malattia. La possibilità di superare l’angoscia di morte da parte del bambino risiede essenzialmente nella capacità di contenimento di tale angoscia, manifestato dagli adulti con i quali interagisce in questa fase. Operando una distinzione tra bambino e adolescente, possiamo affermare che il bambino può esprimere e superare l’angoscia legata alla sofferenza fisica ed alla paura per il suo progressivo peggioramento, mettendo in atto quella forma di simbiosi con i genitori, già sperimentata nelle prime tappe della sua esistenza e che lo ha garantito dai pericoli. Solo l’insopprimibile ansia dei genitori lo costringerà ad agire una stessa protettività nei loro confronti, negando la consapevolezza del suo stato. L’adolescente, non potendosi accontentare dei meccanismi difensivi propri dell’infanzia, ha bisogno di rifugiarsi con fiducia nella relazione con l’equipè curante; questa deve mantenere, fino alla fine, la capacità di rapportarsi a lui con chiarezza, attenzione ed estrema disponibilità. Di fronte alla fuga del suo medico, l’adolescente farà un uso abnorme dei reali sintomi esistenti, nel disperato tentativo di creare o di ristabilire con lui quella relazione unica, capace di garantirgli la vivibilità delle incognite future.
Un’attenzione speciale meritano i fratelli del bambino malato che rischiano di essere i “grandi assenti” in questo scenario. I genitori raramente li rendono partecipi dalla malattia dei fratelli per proteggere, almeno loro dal dolore non valutando, che loro potranno in seguito elaborare il lutto, solo se sarà stato concesso a loro, di vivere la perdita senza doverla negare.
La conoscenza di tutte le variabili, il non coinvolgimento diretto della cura e dell’accudimento del bambino, l’equidistanza dai vari sistemi (medici, genitori, bambino) fanno, in teoria, dello psicologo il mediatore ideale nelle situazioni conflittuali o palesemente inadeguate. In realtà, l’alto coinvolgimento emotivo, l’intensità delle relazioni derivante da una presenza quotidiana in reparto, espongono anche l’operatore psicologico ad un alto rischio di collusione con l’uno o con l’altro dei sistemi (P. Paglia, S. Di Giovanni, 2001).
Di fondamentale importanza è, quindi, la relazione medico-paziente. Ma, solo il modello medico della relazione tra un “malato”ed un “esperto della salute”, alla cui base vi è una diagnosi clinica che ha l’obiettivo di rilevare le cause e i meccanismi di insorgenza della malattia, risulta inadeguato rispetto alle richieste di intervento psicologico clinico in ambito oncologico. In questi casi seguire un modello medico di intervento, “diagnosi” e “terapia”, non è possibile perché ciò che viene chiesto non è da considerarsi come una richiesta di cura. Ogni richiesta di intervento psicologico è caratterizzata dalla presenza di alcuni elementi comuni come la relazione, contesto e richiesta. In riferimento a ciò la competenza dello psicologo clinico “si esplica nell’orientare un processo di significazione di specifiche relazioni in specifici contesti, in funzione di specifiche richieste, al fine di produrre conoscenza e in virtù di essa un cambiamento” (Grasso, 2002). Inoltre lo stesso autore, in riferimento al ruolo di psicologo, definisce la competenza psicologico-clinica come “capacità di assumere e analizzare, in specifici contesti, i problemi e la domanda dell’utenza, di progettare interventi e di strutturare setting funzionali allo stesso lavoro di riflessione”(Grasso, 2001).
E’ stato importante, in riferimento a ciò, superare la visione dicotomica medico/psicologo, ovvero procedere verso un’integrazione di entrambi i punti di vista non separando il sapere medico da quello psicologico. In conclusione, la collaborazione tra medici e psicologi deve essere considerata un’occasione di conoscenza, condivisione e riflessione circa l’operare clinico di entrambi gli attori, non solo un aumento del sapere reciproco bensì la co-costruzione di un pensiero sul paziente, sul disagio come sulla salute; un passaggio da una “nomenclatura arroccata” al “dialogo”, inteso come un processo co-creativo che procede secondo una logica di esplorazione, apprendimento e cambiamento reciproco (Tomassoni, Solano, 2003).

3.2.5 Interpretazioni psicodinamiche del gioco

Il gioco e le sue interpretazioni sono parte essenziale delle tecniche psicodinamiche infantili che hanno permesso di approfondire le conoscenze sui meccanismi profondi della psiche nel corso dello sviluppo.
Il gioco fu usato per la prima volta da Sigmund Freud, padre della psicanalisi, nel trattamento del piccolo Hans, un bambino di cinque anni, la cui paura improvvisa dei cavalli preoccupava il padre, amico e paziente di Freud. Egli interpretò il caso nell’ambito delle sue teorie e considerò il gioco spontaneo in cui Hans faceva finta di essere un cavallo, lasciando cadere cavallini, giocattoli e così via, come sintomatico non tanto della paura ispirata da un evento reale, bensì di quelle paure più generali e di quegli adattamenti che il bambino cercava di affrontare e raggiungere nel corso del suo sviluppo. Freud comprese l’importanza del gioco non solo ai fini diagnostici ma anche terapeutici, e tale aspetto emerge dalla famosa descrizione del “gioco del rocchetto” che egli ci dà in “Al di là del principio di piacere” (1920). Egli descrive un bambino di diciotto mesi che fa sparire e riapparire a suo piacimento un rocchetto attaccato ad un filo e che ne saluta la ricomparsa con un allegro “o-o-o”. Freud ha spiegato questo semplice gioco come un tentativo del piccolo di dominare una situazione per lui inquietante, rappresentata dall’ allontanarsi della madre: con il rituale della scomparsa e ricomparsa del rocchetto il bambino, secondo l’autore, immagina di allontanare la mamma da sé e di farla ritornare a suo piacimento. Ripetendo l’esperienza sotto forma di gioco, il piccolo assume una parte “attiva” e diventa, per così dire, padrone della situazione. Dopo Freud, altri autori si sono occupati del gioco nella prospettiva psicoanalitica e, tra i primi, Melanie Klein che iniziò ad applicare la psicoanalisi ai bambini sin dal 1919.
La Klein ritenne il gioco il mezzo principale attraverso il quale il bambino, mediante l’attività simbolica, può “scaricare” e manifestare le sue tensioni ai vari livelli e si servì del gioco per rendere i bambini consapevoli dei loro conflitti emotivi perché, a suo parere, l’unica via che porta alla sparizione dei disturbi psichici è la consapevolezza. Poiché nel gioco il bambino simbolizza desideri, paure, piaceri, conflitti e preoccupazioni, se l’analista gioca con lui può renderlo consapevole delle sue proiezioni e dei suoi vissuti. Compito dell’analista sarà perciò, da prima, quello di capire ciò che il bambino pensa e, successivamente, quello di trovare il modo per comunicarglielo.
Al contrario di Melanie Klein, Anna Freud considerò le interpretazioni date al bambino dall’analista soltanto un aspetto della terapia e ritenne il gioco un mezzo per rieducare il piccolo paziente e per offrirgli la possibilità di sviluppare il senso di autostima e di fiducia in se stesso. Nel suo pensiero, il ruolo educativo svolto dall’analista è infatti il fattore terapeutico più importante per alleviare le ansie del bambino, per poterlo rieducare e renderlo capace di rapporti sociali positivi. A suo parere può essere fuorviante cercare di rintracciare il significato simbolico nelle azioni che il bambino esprime giocando perché non sempre il gioco simboleggia qualcosa che emerge dall’incoscio o che sfugge alla coscienza di colui che gioca. E’ opportuno, per Anna Freud, interpretare e considerare il gioco alla luce della situazione familiare del bambino, delle sue esperienze sia insignificanti che importanti, dei suoi desideri, delle sue paure, delle sue speranze, e servirsi del gioco per ottenere le sua fiducia e la sua confidenza, indispensabili per un buon rapporto terapeutico.
Anche E. H. Erikson, nel tracciare la sua teoria dello sviluppo infantile, dedica ampio spazio al gioco, che considera una forma di psicoterapia spontanea. Egli afferma che il gioco possiede delle caratteristiche compensatorie che permettono al bambino di superare molte delle difficoltà che incontra nel corso del suo sviluppo: è nel gioco infatti che il bambino può realizzare qualsiasi desiderio e che può eseguire con la fantasia ciò che gli è impedito o che non è capace di fare nella vita reale.
Un altro autore di formazione psicoanalitica che ha dato importanza al gioco è D. W. Winnicott. Le sue teorizzazioni sulla funzione ludica quale condizione dell’adattamento umano alla realtà possono essere comprese solo facendo riferimento al suo pensiero sugli “oggetti transizionali”. Il gioco è inteso da Winnicott come uno spazio potenziale o transizionale tra il bambino e la madre, come un’area intermedia che esprime il passaggio dal Sé al non Sé, dal mondo puramente soggettivo all’obiettività. Winnicott ritiene che nel neonato esista già una vita psichica ma che, per potersi estrinsecare e sviluppare adeguatamente, necessiti di una particolare condizione di ipersensibilità da parte della madre, che da prima deve adattarsi completamente ai bisogni del bambino e successivamente deve far sì che il bambino impari pian piano ad adattarsi da sé alle varie frustrazioni che via via incontra. L’oggetto transizionale è per Winnicott il punto di passaggio tra il Sé e il non Sé, tra il simbolo e la cosa simboleggiata e permette pertanto l’acquisizione dell’attività simbolica. Nel corso del tempo, l’oggetto transizionale è soggetto a un “disinvestimento” progressivo, ma il ruolo del primo oggetto transizionale può essere svolto da altri “oggetti” o attività, come l’attività immaginativa o la produzione creativa. Secondo Winnicott è nel giocare, e forse soltanto mentre gioca, che l’individuo, adulto o bambino che sia, è in grado di essere creativo e di fare uso dell’intera personalità, ed è solo nell’essere creativo che l’individuo scopre il vero Sé (R. Senatore Pilleri, A., Oliverio Ferraris, 1989).
Un’attenzione particolare va rivolta al pensiero di Piaget, al quale, dobbiamo una esauriente trattazione basata sulle componenti cognitive e affettive dell’attività ludica che segue le tappe dello sviluppo cognitivo.
Piaget distingue infatti tre tipi di giochi: i giochi d’esercizio, quelli simbolici e quelli di regole.
I giochi d’esercizio iniziano nel periodo sensomotorio e sono caratterizzati da condotte che il bambino compie, dapprima per impadronirsi degli schemi d’azione e, successivamente, per il piacere di agire sulla realtà, di produrre degli effetti, di sentirsi impegnato nei movimenti. Quando il bambino succhia a vuoto per prolungare il piacere di mangiare, egli precorre con questo comportamento il gioco. Si può parlare di gioco vero e proprio quando, una volta imparata una azione, il bambino la ripete per il solo gusto che gli procura. L’attività ludica si realizza, cioè, solo quando il bambino non si preoccupa dell’accomodamento alla realtà e agisce per semplice piacere, senza obiettivi particolari e senza preoccuparsi dei risultati delle sue azioni.
Il gioco simbolico consiste anch’esso nella ricezione di uno schema di comportamento ma, a differenza del gioco d’esercizio, qui il bambino applica i propri schemi motori e vocali non agli oggetti cui sono ordinariamente applicati, ma a oggetti nuovi oppure a situazioni immaginarie. Si tratta cioè di situazioni in cui egli “fa finta” che tali oggetti esistano. Può usare, per esempio, un oggetto simile a un bicchiere e far finta di bere; un bastoncino di legno facendo finta che sia una forchetta. Il gioco simbolico presuppone, quindi, la “capacità rappresentativa” e permette di rivivere e trasformare la realtà secondo i bisogni del bambino e la sua esigenza di divertirsi. Rientrano in questa categoria i giochi delle bambole, degli indiani e cowboys, il gioco dei burattini e quello del dottore. Il gioco simbolico, per queste sue caratteristiche, serve anche a superare certe esperienze negative o che hanno prodotto turbamento o stizza perché qualsiasi fatto di rilievo accada al bambino, egli cerca di riprodurlo nel gioco. A questo proposito, Piaget, 1958, ricordava il caso di suo figlio che, dopo un’accesa discussione con lui, aveva iniziato un gioco di aeroplani durante il quale avvenivano catastrofi e morivano persone illustri; in particolare, moriva un signore che assomigliava sorprendentemente a Piaget.
I giochi di regole compaiono verso i cinque-sei anni. Questi giochi, che coesistono con quelli simbolici e di esercizio, presuppongono le capacità operatorie o logiche, e rapporti basati sulla reciprocità, sull’uguaglianza e sul possesso di alcune competenze di base. I giochi di regole, come i giochi di squadra, la dama, il monopoli e così via, sono quindi il prodotto della realtà collettiva e divengono le forme essenziali del gioco dell’adulto (R. Senatore Pilleri, A., Oliverio Ferraris, 1989).

3.2.6. Terapie collaterali

Sempre più negli ospedali, specialmente nei grandi centri pediatrici, si tenta, con programmi e servizi adeguati, di far sentire i piccoli pazienti “più a casa”, riducendo al massimo i danni prodotti dal ricovero. Già dagli anni ottanta, per esempio, si è data ai genitori la possibilità di rimanere accanto ai propri figli ricoverati ventiquattro ore su ventiquattro; sono entrate negli ospedali associazioni di volontariato, specializzate nell’assistenza al bambino malato ed ai suoi genitori, e le stesse Direzioni Sanitarie hanno richiesto con sempre maggior frequenza l’intervento di operatori ludici e l’istituzione del servizio scolastico all’interno dei presidi sanitari, come sostegno socio-psico-pedagogico per i bambini ospedalizzati. Oggi, in moltissimi ospedali italiani, pediatrici e non, ci sono sezioni di scuola dell’obbligo, perfino di scuola materna la cui importanza sappiamo essere fondamentale in un periodo in cui vanno particolarmente soddisfatti i bisogni affettivi e cognitivi del bambino (Fantone G., 2000).
Tutto ciò in linea ad un principio sostenuto da molti medici ed al quale si affidano molti ospedali, in particolare esteri, secondo il quale la cura del malato spesso non porta alla cura della persona. A questa conclusione si è giunti osservando che i bambini non curati contestualmente e globalmente nel corpo e nella mente corrono il rischio di rimanere vulnerabili e fragili con conseguenti danni psicofisici. Nasce così il convincimento di intervenire prontamente con terapie collaterali alla cura del tumore che siano tali da limitare il danno terapeutico e che hanno l’obiettivo di limitare il dolore, scaricare la tensione nel gioco o nella musica, recuperare abilità perse attraverso una pronta riabilitazione, godere di attività che promuovono distensione, poter curare una nutrizione alterata dalle terapie.
Tra gli interventi più accreditati possiamo citare la musicoterapia, la clownterapia, la terapia del dolore, la terapia nutrizionale, la terapia riabilitativa, la ludoterapia e videoteca (www.iodomani.it).

La musicoterapica. Nella maggior parte dei centri di oncologia pediatrica all’estero è parte integrante della terapia oncologica. E’ una disciplina di medicina alternativa che utilizza la musica (forma di comunicazione non-verbale) come strumento per intervenire sul disagio di persone malate o affette da handicap, agendo soprattutto a livello psicosomatico.
Elemento fondamentale è il rapporto che si stabilisce tra paziente e musicoterapeuta, dove il linguaggio per comunicare è dunque quello della "musica", dove per "musica" s'intende l'intero mondo del suono e cioè: suono e ritmo, suono e movimento, e infine vocalità. Il concetto di musicoterapia come tale si sviluppa solo all'inizio del secolo scorso e seppure non sia ancora annoverata tra le tecniche mediche riconosciute ufficialmente dalla medicina tradizionale, essa diviene un supporto importante ed utilizzata per svariate tipologie di malattie, prevalentemente di origine nervosa.
I principi base della pratica musicoterapeutica sono:
• il paziente è assolutamente parte attiva della terapia;
• la centralità del rapporto di fiducia e l'accettazione incondizionata rispetto al paziente;
• l'adattamento e la personalizzazione della tecnica volta per volta;
• scambio reciproco di proposte tra paziente e musicoterapeuta.
La musica dà alla persona malata la possibilità di esprimere e percepire le proprie emozioni, di mostrare o comunicare i propri sentimenti o stati d'animo attraverso il linguaggio non- verbale.
La clownterapia. Una delle ultime novità portata allo scoperto dall’ormai famoso film “Patch Adams” è la cosiddetta “clownterapia” che si sta diffondendo negli ospedali e reparti pediatrici, e in qualche caso persino nei reparti adulti. Distrarre almeno per qualche ora i piccoli degenti dalle sofferenze fisiche e psichiche mediante “gags”, giochi di mimi, magie, musica, trapianti di cioccolata, costumi colorati e buffi nasi rossi a palloncino può sicuramente dare risultati positivi. Con il loro viso colorato ed indossando bellissimi camici, si divertono a disinfettare le camere dei piccoli degenti con delle bolle di sapone, a costruire mille oggetti e animaletti con i palloncini colorati: hanno sempre qualche nuova magia nelle loro tasche ed annunciano il loro arrivo con il suono di vari strumenti musicali. Tuttavia è importante che questi “terapisti del sorriso” non si limitano a far divertire il bambino, ma sappiano capire quali siano le reali paure e necessità del singolo (Fantone G., 2000).
Terapia del dolore. Particolare attenzione deve essere prestata a questa terapia. Non si può pensare che un “po’ di dolore” possa essere sopportato senza conseguenze. In passato la medicina riteneva che i bambini, avendo un sistema nervoso in formazione, avvertissero il dolore con meno intensità. Oggi, fortunatamente, questa teoria è superata ed alla terapia oncologica si affianca quella del dolore, evitando che altre inutili sofferenze si aggiungano alla già complessa vita del piccolo malato.
La terapia del dolore è rivolta al contenimento del dolore acuto e cronico del bambino; si applica inoltre per la sedazione e per la sofferenza nella fase terminale. Occorre individuare, valutare e misurare i vari livelli del dolore così da definire i protocolli operativi; effettuare interventi di sedazione farmacologia per tutte le procedure o causa di ansia e paura che coinvolgono il bambino ricoverato ed infine proporre, ai bambini e ai loro familiari, interventi con tecniche specifiche di distrazione dal dolore, senza ricorso a farmaci dal rilassamento alla respirazione (ibidem).
Terapia nutrizionale. Nell’oncologia pediatrica un adeguato stato nutrizionale è indispensabile nel bambino malato sia per una migliore risposta alla terapia antitumorale sia per fronteggiare le esigenze nutrizionali richieste dalla crescita fisiologica. Le cause della malnutrizione in oncologia sono molteplici; schematicamente si possono suddividere cause legate alla neoplasia e cause relative al trattamento antineoplastico. Il tumore è causa di malnutrizione in quanto può indurre ipermetabolismo, stimolare fattori circolanti che provocano anoressia e perdita di peso, può provocare un blocco meccanico del transito intestinale. Inoltre la terapia antitumorale è causa di malnutrizione poiché può essere associata a nausea e vomito, stomatite ed esofagite, diarrea, alterazioni del gusto o alterazioni dei normali ritmi dei pasti e del sonno. Si può ipotizzare che anche il cambiamento dei normali ritmi di vita quotidiana, l’aspetto psicologico negativo, il cambiamento del gusto, le alterazioni del metabolismo indotto dai vari trattamenti possono incidere sfavorevolmente sullo stato nutrizionale dei piccoli pazienti oncologici.
Informazioni più approfondite sullo stato nutrizionale dei pazienti in corso di trattamento potrebbero essere utili per intervenire sulla dieta e su eventuali problemi psicologici connessi con la terapia, al fine di migliorare il trattamento terapeutico e di incidere favorevolmente sul processo di crescita e di sviluppo (www.iodomani.it).
Terapia riabilitativa. In oncologia pediatrica sono diversi i casi per i quali occorre far ricorso alla terapia riabilitativa. Le neoplasie cerebrali, infatti, spesso comprimendo radici nervose o vie nervose deputate al movimento muscolare, causano deficit neurologici che vanno da paralisi di un arto a emiparesi o a tetraparesi. Le stesse neoplasie degli arti possono causare una perdita di funzione del segmento interessato per fratture ossee, immobilità dell’arto da sintomatologia dolorosa. La gravità della patologia a volte può costringere il paziente a letto per periodi prolungati causando un’immobilità recuperabile solo attraverso riabilitazioni. Nella terapia riabilitativa il piccolo paziente, assistito da personale qualificato, mobilizza attraverso esercizi compiuti attivamente e passivamente il segmento corporeo interessato. Può essere sottoposto ad applicazioni di terapie effettuate con macchinari specifici quali elettrostimolazione, laserterapia, terapia con ultrasuoni. Tali trattamenti richiedono periodi lunghi di applicazioni per cui spesso proseguono al di fuori del periodo di ospedalizzazione. Nel campo dell’oncologia pediatrica la terapia riabilitativa rappresenta un approccio terapeutico atto a migliorare la qualità di vita del paziente intervenendo su deficit funzionali che limitano la validità della persona (www. iodomani.it).
Ludoterapia e videoteca. Le attività ludiche hanno l’obiettivo di fornire ai piccoli ricoverati uno spazio mentale che consenta di trascorrere il tempo in maniera serena e piacevole cogliendo l’opportunità di esprimere dubbi, riflessioni, preoccupazioni legate all’età ma anche all’esperienza difficile e dolorosa che stanno vivendo. Il gioco si configura come strumento per stabilire una relazione ma principalmente per offrire ascolto. I ricoveri prolungati o ripetuti rischiano di portare il bambino ad una caduta della vivacità e della vitalità che devono essere mantenuti ad uno standard elevato per una migliore reattività, per una risposta più efficace alle terapie e per un rapporto positivo con il sistema ospedaliero. Ne deriva che la “presa in carico” globale del bambino deve tenere conto di tutti questi fattori che non possono essere chiesti all’equipè sanitaria ma sono la premessa affinché anche in ospedale, il bambino non si senta “malato”, non si senta fuori dalla vita “normale”, non abbia un impoverimento dell’autostima. Per distogliere le angosce quotidiane, per mantenere viva l’attenzione e per stimolare la creatività, i reparti sono dotati di giochi intelligenti e di filmati idonei alle singole fasce di età dei piccoli pazienti. La ludoteca e la videoteca sono parte integrante della terapia ludica e devono contribuire a creare momenti di distensione e di fiducia. Dovranno essere costituite e gestite da personale specializzato che, rapportandosi con lo psicologo, raccoglieranno le proposte dei bambini e dovranno guidarli nelle scelte, anche per stimolare i loro interessi che nella fase della malattia rischiano di sopirsi (www.iodomani.it).




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IV. Capitolo quarto
4. La mia esperienza di tirocinio

Il mio tirocinio è stato svolto presso l’Associazione “Ali di Scorta” operante, per alcune sue finalità, nel Policlinico “Agostino Gemelli” ed in particolare all’interno del reparto di Neurochirurgia Infantile, dove si offre sostegno psicologico ed emotivo alle famiglie colpite da malattie oncologiche. La scelta di svolgere il tirocinio presso un’organizzazione privata non lucrativa è nata dalla volontà di esplorare la dimensione organizzativa del Terzo Settore, ovvero l’area non istituzionale dei servizi sociali che sopperisce alle carenze dei servizi istituzionali mettendo in primo piano la cooperazione e non la competitività, i bisogni umani e non i profitti.

4.1 Motivazioni ed aspettative

Una mia cara amica lavora presso questa associazione e, già in passato ho collaborato con lei come volontaria in tutte quelle attività di vendita occasionali e iniziative di solidarietà con cui il suddetto ente reperisce introiti per il raggiungimento dei suoi obiettivi. Così, al momento del mio tirocinio mi sono rivolta ad “Ali di Scorta”, anche se non era contenuta nell’elenco delle strutture che accettavano tirocinanti convenzionate con l’Università “La Sapienza”. Mi sono recata personalmente nella sede dell’associazione per un colloquio formale con la psicologa responsabile, che già conoscevo precedentemente, la quale, illustrandomi le attività e gli scopi, nello specifico, dell’intervento psicologico in tale struttura, ha accresciuto in me l’entusiasmo e la convinzione della mia scelta di tirocinio. Dopo una serie di procedure burocratiche universitarie risolte, finalmente la mia richiesta è stata accettata dandomi la possibilità di intraprendere questa nuova esperienza come prima tirocinante pre-lauream di questa struttura.
Quindi, la mia esperienza di tirocinio è iniziata ancor prima dell’inizio vero e proprio nell’ associazione. Da subito sono emerse in me fantasie contraddistinte a volte, da una lieve presunzione pensando di poter finalmente “fare la psicologa” e mettere da parte per un po’ di tempo i libri, altre volte mi assalivano timori sia sulle mie competenze professionali che umane. La mia preparazione psicologica mi sarebbe servita come base per acquisire una maggiore sensibilità e sicurezza nel relazionarmi agli altri e per comprendere alcune delle dinamiche nel bambino malato e la sua famiglia? Più incertezze mi assalivano sul piano emotivo. Infatti, inizialmente ho vissuto il mio tirocinio con un sentimento di ambivalenza: dall’entusiasmo che contraddistingue l’inizio di una nuova esperienza a quel senso di inadeguatezza nell’affrontare compiti non spiegati in nessun manuale e quella paura dovuta al fatto di mettere in gioco me stessa, le mie competenze e le mie emozioni. La mia preoccupazione più grande, era quella di non riuscire a mantenere quella giusta distanza emozionale che mi permettesse di mantenere il mio equilibrio personale; pensavo che sarebbe stata un’esperienza troppo forte per una persona ancora da formare professionalmente. Avevo timore che le mie emozioni mi potessero sfuggire di mano non riuscendo a costruire una corretta forma di equilibrio fra un controllo eccessivo e una mancanza totale di padronanza dell’emozioni stesse. Invece sono arrivata a trovare una stabilità tra le emozioni che scatenavano la mia emozionalità e l’impegno a considerarle oggettivamente, attuando una partecipazione distaccata, che mi ha permesso di non perdere il contatto con il carico di umanità presente nella situazione, senza lasciarmi coinvolgere dal dolore delle persone di cui mi occupavo. Questa “distanza” non è stata sinonimo di “distacco” emotivo ma la via per entrare empaticamente in contatto con la persona, dandomi la possibilità di “immedesimarmi” nel suo stato d’animo senza però lasciarmi sopraffare dalla situazione. Da ciò, ho capito che è proprio dall’emozionalità che bisogna partire per avvicinarsi ed entrare in rapporto con un nuovo contesto, e che tale emozionalità necessita di essere esplorata per trasformarsi in qualcosa da sfruttare per accrescere la propria competenza, riflettendo oltre che sulle proprie aspettative anche su quanto quest’ultime possano essere accolte ed elaborate dal contesto relazionale. La scelta di esercitare il mio tirocinio presso tale organizzazione, oltre che per un interesse vivo per le problematiche sociali, è stata determinata, sicuramente, anche dall’attuarsi di una mia strategia difensiva di contenimento. Oggi, per noi studenti triennalisti di psicologia non è affatto semplice trovare un ente che ci accolga per svolgere il nostro tirocinio: la maggior parte delle organizzazioni accetta solo tirocinanti post-lauream e inoltre le liste di attesa sono molto lunghe. Rivolgermi ad “Ali di Scorta” mi ha permesso sicuramente di ridurre i tempi burocratici ma soprattutto mi ha dato la possibilità di non svolgere un tirocinio “tanto per” in una dimensione adempitiva ma di operare in un ambito del quale nutrivo molto interesse. Proprio questa mia motivazione interna, che mi ha accompagnato nell’arco dei sei mesi, mi ha spinto ad assumere un atteggiamento creativo e dinamico nello svolgimento delle mie attività e a richiedere a me stessa ogni giorno un “qualcosa” in più come processo di crescita sia professionale che personale. L’attuarsi da subito di questo mio comportamento propositivo è stato possibile anche grazie all’ambiente conosciuto ed esplorato già precedentemente. Sapevo già che, al mio arrivo, avrei trovato un ambiente caldo ed accogliente con alcuni punti saldi di riferimento, e questo mi ha dato una spinta iniziale non indifferente.
A posteriori, potrei leggere questa mia condotta secondo alcuni modelli emozionali elaborati da Carli e Paniccia, attraverso cui è possibile fare delle inferenze sulle dinamiche collusive e processi di adattamento tra individuo e contesto (R. Carli, R.M. Paniccia, 2002).
In particolare mi riferisco al modello dentro-fuori. Questa dicotomia indica in vario modo il problema dell’appartenenza e dell’estraneità, di movimenti emozionali che sanciscono affetti rassicuranti, derivanti del “sentirsi con”, dall’essere iscritti entro un gruppo, definito nei suoi confini e funzionante come luogo dell’accettazione emozionale, della gratificazione del bisogno d’affiliazione. Di contro, sentimenti di paura o gratificanti collegati con l’avventurarsi in luoghi, culture, mondi estranei, sconosciuti e quindi impaurenti ed affascinanti al contempo. A volte la dicotomia in analisi indica movimenti agiti, entro le organizzazioni, quali mettere fuori l’estraneità, la diversità al fine di rassicurare i sistemi d’appartenenza (R. Carli, R. M. Paniccia, 2002).
Quindi, ho ricercato una relazione con un ambiente conosciuto in quanto la mia esigenza di sicurezza e controllo, garantito dal sistema d’appartenenza, ha prevalso sulla mia esigenza di conoscenza e curiosità dell’estraneo.
Anche se il contesto mi rassicurava, al tempo stesso, avvertivo la responsabilità di non dover deludere le aspettative delle persone che mi avevano dato piena fiducia. Non che loro attuassero comportamenti in tal senso, ma dato che, oltre ad un legame professionale vi era anche quello affettivo, sentivo ancora di più la necessità di “dimostrare” qualcosa: lo dovevo primo, a me stessa, che dopo diversi anni di studio e sacrifici, mi mettevo finalmente alla prova e poi anche agli altri, che mi avevano dato proprio questa possibilità. Le mie aspettative iniziali erano quelle di inserirmi in un ambiente medico particolarmente intriso di emozioni e di riuscire a svolgere con impegno e validi risultati le attività concordate nel mio iniziale progetto di tironicio, ricoprendo un ruolo che potesse accrescere le mie competenze psicologiche e qualità umane. Inizialmente un aspetto rilevante è stato il fatto di avere un riconoscimento anche esterno che aumentava le mie certezze. Nonostante, la mia psicologa, mi abbia lasciato discreta libertà di agire, sempre sotto una sua supervisione, almeno all’inizio, non ho mai preso iniziative che ritenevo non sapessi gestire. Con l’arrivo dei primi risultati positivi e dalla sensazione e conferma che la mia tutor fosse soddisfatta del mio operato il “peso” delle aspettative degli altri lentamente è diminuito. Ora, posso leggere questo comportamento come paura di sbagliare, dato che, a volte, mi capita di vivere l’errore come un deficit personale piuttosto che come risorsa da sfruttare per migliorarmi; questo mio modo di essere veniva amplificato dal contesto medico con il quale mi rapportavo.
Possiamo, quindi, di nuovo considerare il modello emozionale, già sopra citato, dentro-fuori. Penso di aver usato il “fuori” come processo di riconoscimento interno non annullando il “dentro” ma soffermandomi di più sulle categorie esterne. Il “fuori” veniva rielaborato e portato “dentro” aumentando le mie sicurezze. Ciò mi ha permesso, rimanendo dipendente dal contesto, di attuare un processo di crescita e di leggere in modo diverso il contesto stesso. Queste mie modalità di comportamento si sono attenuate con il passare dei giorni, quando vedevo in me accrescere quella sicurezza e quella competenza psicologica che, solo attraverso l’esperienza del tirocinio, ho preso coscienza di avere. Io stessa, avvertivo di aver intrapreso la strada giusta; questa consapevolezza è stata propedeutica in quanto mi ha dato la spinta a “mettermi in gioco” totalmente dandomi la possibilità di fare quel salto di qualità necessario per la mia crescita professionale. Avendo acquisito più sicurezza, oltre a svolgere le attività accordate, ora, con meno timore mi imbattevo anche in quelle situazioni che inizialmente mi suscitavano preoccupazione.

4.2 Il mio ruolo

La figura del tirocinante pre-laurem è abbastanza recente così come il suo ruolo in contesti applicativi è ancora incerto confondendo le sue competenze spesso con quelle del tirocinante “post-lauream”. Paradossalmente questa differenza di ruoli si evidenzia anche nel momento della richiesta di tirocinio: infatti molti enti prendono nella struttura solo tirocinanti post-lauream associando al titolo di studio l’avere più competenze nonostante oggi con la nuova riforma i tirocinanti pre-lauream abbiano forse più conoscenze pratiche attraverso attività simulate e laboratori svolti nei corsi universitari.
Conoscendo già a priori dall’inizio del mio tirocinio, l’ambiente, così altamente emotivo, a cui mi sarei dovuta rapportare mi sono interrogata su come poter svolgere il mio ruolo di tirocinante pre-lauream. Io sono stata la prima tirocinante pre-lauream dell’Associazione “Ali di Scorta”; proprio per questo motivo con la mia tutor, che fino ad allora aveva avuto solo tirocinanti specializzandi, abbiamo discusso sul mio ruolo all’interno della struttura ospitante e deciso il mio contratto formativo. Abbiamo ritenuto che il mio ruolo dovesse limitarsi al campo dell’osservazione partecipante all’interno di un’area circoscritta quale la sala giochi; osservare le diverse sfaccettature della relazione genitore-bambino, osservatore-bambino, e relazioni amicali tra pari in un momento estremamente critico della vita del bambino, evidenziando aspetti relazionali come legami di attaccamento, capacità di gioco e di distrazione, rassicurazione e preparazione rispetto alle procedure mediche. Decidere insieme su quali potessero essere le mie funzioni è stato molto importante in quanto, tramite il confronto, abbiamo dato corpo ad una serie di considerazioni e di dubbi, che hanno inciso, inizialmente, sulle nostre simili e parallele modalità comportamentali. Infatti, avere una funzione già delineata dalla psicologa ha attenuato le mie perplessità mettendomi in una dimensione di contenimento; ma al tempo stesso, ipotizzo che, anche lei, abbia vissuto questo nostro “accordo” come difesa, dall’assumersi responsabilità maggiori, legittimata dal fatto che, fino a quel momento, non avesse mai collaborato con un tirocinante triennalista e che non conoscesse le mie competenze. L’individuazione della mia funzione all’interno del contesto di tirocinio, quindi, è stata decisa a priori ma è solo attraverso l’esperienza pratica che si è potuta delineare in modo più chiaro e meno confuso raggiungendo la sua completezza al termine dell’esperienza stessa attraverso il lavoro di resocontazione. E’ stato perciò un ruolo dato ma al tempo stesso costruito fino alla fine di questa esperienza. Avere un compito già definito poteva essere interpretato sia come una guida sicura a cui far riferimento nei momenti di incertezza e insicurezza o poteva essere vissuto come un limite oltre il quale non era possibile andare. Ho potuto esplorare entrambi le dimensioni: la prima, all’esordio del mio tirocinio quando era forte quel senso di inadeguatezza e smarrimento, la seconda, invece, verso il termine, quando ormai la sola osservazione sembrava limitare le numerose dimensioni psicologiche che io invece desideravo tanto esplorare. Questi miei vissuti così contrastanti, che a volte si sovrapponevano, non hanno interferito nella risolutezza dei miei compiti ma sono stati occasione di riflessione sul come utilizzare le emozioni in funzione di una crescita sia personale che professionale.

4.3 Attività svolte

Ho svolto osservazioni partecipanti all’interno della sala giochi del reparto mentre le altre due psicologhe specializzande sostenevano colloqui clinici tenendo sotto osservazione un numero specifico di pazienti. Tale differenza di competenza era visibile in quanto ad ogni livello di preparazione veniva affidato un ruolo specifico; ma essendo il nostro lavoro contraddistinto da collaborazione e dialogo, riuscivano, nonostante la diversa formazione, a farmi sentire partecipe del loro operato discutendo insieme dei casi. Analizzando aspetti clinici diversi, attraverso il raffronto, alcune ipotesi psicologiche, da loro pensate, confrontate con i dati che io avevo rilevato, venivano confermate, mentre altre, comunque, arricchite di nuovi particolari.
La mia attività è stata suddivisa in due momenti distinti: il primo può essere identificato con il gioco e l’animazione all’interno della sala-giochi dalle 10.00 della mattina, che è l’ora in cui di solito terminavano le visite di controllo dei medici, fino alle ore 12.30 circa ovvero all’arrivo del pranzo. In questa fase ho osservato il bambino detto “bersaglio” in tutte le sue relazioni che si esprimono attraverso l’attività di gioco. Il gioco rappresenta una valvola di sfogo molto importante, soprattutto durante la malattia e il ricovero: con il gioco il bambino trova la continuità con la sua vita quotidiana e un valido mezzo di socializzazione, che valorizzando la sua parte sana gli restituisce fiducia nelle sue capacità. Il gioco rappresenta il suo modo di rapportarsi al mondo, di esprimere le sue ansie e i suoi timori diminuendo lo stress e favorendo la guarigione in quanto incoraggia il bambino a svolgere attività piacevoli e interessanti anche in ospedale riducendo sia le conseguenze psicologiche, sia i tempi della degenza (Carbonara M.Vittoria, 2000).
Il secondo momento può essere identificato con la riflessione e il confronto sul “caso”. Dopo l’interazione diretta con i bambini, stilavo una mia valutazione utilizzando delle griglie di osservazione ( “Validazione di uno strumento per rilevare le relazioni amicali tra bambini nella prima infanzia” a cura di L. Camaioni, E. Baumgartener e M. Perugini, GIORNALE ITALIANO DI PSICOLOGIA / a. XXV, n 1, marzo 1998.) modificate e riadattate al nuovo contesto.
Con la mia tutor e con le altre due tirocinanti della Scuola di specializzazione della Terapia della Famiglia, spesso ci riunivamo per discutere il “caso” integrando le nostre conoscenze. Tramite il confronto dei diversi livelli di lettura emergono dati che a volte sembrano essere sfuggiti; si sono messi in luce aspetti che prima, forse, non sarebbero mai stati presi in considerazione. Gli incontri rappresentavano anche un momento di riflessione condivisa sulla nostra esperienza nella struttura e le nostre impressioni sulle attività svolte. Il nostro lavoro si è basato quindi su una collaborazione, compensazione ed integrazione delle nostre conoscenze e competenze. Il tutor diventa così il consulente di noi collaboratori; ci aiuta ad ottenere le risorse per svolgere al meglio il nostro lavoro e a risolvere problemi professionali.
Nel contesto medico del mio tirocinio la co-operazione, quindi, è stato un elemento importante. La mia responsabile ogni mattina affiancava l’equipe medica durante le loro visite, venendo così a conoscenza delle varie patologie oncologiche di tutti i bambini. Queste sue conoscenze venivano poi trasmesse a noi tirocinanti, che insieme a lei, cercavamo così di paragonare i dati psicologici, da noi riscontrati, con i dati medici riportati. Io stessa, a volte, chiedevo informazioni specifiche sulle varie neoplasie direttamente al personale medico ma con alcune difficoltà, col il tempo superate, dovute ad un linguaggio altamente tecnico.

4.4 Approccio al dolore

L’aspetto più complicato della relazione psicologo-bambino, secondo la mia esperienza, è stato il contatto con la dimensione del “dolore”. Parlare del dolore dei bambini mi rimane molto difficile perché non riesco ad accettare che questo contamini anche l’infanzia. Spesso ho provato un profondo senso di ingiustizia, quando, quasi ogni giorno, vedevo arrivare un nuovo bambino. In un ospedale pediatrico, infatti, il problema “dolore” si presenta sotto multiformi aspetti che devono trovare una risposta aldilà della semplice somministrazione, peraltro importante, di farmaci analgesici. Perciò risulta necessario un approccio integrato e multidisciplinare che permette di capire, misurare e trattare adeguatamente il fenomeno dolore in tutte le sue forme. Spesso accade che, oltre al dolore fisico vero e proprio, si debba trattare la paura e l’ansia che scaturiscono nel bambino dal semplice ingresso in ospedale. Quindi, oltre alla componente fisica, vanno considerate diverse condizioni di sofferenza psichica dovuti alla paura, ansia e disabilità in senso lato legata all’allontanamento dagli affetti, dall’ambiente familiare e dal gruppo sociale di appartenenza e alla necessità di adattarsi ad un ambiente che non si conosce e ad una realtà nuova e per molti versi negativa (Andrea Messeri, 2000). Guardando la sofferenza altrui è stato molto difficile rimanere impassibile senza avere un coinvolgimento emotivo; infatti, non sono mancati momenti di partecipazione e di commozione. Ma nel momento in cui questi fatti accadevano ero convinta del fatto che, al bambino e ai suoi genitori sarebbe stato utile un atteggiamento contenitivo di incoraggiamento e di fiducia verso la speranza di guarigione che un atteggiamento di commiserazione e pena. In queste occasioni si sperimenta un profondo senso di impotenza e di inutilità perché ci si rende conto dell’impossibilità di intervenire per modificare la situazione. Questi sentimenti sono stati in parte da me razionalizzati arrivando a trovare una stabilità tra le emozioni che scatenavano la mia emozionalità e l’impegno a considerarle oggettivamente. Nonostante in alcune circostanze più critiche non avessi la percezione della mia competenza psicologica come punto di forza, in quanto ancora in formazione, ho utilizzato categorie supportive riuscendo a svolgere un ruolo di contenimento al bambino attraverso il gioco. Infatti, le mie emozioni rispetto al dolore non sono state negate ma contenute e riversate nelle mie attività ricreative, svolte sempre con entusiasmo visto che erano quasi gli unici momenti dove i bambini potevano passare delle ore spensierate e giocare liberamente ripristinando un contatto con la realtà quotidiana. In qualche modo, quindi, il gioco ha rappresentato un rifugio sia per i pazienti stessi, rispetto al proprio dolore e sia per me, quando venivo in contatto con le loro sofferenze.

4.5 Riflessioni sulle relazioni instaurate

Come tirocinante pre-lauream ho stabilito diversi tipi di interazione.
Sia con la mia tutor che con il personale medico, sono riuscita ad instaurare un rapporto di stima, collaborazione, compensazione delle competenze e conoscenze, come già sopra descritto.
In particolare mi soffermerò sul rapporto avuto con gli utenti del servizio ospedaliero in quanto lo ritengo il più interessante e ricco di elementi su cui riflettere.
La relazione con l’utente si è organizzata su due diversi piani: i bambini e i loro genitori. Nonostante io abbia indossato un cartellino dove si rendeva noto il mio ruolo, ai bambini mi sono sempre presentata semplicemente con il mio nome e sono stata per loro, una ragazza che ha svolto animazione all’interno della sala giochi. La maggior parte dei bambini si sono dimostrati entusiasti delle nostre attività all’interno della sala giochi che, al termine della giornata, aspettavano già impazienti il nuovo giorno e mi chiedevano spesso quando sarei tornata per trascorrere insieme altro tempo per giocare. A parte, a volte, un primo impatto di imbarazzo e timidezza, i bambini sono stati molto affettuosi con me; spesso cercavano il mio contatto fisico e la mia approvazione durante alcune attività facendomi sentire un profondo senso di utilità. Questo loro atteggiamento di “ricerca” nei miei confronti mi ha dato un’enorme soddisfazione; vedere che il mio operato poteva servire a qualcuno è stato molto appagante; inoltre interpretavo queste loro manifestazioni d’affetto come un “riscontro” positivo della mia attività accrescendo, ancora di più, in me un forte senso di sicurezza. Ed anche qui riemerge il modello emozionale dentro-fuori (R. Carli, R.M. Paniccia, 2002). Oltre un riconoscimento dalla mia tutor, in questo caso lo ricevevo anche dall’utenza. Le conferme “fuori” venivano trasportate nel mio “dentro” apportandomi certezze.
Nei nostri incontri ho utilizzato il gioco come strumento di terapia visto che, spesso, il bambino ha difficoltà ad esprimere verbalmente le proprie sensazioni. Attraverso tali attività esso esprime le sue ansie ed è quindi proprio il carattere proiettivo dell’attività ludica che mi ha permesso di comprendere ed intervenire sulle sue problematiche.
Infatti, spesso, diventavo la loro “confidente”, alla quale svelare le loro paure, angosce, dubbi su quello che sarebbe successo loro, prima e dopo i vari interventi chirurgici. Alcuni bambini dimostravano di essere a conoscenza dei vari procedimenti medici, altri, arrivavano impreparati e non informati esplicitamente sulla loro condizione adeguandosi alla “regola del silenzio” proposta dai genitori, regola che veniva puntualmente infranta quando trovavano una persona disponibile e aperta al dialogo. In diversi casi ho trovato qualche difficoltà dovendo confrontarmi con la dimensione del “detto e non detto” dei genitori: dovevo capire quale fosse il limite, oltre il quale non andare, per non provocare ansie o altri traumi improvvisi ai piccoli misurando con molta cura le mie parole. Proprio per questo, lo sforzo di noi psicologi è stato quello di agire sulla componente psicologica del dolore e della paura legata alla non conoscenza e quindi all’immaginazione distorta di come e quando questa sofferenza si sarebbe realizzata e terminata. Inoltre, attraverso il gioco è stato possibile far passare al bambino messaggi di fiducia, di comprensione e di contenimento, far loro vivere momenti di gratificazione e valutazione positiva da parte degli altri, conducendolo a poco a poco ad accettare la sua malattia e le difficoltà che questa comporta.
Diverso è stato il rapporto con i genitori. Questi, ai quali mi sono sempre presentata invece come tirocinante pre-lauream di psicologia, hanno avuto reazioni opposte alla mia presenza. Questi loro diversi comportamenti attuati mi causavano un po’ di incertezza nella prima fase di approccio. Alcuni, la maggioranza, hanno dimostrato un atteggiamento aperto alla presenza di una futura psicologa facendo anche domande personali sulla mia attività e percorso di studio, altri hanno assunto un atteggiamento chiuso che si è rispecchiato poi anche nella relazione che sono riuscita ad instaurare con i loro figli.

4.5.1 Il camice

Prima che iniziassi ufficialmente il tirocinio, la mia responsabile, discutendo sul mio progetto formativo, mi invitò ad indossare il camice. Tale scelta è stata determinata dalla necessità di garantire al bambino un ambiente il più possibile sterile per non apportare al suo stato di salute ulteriori complicazioni ma, svolgendo attività ricreative, capitava spesso, che il mio camice si sporcasse non assicurando più criteri di igiene. Vista tale situazione, già nei primi giorni di tirocinio, la mia tutor mi diede la possibilità di non indossarlo più. Questa scelta è stata inizialmente da me condivisa per una comodità di azione; non indossare un grembiule facilitava la mia libertà e agilità di movimenti permettendo di essere meno legata nei miei spostamenti. Inoltre, in quanto non totalmente formata professionalmente come psicologa era un abbigliamento che ancora non sentivo appartenere perchè, proiettata da un contesto teorico ad uno applicativo, non avevo ancora la percezione delle mie competenze psicologiche. Quindi la mia esperienza con il camice è stata molto breve ma riflettendoci a posteriori potrei ipotizzare alcune considerazioni.
Il camice, per antonomasia, è considerato simbolo di un “sapere”. Forse, potrei aver messo in atto una strategia difensiva di negazione: negarlo, appunto, è stato come voler sottolineare di non aver una solida competenza psicologica.
Il camice corrisponde ad un riconoscimento di ruolo, un ruolo che all’inizio del mio tirocinio era molto incerto e confuso e che solo con l’esperienza si è pian piano delineato. Non indossarlo mi permetteva sia, di sentire meno quel senso di responsabilità verso gli altri e anche di stare meno al centro dell’attenzione; ciò potrebbe avermi contenuto.
Inoltre, non indossare il camice, ma un cartellino dove comunque veniva indicata la mia qualifica, mi ha dato l’occasione di osservare il comportamento dell’utenza-genitori in modo più naturale, senza quella barriera comunicativa che il camice avrebbe potuto comportare. Quando mi avvicinavo ad un bambino con il camice, i genitori, soprattutto quelli più ansiosi, subito interferivano nella nostra relazione per assicurarsi chi fossi e quale fosse stata la mia competenza medica come una sorta di “ispezione”; con il solo cartellino questo controllo su di me si è verificato lo stesso, come è giusto che sia, ma con altre modalità. In questa occasione si dimostravano più accoglienti, in quanto meno spaventati, e, chiarita la mia posizione di tirocinante di psicologia, erano, nella maggioranza dei casi, ben disposti al fatto che io giocassi con i loro figli, anche perché più che una psicologa venivo avvertita, per la mia attività, come animatrice o come maestra. Infatti, forse, proprio per questo motivo, riuscivo a far crollare con più facilità le loro difese, ed essendo bisognosi di conforto e di un libero sfogo, in quanto la maggior parte dei genitori tende a nascondere il proprio stato emotivo, mi chiedevano consigli su quale dovesse essere il loro comportamento più giusto da adottare in tale situazione. Nonostante loro avessero questa percezione di me non come tirocinante psicologa, io invece ero cosciente di esserlo; mi avvalevo di questo loro modo di vedermi come difesa, per sperimentare e con il tempo consolidare le mie competenze psicologiche. Inoltre, questa loro immagine, che quindi era quella che io davo, poteva giustificarmi di fronte a mie incertezze e lacune.
Al contrario, con i bambini, indossare o non il camice non ha avuto molto differenza; il mio gioviale modo di pormi, non essendo un medico e non richiedendo loro nessuna prestazione che non fosse una attività di gioco, veniva quasi subito avvertito e un grembiule bianco non rappresentava un’ostacolo alla relazione. Potevo avere addosso questo tipo di abbigliamento, che richiama serietà, rigore e disciplina, ma non mostrare un corrispettivo nel mio comportamento, sia verbale che motorio, viste le mie attività ricreative.

4.6 Strumenti utilizzati

Sono stati numerosi gli strumenti utilizzati durante la mia attività. Abbiamo cercato di creare, all’interno della sala giochi del reparto, un ambiente caldo e accogliente a “misura di bambino” dove svolgere attività ludiche e ricreative. Ho utilizzato il gioco come terapia proponendo varie attività manuali quali origami, pasta di sale, utilizzo creativo della carta, cartone e lana, fogli, stampe, pennarelli, colori e tutto ciò che poteva servire alla creazione di oggetti-gioco e lavoretti. Oltre agli strumenti pratici, ho utilizzato quelle “competenze tecniche” dello psicologo quali la relazione, la condivisione delle attività svolte, l’ascolto, l’empatia, il confronto e delle griglie di osservazione ed elaborazione della valutazione, già prima citate. (Allegati a, b e c). Attraverso l’utilizzazione di quest’ultimo strumento, utilizzato sempre come punto di riferimento per qualsiasi osservazione partecipante, sono riuscita a rilevare diversi aspetti della relazione madre bambino: comportamento motorio del bambino, capacità di stabilire contatti, esplorazione, accettazione limiti, comportamento visivo, comportamento ludico, comportamenti sociali, modalità di contenimento, verbalizzazione, comportamento di fronte a stimoli distonici, situazioni di pericolo; relazioni amicali tra i bambini ed infine la relazione con l’osservatore. Le griglie di osservazione potevano essere lette sia utilizzando una dimensione di verifica e sia di contenimento. Infatti, dovendo essere compilate, potevano essere vissute come prova del mio operato e quindi come controllo da parte della mia responsabile. Invece, personalmente, tali griglie hanno facilitato la rilevazione dei diversi aspetti delle varie relazioni del bambino in quanto mi indicavano cosa avrei dovuto osservare all’interno di un modello di contenimento. Nonostante rientrassero in questa dimensione, però, essendo già date a priori potevano essere interpretate sia come una guida sicura a cui far riferimento nei momenti di incertezza o come un limite oltre il quale non era possibile andare. Utilizzare un’attenzione selettiva mi ha permesso di non disperdere le mie energie focalizzando con sicurezza i punti che dovevo rilevare ma, al tempo stesso, poteva limitare l’osservazione di altri dati psicologici interessanti.


4.7 Caso clinico

Durante il mio tirocinio presso “Ali di Scorta” ho svolto numerose osservazioni partecipanti all’interno di un’area circoscritta quale è la sala giochi cercando di cogliere e osservare le diverse sfaccettature della relazione genitore-bambino, osservatore-bambino e relazioni amicali tra pari durante un periodo molto difficile della vita di un bambino come quello dell’ospedalizzazione e di una grave malattia.
Riporto, di seguito, una relazione di un caso clinico stilata sulla base di griglie di osservazioni (già prima citate), dopo l’incontro con una bambina ricoverata nel reparto, affinché si possa comprendere la mia attività svolta.

4.7.1 Relazione osservatore-bambino (allegato a)

Entro in sala giochi e Claudia sta intorno al tavolo da lavoro vicino alla mamma, con la psicologa ed un altro bambino a dipingere su un foglio. Mette un po’ di colore sparso su un cartoncino bianco che viene ripiegato in due: il colore sembra dar vita a una farfalla. Perde la concentrazione e insieme a me e un altro bambino iniziamo a fare un puzzle di Biancaneve. Riconosce subito il volto di Biancaneve mentre nell’attaccare gli altri pezzi mostra un po’ di difficoltà tanto che viene aiutata sia dalla mamma, che è sempre presente accanto a lei, che dalla sottoscritta. Successivamente, a seguito dell’intromissione nel suo gioco da parte di un altro bambino, Claudia inizia a piangere e si rifugia tra le braccia della madre. Così decido di cambiare attività e di giocare a nascondino. Entusiasta di questa proposta di gioco corre a nascondersi mentre contando mi bendo gli occhi. Faccio finta per diverso tempo di non vedere la bambina e alla fine lei esce dal suo nascondiglio mettendomi paura. Questo gioco occupa un bel po’ della nostra interazione finche’ si passa a giocare con la palla. La madre, Claudia ed io giochiamo a pallavolo fin quando non si unisce a noi il solito amico Gabriele. Riesco a creare un gruppo di gioco anche con i loro genitori ma i bambini bisticciano perché entrambi vogliono la stessa palla gialla nonostante nella sala ce ne sia un’altra uguale di color rosso. Claudia non tollera che nella nostra relazione si intrometta una terza persona: vuole una relazione esclusiva. Ad avere la meglio è Claudia che subito dopo decide di cambiare attività: riprende il foglio fatto all’inizio dell’interazione a forma di farfalla ed insieme, lo ritagliamo e lo attacchiamo ad un filo di spago. La bambina, soddisfatta, corre per la sala facendo volare la farfallina. Con lo stesso metodo facciamo un pipistrello e un fantasmino che, attaccati poi sulla fronte, diventano mascherine. Entrambe, assumendo il ruolo di fantasma e pipistrello, giochiamo a rincorrerci: il pipistrello (Claudia) deve far più paura del fantasma (io) e deve correre più veloce. Queste sono le regole del gioco e quando mi dimostro di essere più veloce di lei la bambina mette il muso e si isola fin quando le sue regole non sono di nuovo rispettate. All’arrivo del pranzo decidiamo di andare nella sua camera rincorrendoci per il corridoio e mettendo “paura” alla gente che sarebbe passata in quel momento. Al letto saluto la bambina chiedendole un bacio; è Claudia questa volta ad accettare la mia richiesta. Mi dà un bacio e mi saluta con la manina. Non assume mai una posizione da spettatore, se non quando, mi richiede attenzione ma soprattutto alla mamma attraverso capricci. Perde spesso la concentrazione e svolge numerose attività che la bambina preferisce fare solo con la madre. Accetta ma non ricerca particolarmente la prossimità; inizialmente, nonostante non fosse la prima volta che giocavamo insieme, mostra un po’ di distacco ma poi soprattutto nell’ultima parte del gioco dimostra anche affetto positivo. Alla fine dell’incontro vengo salutata con un gesto affettuoso anche se su richiesta. Non conversa molto e utilizza un linguaggio semplice. Al termine dell’interazione la madre riflette, davanti a me, se sia giusto accettare tutte le sue richieste di attenzione e accondiscendere sempre ai suoi capricci.

4.7.2 Relazione amicale tra pari (allegato b)

Inizialmente Claudia al tavolo da lavoro svolge un’attività individuale: dipinge su un foglio bianco. In seguito tutte le attività da lei svolte vengono affiancate da un altro bambino di nome Gabriele, più piccolo di lei. Claudia vive ciò come un’invasione del proprio spazio e così i due bambini finiscono per bisticciare e piangere. Infatti si verifica spesso un conflitto per l’oggetto con una risoluzione di questo dove Claudia ha quasi sempre la meglio. All’inizio sembra ricercare la prossimità e la presenza di Gabriele ma poi difende il suo spazio interattivo e deve essere sempre la più brava o la più veloce in tutti i giochi svolti. Ma Gabriele, pur essendo più piccolo, riesce a fronteggiare la situazione tanto che Claudia, ha quasi sempre la meglio, ma con difficoltà e attraverso i capricci. Così a volte la bambina svolge attività parallele a quelle di Gabriele al quale dimostra comunque affetto non assumendo mai una posizione da spettatore. Conversa molto poco e con un linguaggio semplice.

4.7.3 Interazione madre-bambino (allegato c)

La madre è presente per tutto il tempo dell’interazione accanto alla figlia sia nelle attività svolte al tavolo da lavoro e sia nelle attività di movimento. Aiuta Claudia a dipingere una farfallina, a ritagliare degli stampi per creare delle mascherine, a dipingere un foglio bianco pieno di colori e a fare la forma della mano su un foglio. Condivide tutte le attività della figlia; a volte però Claudia sembra mostrare fastidio come se la madre gli negasse comunque la libertà nel modo di colorare e dipingere. Il loro è un legame molto stretto: la bambina, a volte, non svolge nessuna attività se non c’è lei ma quando c’è, qualche volta risente dell’aspetto normativo proposto dalla mamma. La madre la lascia libera di compiere azioni sia sul suo corpo e sia su oggetti. La bambina si muove attivamente e ricerca, anche se non molto, il contatto con il mondo esterno e le persone; la madre consente il movimento e favorisce e stimola il contatto con se stessa, con gli altri e il mondo esterno non delimitando spazi, tempi e modalità di contatto. La bambina esplora con la mamma e in sua presenza; non potrei affermare il contrario in quanto la madre non si è mai allontanata dalla sala. Ho percepito questa relazione un po’ troppo soffocante non dando alla bambina la possibilità di esprimersi liberamente. Claudia non accetta i limiti che la madre le dà. Per sviare da questi limiti utilizza il pianto e i capricci ai quali la mamma risponde accontentando la figlia in tutte le sue richieste. Giocano molto insieme anche se la bambina non è in grado di mantenere un’alta concentrazione e vola tra giochi e giocattoli. Entrambe sono sempre in contatto fisico, verbale e visivo; durante i suoi capricci Claudia compie gesti affettivi come abbracciare la mamma che risponde accogliendo la figlia con carezze, baci e abbracci. La madre assolve alle funzioni di contenimento calmando e rassicurando la figlia nelle situazioni di stress. E’ sempre disponibile nei casi di bisogno sia per le attività didattiche che per quelle mediche che incutono paura e dolore fisico. E’ capace di strutturare un ambiente idoneo; la bambina non parla molto, piange, smette di piangere e utilizza sorrisi e risate. La madre spesso in tutti i suoi comportamenti, soprattutto in quelli dove la bambina fa i capricci, utilizza modalità dolci e comprensive; durante le attività di gioco utilizza invece espressioni verbali di apprezzamento, sorrisi e risate. Si sono verificate diverse situazioni di disturbo alle quali la bambina reagisce con pianto che scompare con l’eliminazione del disagio e con agitazione motoria. La madre riesce a prevedere i bisogni della bambina in modo adeguato essendo in grado di intendere ed eliminare subito il disagio.











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12/07/2009 08:27


Allegato a
4.7.4 Allegati

RELAZIONE OSSERVATORE-BAMBINO


NOME: Claudia

COGNOME:

DATA:

PATOLOGIA: tumore


PERIODO VALUTATO:

Pre-operatorio ■ Post-operatorio □

INTERVENTO: _____________________

ESEGUITO IL: ___/___/______


Il bambino:

Spettatore
Attività parallela
Prossimità x
Affetto positivo x
Richiesta di attenzione/di azione (soddisfatta) x
Richiesta di attenzione/di azione (non soddisfatta)
Conversa x
Attività con turni
Condivisione x
Imitazione
Imitazione reciproca
Conflitto verbale
Conflitto per l’oggetto
Risoluzione positiva del conflitto
Riferimento a stati psicologici
Chiama per nome/invita al gioco x
Aiuta/consola
Difende lo spazio interattivo
Usa il termine amico
Scherza


Allegato b
RELAZIONI AMICALI TRA BAMBINI


NOME: Claudia

COGNOME:

DATA:

PATOLOGIA: tumore


PERIODO VALUTATO:

Pre-operatorio ■ Post-operatorio □

INTERVENTO: _____________________

ESEGUITO IL: ___/___/______


Il bambino:

Spettatore
Attività parallela x
Prossimità x
Affetto positivo x
Richiesta di attenzione/di azione (soddisfatta)
Richiesta di attenzione/di azione (non soddisfatta)
Conversa x
Attività con turni
Condivisione x
Imitazione
Imitazione reciproca
Conflitto verbale
Conflitto per l’oggetto x
Risoluzione positiva del conflitto x
Riferimento a stati psicologici
Chiama per nome/invita al gioco
Aiuta/consola
Difende lo spazio interattivo x
Usa il termine amico
Scherza





Allegato c
INTERAZIONE MADRE - BAMBINO


NOME: Claudia

COGNOME:

ETA’: 3 anni

DATA:

PATOLOGIA: tumore

PERIODO VALUTATO:

Pre-operatorio ■ Post-operatorio □

INTERVENTO: _____________________

ESEGUITO IL: ___/___/______

SVILUPPO COGNITIVO: nella norma



Comportamento motorio del bambino Il bambino Azioni del b. sul/col proprio corpo x
Azioni del b. su oggetti x
Azioni imitative (V) se verbali
Azioni intenzionali
Azioni anticipatorie
Il b. si muove attivamente x
Il b. si muove con cautela
Il b.valuta ed affronta adeguatamente gli ostacoli
Il b.non valuta e affronta adeguat. gli ostacoli
La reazione della madre La m. consente il movimento del bambino x
La m. blocca o ostacola il movimento del b.
Capacità di stabilire contatti Il bambino Il b.ricerca attiv. il contatto con il mondo esterno
Il b. ricerca attiv. il contatto con le persone x
Il b. osserva il mondo esterno senza agire attiv.
Il b. è passivo rispetto alle stimolazioni esterne
La madre La m.favorisce e stimola il contatto con se stessa x
La m.favorisce e stimola il contatto con gli altri x
La m.favorisce e stim. il cont. con il mondo esterno x
La m. impedisce od ostacola il contatto con se stessa
La m. impedisce od ostacola il contatto con gli altri
La m.impedisce od ostacola il cont. con il mondo esterno
Delimita spazi, tempi e modalità di contatto con se stessa
Delimita spazi, tempi e modalità di contatto con gli altri
Delimita spazi, tempi e mod. di cont. con il mondo esterno
Esplorazione Il bambino Esplora attivamente da solo
Esplora attivamente con la madre x
Esplora attivamente in presenza della madre x
Esplora perché stimolato
La madre La m. consente l’esplorazione x
La m. consente al b. l’esplorazione in base a criteri
Consente poco o limita l’esplorazione
Accettazione limiti Il b. accetta i limiti in presenza della m.
Il b. accetta i limiti in assenza della m.
Il b. non accetta i limiti in presenza della m. x
Il b. non accetta i limiti in assenza della m.
Comportamento visivo Il b. guarda x
Il b. segue x
Vaga con lo sguardo
Esplora con lo sguardo il movimento
Comportamento ludico Il b. gioca con x
E’ capace di mantenere l’attenz.nello svolgimento del gioco
Vola fra gli oggetti/giochi x
Comportamenti sociali Il bambino Il b. inizia un contatto fisico x
Il b. inizia un contatto verbale x
Il b. inizia un contatto visivo x
Il b. compie gesti affettivi x
Il b. compie gesti che esprimono opposizione
La madre La m. inizia un contatto fisico x
La m. inizia un contatto verbale x
La m. inizia un contatto visivo x
La m. compie gesti affettivi x
La m. compie gesti che esprimono opposizione
Interazione La m. ed il b. sono in contatto fisico x
La m. ed il b. sono in contatto visivo x
La m. ed il b. focalizzano lo sguardo sullo stesso oggetto
Modalità di contenimento La m. assolve alle funzioni con interazione x
La m. assolve alle funzioni con mod. fredde e meccaniche
La m. utilizza toni e modalità irritate, esasperate
La m. utilizza espressioni di noia e stanchezza
La m. tende a calmare e rassicurare il b. x
La m. è disponibile in casi di bisogno x
La m. non è disponibile in casi di bisogno
La m. interferisce con l’attività del b.
La m. è capace di strutturare un ambiente idoneo x
La m. non è capace di strutturare un ambiente idoneo
La m. tiene il b. rivolto verso di sè
La m. tiene il b. rivolto verso il mondo esterno
La m. tiene il b. in modo adeguato
La m. non tiene il b. in modo adeguato
La m. cambia posizione del bambino sostenendolo
La m. cambia posizione del bambino non sostenendolo
Verbalizzazione Il bambino Vocalizzazioni x
Vocalizza disagio x
Piange x
Smette di piangere x
Sorrisi e risate x
La madre La m. utilizza espressioni verbali di apprezzamento
La m. utilizza espressioni verbali negative
La m. utilizza interpretazioni
La m. utilizza richieste
La m. utilizza imperativi
La m. utilizza imitazioni (v) se verbali
La m. utilizza sorrisi e risate x
Comportamento di fronte a stimoli distonici Il bambino Il b.reagisce con pianto che scompare con elim.del disagio x
Il b. reagisce con agitazione motoria x
Il b. reagisce con attivo esitamento dello stimolo
Il b. reagisce con protesta attiva
Il b. reagisce col ritiro
Il b. reagisce con segnali indicatori del no
La madre La m. sa prevedere i bisogni del b. in modo adeguato x
La m. non sa prevedere i bisogni del b. in modo adeguato
La m. è in grado di intendere e eliminare subito il disagio x
La m. non è capace di intendere e eliminare subito il disagio
La m. procede per prove ed errori
La m. non è capace di individuare la richiesta
La m. gradua la risposta in modo che il b. possa fronteggiare lo stimolo distonico
Situazioni di pericolo La madre La m. previene e prevede una situazione di pericolo
La m. prevede ma non previene una situazione di pericolo
La m. non prevede né previene una situazione di pericolo
Di fronte ad una situaz. di pericolo interviene con il divieto
Di fronte ad una situazione di pericolo introduce alla valut. cognitiva
Interviene in situazioni di pericolo non reale
Aiuta il b. ad affrontare il pericolo rassicurandolo
Cambia la posizione del b.













4.8 Conclusioni


Inizialmente, pensare di svolgere la mia attività in questo contesto mi destava un po’ di preoccupazione, in quanto, sarei dovuta stare a contatto, anche se non diretto, con primari, medici, infermieri, con persone professionalmente molto preparate mentre io sono ancora “addirittura” in corso di formazione. Ma dopo un primo momento di inserimento ho capito che comunque questo aspetto non era così negativo ma che poteva essere un nuovo contesto di apprendimento sul campo. In seguito alle prime difficoltà, dovute al fatto di svolgere un’attività nuova in un ambiente particolarmente intenso di emozioni, sono riuscita ad acquisire una maggiore sicurezza nell’approccio con i bambini, con i loro genitori e con la struttura stessa. Mi sono resa conto di aver affinato alcune competenze psicologiche prima solo accennate in me, come la mia capacità d’osservazione, una maggiore sicurezza nell’instaurare i rapporti con l’utente e in particolare con i genitori, una maggiore sicurezza di movimento all’interno del reparto, una mia maggiore capacità di stare nella relazione, una capacità di analizzare le relazioni e il contesto, approfondimento sull’interazione madre-bambino con l’esame delle diverse tipologie di modelli utilizzati dalle madri, una capacità di auto-controllo delle mie emozioni, una maggiore capacità di utilizzo delle griglie di osservazione e una più alta velocità nello stilare la relazione conclusiva. L’esperienza fatta mi ha portato a riflettere sulla realtà di questi incontri; ogni giorno mi trovavo davanti a situazioni difficili, disperazione, sofferenza e dignità di famiglie che pur vivendo un dramma con amore e speranza affrontavano e sostenevano i loro cari. Durante il mio percorso mi sono resa conto che ciò che mi appariva inizialmente confuso e mi rendeva insicura, con il passare delle settimane tutto diventava più chiaro e sentivo di essere in grado di sostenere con armonia gli incontri con i bambini. A termine di questa esperienza, posso affermare che, all’inizio il mio obiettivo era quello di svolgere il tirocinio come tappa obbligatoria, impostami dall’università, per raggiungere un titolo di studio; ora che è terminata la considero un’occasione formativa e di verifica delle competenze. Aver spostato la mia posizione verso il tirocinio, da una dimensione adempitiva ad una dimensione costruita, mi ha permesso di riflettere sulla mia posizione, di essere committente del mio tirocinio, di pormi una domanda, all’interno di una relazione con un contesto, dandomi degli obiettivi da raggiungere dentro la mia funzione di tirocinante pre-lauream. Ma per arrivare a ciò ho dovuto intraprendere la lunga strada della riflessione. Il poter riflettere su quello che mi succedeva è stato un importante strumento che mi ha permesso di giungere alla salda consapevolezza di aver raggiunto quella competenza organizzativa, delineata già nell’introduzione, consentendomi di trasformare l’agito della mia esperienza di tirocinio in pensiero sulla formazione. E proprio l’acquisizione di tale competenza mi ha permesso, a posteriori, di avanzare tutte queste riflessioni e pensieri nell’ambito di un contesto di tesi. Infatti, l’opportunità di stilare questo resoconto mi ha consentito di arrivare a comprendere il contesto nel quale ero immersa aumentando la voglia di conoscerlo e di capirne il funzionamento non lasciando che tale esperienza non avesse un senso e che tutto ciò non cadesse nell’ oblio ma tracciasse in me un solco dove poter “seminare per un buon raccolto di vita formativa”.









Bibliografia

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www.sanitaesalute.it
• Genitori L., I tumori cerebrali



















Ringraziamenti


Desidero ringraziare il Prof. Grasso per la possibilità che mi ha dato al fine di arrivare al raggiungimento del mio obiettivo di lavoro di tesi e la Dott.essa Summa per la sua supervisione e disponibilità dimostratami in questo percorso.

Un ringraziamento particolare all’associazione “Ali di Scorta”, alla Dott. Simona Di Giovanni, al reparto di Neurochirurgia Infantile del policlinico “Agostino Gemelli” e a tutte le famiglie e bambini che hanno condiviso con me questa esperienza indimenticabile.

Un grazie di cuore a tutti gli amici, con cui ho condiviso gioie e dolori di questi anni universitari, per essermi stati vicino in tutti i miei momenti di difficoltà e per avermi accompagnato nella stesura di questa tesi. In particolare, in ordine alfabetico, Alessia, Catiuscia, Cristina, Francesca, Giovanna.

Ringrazio, inoltre, tutte le mie zie e parenti per aver sempre creduto in me e per l’incoraggiamento costante. In modo particolare nonna Antonietta e zio Tano.

Grazie alla presenza dei miei angeli, nonno Pino e nonna Peppa, che anche da lassù ho sentito a me vicini.

Vorrei, infine, ringraziare i miei genitori e mio fratello Valerio, che con il loro incrollabile sostegno morale ed economico, mi hanno permesso di raggiungere questo traguardo da me tanto desiderato.

GRAZIE A TUTTI !!!

Valentina
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