CONSIGLIO DIRETTIVO ALI DI SCORTA

Ultimo Aggiornamento: 07/04/2013 09:18
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01/02/2013 19:12

Guarisce dal cancro
al colon cambiando dieta:
frutta e verdura lo salvano

Un cancro aggressivo al colon peggiorato e inoperabile: ad aprile di quest'anno la notizia che, ormai, non c'era più niente da fare. Eppure in quattro mesi, semplicemente cambiando la propria dieta, è riuscito a liberarsi della malattia: è quello che è successo ad Allan Taylor, settantottenne di Middlesbrough (Regno Unito) che, cercando su internet, ha messo a punto un nuovo regime alimentare eliminando carne rossa e latticini e sostituendoli con 10 porzioni di frutta e verdura crude al giorno, e prediligendo l'utilizzo di curry, orzo selvatico in polvere, semi di albicocca e integratori di selenio.

Dopo un intervento e tre mesi di chemioterapia per combattere contro il cancro al colon che lo aveva colpito, Taylor aveva ricevuto la notizia sul peggioramento delle sue condizioni di salute ad aprile: il tumore si era infatti diffuso anche all'intestino tenue. Seguì una diagnosi nefasta: cancro inoperabile. Poi il cambio di alimentazione che, spiega Taylor, lo avrebbe preservato da morte certa: «Ero determinato a mantenere un atteggiamento positivo - ha raccontato il settantottenne al 'Sunday Mirror' - e ho deciso di trovare da solo una soluzione, digitando sui motori di ricerca del web l'espressione 'cure per il cancro del colon'». All'inizio di agosto la notizia della guarigione: gli esami strumentali non mostravano più alcuna traccia delle anomalie riscontrate nell'intestino tenue.
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Malati di cancro e lavoro:
storie di mobbing e stipendi ridotti

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Maria Assunta, Giovanni, Ilaria e tanti altri: guariti, ma devono fare i conti con i disagi psicologici ed economici

MILANO - Maria Assunta ha 46 anni, vive sola a Palermo ed è «forzatamente» in aspettativa non retribuita: sta lottando per tenersi il lavoro come infermiera professionale che un tumore al seno potrebbe farle perdere. Giovanni, invece, è già stato licenziato. Anche lui ha 46 anni, una moglie e due figli. Abita a Roma, dove faceva il cassiere in un supermercato finché non si è ammalato di un carcinoma ai polmoni. L’operazione ha richiesto più di tre mesi di degenza in ospedale e quando, con una sutura di 40 punti dietro la schiena, ritorna sul posto di lavoro, iniziano le prime incomprensioni con il datore di lavoro: «Appena ho raggiunto il 180esimo giorno di assenza per malattia, mi è stato intimato il licenziamento – spiega Giovanni -. Mal consigliato dal rappresentante sindacale, non l’ho impugnato e mi ritrovo senza posto di lavoro, con una grave malattia invalidante e notevoli problemi di depressione, oltre che economici». Non vanno meglio le cose in una piccola azienda di Mantova, dove Ilaria si occupava dell’amministrazione del personale «con tanto impegno ed energia – racconta -. Facevo gli straordinari, retribuiti e non. Tenevo tutto in ordine, ero apprezzata. Poi arriva la diagnosi di carcinoma mammario, preso in tempo, per fortuna». Ilaria subisce l’intervento di quadrantectomia e radioterapia intraoperatoria e presenta domanda per il riconoscimento dell’invalidità civile per ottenere i permessi previsti dall’apposita Legge 104/92. «Ma la Commissione medica della Asl – continua Ilaria – mi ha riconosciuto solo il 70 per cento d’invalidità: in pratica è stato ammesso l’handicap (articolo 1), ma non l’articolo 3, utile per i permessi retribuiti Inps. Così mi tocca prendere i giorni di ferie – di cui avrei davvero tanto bisogno per riposarmi e cercare di recuperare un po’ di serenità - per poter effettuare le visite di controllo, la mammografia e gli esami prescritti dall’oncologo». Non solo: la legge le consente di poter usufruire di 30 giorni di congedo straordinario per cure (riconosciuto, su loro richiesta, ai lavoratori mutilati ed invalidi civili con una determinata riduzione della capacità lavorativa e previa autorizzazione del medico provinciale), ma nonostante la normativa in materia l’azienda gliel’ha negato.

L’ESERCITO DEI SOPRAVVISSUTI AL CANCRO - Di storie come queste, purtroppo, ce ne sono molte. In Italia – secondo le statistiche più aggiornate - vivono oltre 1.700.000 persone che hanno avuto una diagnosi di cancro. Più di 250mila sono i nuovi casi di tumore ogni anno e, grazie ai progressi nelle terapie, oggi si contano circa 617mila lungosopravviventi, cioè quanti – trascorsi dieci anni dalla diagnosi – si possono considerare, nella maggioranza dei casi, finalmente guariti. Superato il concetto di cancro come sinonimo di morte, si aprono scenari nuovi che sollevano però nuovi bisogni umani, sociali ed economici. «Numeri alla mano, la metà delle persone malate guarisce e, nella maggior parte dei casi, senza conseguenze invalidanti – spiega l’avvocato Elisabetta Iannelli, vicepresidente dell’Associazione italiana malati di cancro (Aimac - help line) dal lunedì al venerdì, dalle 9 alle 19, numero verde 84050357) che da anni si occupa dei diritti di pazienti e familiari -. C’è poi un numero rilevante di persone che può convivere con la propria neoplasia più o meno a lungo. Se non vogliamo creare uno stuolo di invalidi e emarginati dalla società, dobbiamo darci da fare per offrire alle agli ex pazienti oncologici il recupero o il mantenimento della massima autonomia fisica e relazionale, garantendo loro la migliore qualità di vita possibile». Bisogna, insomma, sostenerli nell’affrontare le conseguenze psicologiche e il rapporto con il proprio corpo e con gli altri.

LAVORARE PER TORNARE A SENTIRSI AUTONOMI - I nuovi bisogni sono da un lato strettamente «medici» (legati alla sessualità o alla possibilità di procreare, ad esempio) o psico-fisici, ai quali si risponde – sempre più spesso in modo efficace – con vari interventi di riabilitazione oncologica (con trattamenti per il linfedema delle donne operate di tumore mammario, ad esempio, o con esercizi contro l’incontinenza dopo l’intervento chirurgico alla prostata). Ma qualità della vita vuol dire anche, soprattutto, sentirsi attivi e autonomi. E riprendere il lavoro aiuta, sia a livello sociale che economico. Lo sa bene Maria Assunta, a cui dopo l’intervento di mastectomia parziale sono stati prescritti sei cicli di chemioterapia: «Già nei primi giorni di convalescenza mi sono informata – racconta mentre è in aspettativa non retribuita e ha dovuto cercarsi un avvocato per non essere licenziata - e ho fatto espressa richiesta all’amministrazione di non computare, tra i giorni di assenza per malattia, quelli dovuti alla chemio, come è previsto dall’articolo 11 del contratto collettivo nazionale del comparto Sanità. Purtroppo, però, il capo dell’ufficio del personale non ha accolto la richiesta ritenendo, in modo del tutto erroneo, di poter escludere dal calcolo in questione solo i giorni di ricovero ospedaliero e i day hospital». Maria Assunta, così, rischia di superare i giorni di assenza per malattia previsti dal cosiddetto «periodo di comporto» (durante il quale il lavoratore-dipendente ha diritto alla conservazione del posto) e, per non perdere il posto, ha chiesto l’aspettativa.

IL MOBBING DI COLLEGHI E CAPI - «Attualmente - sottolinea Cristina Oliveti, avvocato specializzata nel servizio legale per i diritti dei malati oncologici, che risponde al numero verde gratuito della Lega italiana per la lotta contro i tumori (800 998877, da lunedì al venerdì, dalle 9 alle 17) - il paziente oncologico si trova a fronteggiare realtà complicate. Macchinosi iter burocratici, difficoltà di socializzazione e il timore di non essere più accettati o di avere performance lavorative inferiori non sono da meno rispetto ai sintomi della malattia o agli effetti collaterali delle terapie, nel compromettere la qualità di vita». Le assenze dal lavoro e il successivo rientro, spesso con l’impossibilità di svolgere mansioni faticose, aumentano il rischio di un possibile demansionamento o cambio di lavoro (con riduzione del livello retributivo), frequentemente accompagnato da un atteggiamento pregiudiziale e dannoso da parte dei colleghi e dello stesso datore di lavoro. Ma quante persone devono affrontare questi problemi? «Impossibile saperlo – spiega Oliveti -. Per ora non esistono statistiche in proposito e sono soprattutto le associazioni di volontariato ad avere il polso della situazione».

TUMORI, LA PRIMA «MALATTIA SOCIALE» PER L’INPS - Oggi, però, è il cancro la malattia sociale di maggior rilievo anche per l’Inps. I dati statistici presentati dall’Istituto nazionale per la previdenza sociale (grazie alla stretta collaborazione con Aimac e Favo-Federazione delle Associazioni di Volontariato in Oncologia) per il decennio 1998-2007 dicono che le patologie neoplastiche costituiscono il 32,4 per cento delle cause di invalidità e inabilità riconosciute, mentre le malformazioni congenite contribuiscono solo per il 9,3 per cento e i disturbi mentali per l’8 per cento. Mentre le precedenti patologie hanno perso di rilevanza sociale, i tumori dal 2005 si collocano al primo posto delle prestazioni concesse dall’Inps, superando persino le malattie dell’apparato cardio-circolatorio (21,7 per cento).

ARRIVANO I PRIMI STUDI IN MATERIA - L’entità del problema sta richiamando l’attenzione degli esperti. Così, uno studio guidato del Coronel Institute of Occupational Health di Amsterdam e pubblicato di recente sulla rivista Jama dimostra scientificamente che chi sopravvive a un tumore ha il 37 per cento in meno di possibilità di trovare lavoro quando finisce le cure. I ricercatori olandesi hanno passato in rassegna 36 lavori di analisi pubblicati fra il 1996 e il 2008, per un totale di 20.366 persone curate per cancro contro 15.7603 soggetti sani. Dallo studio emerge che l’età media di chi guarisce è inferiore ai 65 anni: a essere colpiti dalla malattia, quindi, sono soprattutto individui che potrebbero essere ancora attivi nel mondo del lavoro, ma che purtroppo – durante il periodo delle cure - perdono l’incarico o vengono demansionati. I risultati evidenziano poi che sono le donne ad avere più difficoltà. Tra le neoplasie dopo le quali più faticosamente si trova lavoro, infatti, compare il carcinoma al seno, seguito dal tumore all’apparato gastroenterico e da quello all’utero. Più semplice, invece, la questione per chi ha superato leucemie, cancro alla prostata o ai testicoli. Ma secondo i dati presentati a un seminario organizzato dal Comune di Milano per la tutela dei lavoratori malati di cancro, il problema sarebbe soprattutto maschile: «Sono oltre sei su dieci (ben il 64 per cento) gli uomini che in seguito a una neoplasia hanno dovuto lasciare il lavoro, una percentuale più che doppia rispetto a quella delle donne (29 per cento) – ha sottolineato Andrea Mascaretti, assessore alle politiche del lavoro e dell’occupazione -». Nel 2010 si stima che nel nostro Paese le persone con esperienza passata di tumore saranno circa due milioni, molte tra queste in età da lavoro. Ad oggi, il 40 per cento delle donne affette da una patologia oncologica è casalinga, mentre il 17 per cento lavora. Sono invece circa il 20 per cento gli uomini lavoratori e malati.

LE LEGGI DI RIFERIMENTO – Eppure le tutele per pazienti (e familiari) esistono: in ambito lavorativo alcuni benefici conseguono all’accertamento di una certa percentuale di invalidità, mentre altri sono legati alla verifica dello stato di «handicap in situazione di gravità». E’ possibile, ad esempio, fare visite mediche senza dover ricorrere a ferie o permessi, passare a una mansione più adatta al proprio stato fisico o ottenere un periodo anche lungo di aspettativa non retribuita. Per tale motivo, e per evitare di doversi sottoporre più volte alla visita medico-legale, è consigliabile presentare alla Asl la domanda sia per il riconoscimento dello stato di invalidità sia per quello di handicap cosiddetto «grave», sia per l’accertamento della disabilità ai sensi della L. 68/1999. La Legge Biagi (numero 276 del 2003), poi, ha introdotto un’ulteriore facilitazione per i malati di tumore: consente, infatti, al malato dipendente dal settore privato di passare dal tempo pieno al tempo parziale per potersi curare con maggiore agio, mantenendo però il diritto a riprendere il normale orario di lavoro quando lo riterrà opportuno. Un ulteriore e significativo passo avanti viene compiuto a fine 2007. Nel protocollo sul Welfare (collegato alla Finanziaria 2008), viene approvato all’unanimità un emendamento che estende i benefici della norma della Legge Biagi ai dipendenti del pubblico impiego e, in diversa misura, anche ai lavoratori familiari o conviventi che assistono il malato.

«I DIRITTI CI SONO, MA I PAZIENTI NON LO SANNO» - Anche la percezione di questi diritti da parte degli stessi malati, però, è ancora troppo bassa. «Su 544 donne colpite da tumore al seno - chiarisce il presidente di Europa Donna , Giovanna Gatti, citando una ricerca effettuata da Astra per l’Associazione nel 2007 - solo il 35 per cento è risultato informato sulla possibilità di fare visite mediche senza dover ricorrere a ferie o permessi, il 22 per cento sul diritto di passare ad una mansione più adatta al proprio stato fisico, il 20 per cento sulla possibilità di ottenere un periodo anche lungo di aspettativa non retribuita, il 18 per cento sul diritto di passare a un part-time provvisorio». Ancora più preoccupanti, poi, i dati riguardanti l’utilizzo di queste facilitazioni. Solo il 3 per cento delle 544 intervistate è infatti passato a un part-time provvisorio, a lunga aspettativa o a una mansione più adatta è solo il 12 per cento ha fatto ricorso a visite mediche senza sprecare giorni di ferie».

CONGEDI RETRIBUITI PER I FIGLI CHE ASSISTONO I MALATI – Ai numerosi casi finiti in Tribunale almeno la Legge italiana cerca di dare una risposta. E’ del 12 Febbraio 2009 l’ultima importante sentenza (n. 19/2009) della Corte Costituzionale, che riconosce al figlio convivente di persona con handicap grave (articolo 3, comma 3, Legge 104/1992), il diritto a fruire di un congedo straordinario dal lavoro per un periodo massimo di due anni in modo frazionato o continuativo e è interamente retribuito. Questo «permesso» può essere fruito una sola volta nell'arco dell’intera vita lavorativa del familiare che assiste il malato. «Ma prima di questa sentenza – spiega Elisabetta Iannelli -, il congedo biennale retribuito (art. 42, D. lgs. 151/2001) era riconosciuto solo al coniuge o al genitore della persona con handicap grave oppure (ma solo in caso di decesso o inabilità dei genitori) a un fratello o sorella convivente. Ora la Corte Costituzionale – già recepita da una circolare applicativa dell’Inps - ha esteso il diritto in esame anche al figlio convivente nel caso in cui non ci siano altri soggetti idonei a prendersi cura della persona in situazione di disabilità grave». Questo significa che il figlio di una persona malata di cancro (cui sia stato riconosciuto lo stato di handicap in situazione di gravità) potrà assistere il proprio caro assentandosi dal lavoro per un periodo continuativo o frazionato fino a due anni conservando la retribuzione ed il posto di lavoro.
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01/02/2013 19:15

Accanto al malato.... sino alla fine
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L'ECO di San Gabriele
8 ottobre 1998
di Luigi Accattoli

Antonio Thellung, romano, da quindici anni si occupa di assistenza agli infermi terminali. Un libro racconta la sua esperienza.

Dice che assistendo i malati ha "imparato a essere felice" e a me è bastata questa affermazione per decidere di intervistarlo. Si chiama Antonio Thellung, è romano, ha 67 anni, tre figli e sette nipoti. Da quindici anni si occupa di assistenza a malati terminali. Ha raccontato in un libro appena pubblicato - intitolato "Accanto al malato... sino alla fine. Esperienze e testimonianze" (Editrice Ancora, 140 pagine, 18.000 lire) - 23 storie del suo" coinvolgimento con sorella morte".

Quanti malati hai assistito in quindici anni?

Un'ottantina. E una quarantina ne ho visti morire. E' sempre un' esperienza straordinaria. Ogni volta ho la sensazione di essere di fronte al mistero. E' come se lo toccassi ed è come se la Grazia ti toccasse.

Perché dici che l'assistenza ti ha insegnato la felicità?

Preparando il libro, mi sono chiesto che cosa avessi imparato. Tante cose, tendevo a pensare: la pazienza, la capacità di valorizzare gli aspetti positivi che non mancano mai nelle situazioni drammatiche, la prontezza a far tesoro di ogni momento. Ma questo elenco non mi soddisfaceva, finché mi è parsa chiara quella risposta sulla felicità.

E' un' affermazione paradossale. I lettori la capiranno?

Qualcuno resterà incredulo, ma che posso farci se questa è la realtà? Penso che l'affermazione possa essere capita purché non si confonda felicità con spensieratezza. Comunque per me non è una teoria ma un' esperienza. L'esperienza di alcuni mediocri gesti eccezionali, che chiunque può compIere.

Prova a raccontarla con poche parole...

L'assistenza ai malati è stata una svolta per la mia vita. Prima pensavo che, per godere qualche gioia, fosse necessario allontanare il pensiero della sofferenza. Il mio atteggiamento è cambiato, quando ho sperimentato quali stupefacenti risultati si ottengono portando un sorriso nel dramma: e lì che quel paradossale stato d' animo che chiamo felicità mi ha conquistato. E ho capito che felicità e angoscia non sono in alternativa tra loro, ma possono convivere.

Qual è stata la prima occasione di questa scoperta?

La morte di mio fratello Eugenio, per tumore al cervello. Nella fase finale della lunga malattia, d'accordo con i miei famigliari, lo prendemmo in casa nostra. Fu così che ritrovai un fratello con il quale avevo sempre avuto buoni rapporti, ma un po' distaccati. Ci guardavano negli occhi, e penso che anche lui provasse un' emozione simile alla mia. Ma fu ad esperienza compiuta che mi accorsi, con sorpresa, di aver scoperto qualcosa di nuovo: che i tre mesi dedicati a Eugenio erano stati tra i più belli della mia vita. Per quanto gli avessi dato, avevo certamente ricevuto molto di più.

La scoperta della felicità fu tutta lì, o ebbe sviluppi?

Il tocco finale di questa scoperta è venuto con un'altra esperienza di assistenza, uno dei primissimi casi dopo la morte di mio fratello. Si chiamava Renzo e se ne andò in tre giorni: ci avevano chiamato all'ultimo momento. L' assistei per due giorni e il terzo fu mia moglie Giulia che si offerse per la notte. L'accompagnai e poi tornai a casa e mi addormentai finché poco dopo le due squillò il telefono. Come d'accordo, ritornai sul posto per aiutarla a lavarlo e a vestirlo. Poi dopo averlo salutato, tornammo a casa e alle cinque eravamo di nuovo nel nostro letto. Fu a quel punto che Giulia mi disse: "Stanotte ci siamo alzati per pregare insieme". Pregare non era stato mai il mio forte, ma da allora mi resi conto che quel tipo di preghiera mi era congeniale. Ciò che più mi colpì fu la parola 'insieme'.

Dopo questi inizi, come si è sviluppata la tua assistenza ai malati?

Fui tra i promotori dell'" Associazione Ryder Italia", nata a Roma quattordici anni fa, dalla britannica Sue Ryder Foundation, che offre assistenza a tutto campo (dalle prestazioni mediche al sostegno psicologico) ai malati terminali di cancro. Il gruppo romano oggi conta quattro medici, sette infermieri e una trentina di volontari. Ma non tutte le storie che racconto in questo volume sono legate all' associazione.

L'associazione è laica, tu invece hai motivazioni cristiane: qiual è la storia della tua fede?

Sono nato cattolico, ma poi ho avuto un allontanamento e infine una conversione. Ho perso la fede quando l'immagine di Dio che mi seguiva dall'infanzia arrivò ad apparirmi peggiore di me. Quel Dio vendicativo che la fa pagare al peccatore non l'accettavo più. Tornai alla fede quando intuii qualcosa della paternità divina. La conversione maturò attraverso una rilettura dei Vangeli. Fu decisivo intendere che il Signore trasforma il male in bene e non separa il male dal bene.

C'è una parola del Vangelo che ti ha segnato di più?

La regola d'oro che Gesù detta nel discorso della montagna: Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro" (Matteo 7,12). E' significativo che dopo tanti secoli di cristianesimo, nella cultura comune questa regola continui a essere citata secondo la formulazione in negativo che aveva nell' Antico Testamento: 'Non fare agli altri ciò che non vorresti sia fatto a te!'.

Rivista del Volontariato, novembre 1998
Racconti dal vero
di Luciano Tavazza

Antonio Thellung è uno dei fondatori della Comunità del Mattino, un piccolo insieme di famiglie che da quasi vent'anni vivono sotto lo stesso tetto. Da quindici anni si occupa di assistenza a malati oncologici terminali.

Il racconto che egli ci fa di questa sua esperienza è semplicemente sconvolgente. Non solo per la testimonianza che ci dà di cose fatte, di interventi operati in condizioni spesso incredibili dal punto di vista umano, ma soprattutto per il tema della "normalità" che rientra nel lavoro suo personale e dei suoi collaboratori. Poco più di venti storie, ma tali da imprimersi nella mente di ciascuno di noi come l'avventura vissuta da uomini che, colpiti dalla malattia e in stadio terminale, trovano modo di trarre da essa capacità insospettate, di scoprire il senso della vita e della morte, di dialogare come non avevano mai dialogato prima di questo momento. Scrive Vera: "Certamente, senza questa malattia, nella nostra vita non si sarebbero sprigionate tutte quelle forze che hanno consentito ad entrambi, in qualche modo, di percorrere fino in fondo il nostro cammino" e conclude Grazia: "Se oggi mi sento forte, serena, tranquilla, è per tutto quello che mi ha insegnato la mia "Stella" perché con l'esempio della sua vita ho ricevuto da lei molto più di quanto sia riuscita a darle".

Scrive giustamente Accattoli nell'introduzione di questi racconti: "Ne viene fuori un "seminario verso l'infinito" come lo chiamano. Lo tengono due volte alla settimana. A esso partecipa anche Vera, la moglie di Francesco. Vanno avanti sei mesi, poco importa che l'uno abbia una previsione di vita più breve dell'altro. IL momento arriva per tutti. C'è anche l'audacia di portarsi all'altezza della propria morte in questo libro".

Per raggiungere questa altezza Thellung in prima persona ha vissuto le cose reali che racconta, insieme al gruppo dell'Associazione Raider Italia, nato a Roma quattordici anni fa per assistere a domicilio i malati terminali di cancro. Struttura che offre assistenza a tutto campo, dalle prestazioni medico-infermieristiche al sostegno psicologico, oltre a garantire l'apporto di volontari che danno il supporto necessario alle famiglie.

Dice Thellung, al termine del suo splendido volume: "Infine voglio ringraziare tutti gli ammalati che ho incontrato e conosciuto intimamente, con il loro coraggio, ma anche con le loro debolezze. Mi hanno impresso nel cuore un segno indelebile". Non si può fare questa lettura senza che il segno rimanga anche nel profondo del cuore del lettore.

Sì alla vita novembre 1998
E se provassimo a non lasciarli soli?
di Marzia Pileri

Un'esperienza di volontariato, come tante forse, ma nello stesso tempo un po' particolare: scegliere di accompagnare nell'ultimo periodo della loro vita i malati terminali di cancro. Quelli che i medici giudicano inguaribili, senza speranza, senza alcuna possibilità di miglioramento, quelli che possono solo peggiorare fino alla morte.

A Roma da quattordici anni esiste l'associazione Ryder, fondata in Gran Bretagna, e successivamente diffusa in altri Paesi, che garantisce un'assistenza volontaria gratuita a tutto campo: prestazioni medico-infermieristiche, sostegno psicologico, assistenza domiciliare diurna e notturna quando occorre.

Improvvisamente nel grigiore quotidiano e senza speranza dei malati terminali e dei loro familiari appare una luce, un riferimento che ridà fiducia, un'opportunità di rileggere la sofferenza e viverla come un momento privilegiato della propria vita.

Questa la ricchezza, sofferta ma viva, presentata nel testo di Antonio Thellung "Accanto al malato… sino alla fine" stampato dalla casa editrice Ancora. Si tratta del racconto di esperienze e di testimonianze nelle quali, senza alcuna retorica, ma con un coinvolgimento positivo e affettuoso, vengono descritte differenti situazioni di malattia e morte: tumori che colpiscono bambini, adolescenti, anziani, mamme e papà con figli piccoli che assistono alla morte dei loro amati genitori, persone sole, persone con pesanti disaccordi familiari, adulti felici e vitali, tutti in modo inesorabile.

Potrebbe sembrare, da queste brevi parole, un libro deprimente, da non comprare per non pensare, ma in realtà si tratta di pagine piene di speranza e di amore, che aiutano a far riflettere sul senso della vita e su "sorella" morte, che ci accompagna in modo discreto all'appuntamento in cui si presenterà senza veli. Spesso i malati sono descritti come sereni e vivaci, desiderosi di rapporti umani, di tenerezza e di intimità, raramente come intolleranti o depressi. Nei casi in cui il senso di sconfitta prende il sopravvento, quando l'angoscia copre le altre sensazioni e sembra che la malattia non lasci più il tempo di fare niente, "Lorenzo", nome che rappresenta tutti i volontari di questa associazione, fa riflettere su quante volte si è sprecato il tempo e soprattutto su come ogni minuto è un'opportunità tutta da vivere.

Qualche malato arriva a parlare di suicidio, del diritto di scegliere il momento in cui morire, ma ancora una volta, mettendosi nei panni di quella persona, non c'è biasimo, né disistima, ma un invito alla riflessione, alla possibilità di affrontare costruttivamente le peggiori tragedie, vivendole semplicemente con dignità. In una di queste testimonianze il protagonista, dopo avere desiderato il suicidio, è arrivato ad affermare commuovendosi: «Certo che questa esperienza d'infinita tenerezza con mia moglie, se non fossi stato così male, non l'avrei mai sperimentata», cogliendo quindi il senso profondo del dolore.

"Lorenzo" riesce ad intuire e a far capire ai familiari ogni volta qual è il comportamento più opportuno da adottare in quella situazione. Ogni difficoltà viene affrontata direttamente, la stessa comunicazione di quanto tempo resta da vivere viene apertamente riferita, non c'è da nascondere niente a nessuno, la verità è limpida e diretta, al di sopra del "balletto delle menzogne" e del non detto che si instaura in questi casi. Gli effetti del resto sono di sollievo, si può piangere insieme, lasciare libero sfogo alla commozione senza bisogno di nasconderla né a se stessi né agli altri.

Le testimonianze forse più coinvolgenti sono quelle dei bimbi cui muore la mamma e quella di Francesco, un architetto con moglie e due figli piccoli, che decide di compiere una sorta di preparazione alla morte, un "seminario verso l'infinito" come lo hanno denominato, cui partecipa anche la moglie, «tanto, vicina o lontana che fosse in quel momento la morte, sarebbe prima o poi giunta inesorabile per entrambi.»

La seconda parte del libro presenta delle indicazioni concrete per restituire ai malati la loro preziosa dignità fino all'ultimo. Così ad esempio si esprime: «...il malato deve essere posto al centro dell'attenzione... stabilendo con lui rapporti di fiducia...e il miglior coadiuvante di qualsiasi terapia è la voglia di vivere, anche per il poco tempo che resta.... Occorre responsabilizzarlo, trattandolo da pari a pari, dimostrandogli che il suo comportamento continua a incidere profondamente sugli altri... che non è affatto diventato inutile, contrariamente a quanto si tende a credere.»

Il libro si conclude con le riflessioni dell'autore sul significato che queste esperienze hanno avuto su di lui e sulla sua famiglia, su come hanno assunto la forma "di una preghiera vissuta".

Attraverso il contatto continuo con la sofferenza, l'autore afferma che "ha imparato ad essere felice" comprendendo che "felicità e angoscia non sono in alternativa, ma possono convivere". Questo è sicuramente l'atteggiamento più valido e costruttivo sia verso la vita che verso la morte.

Avvenire, 25 novembre 1998
Storie di vita dai malati terrminali

Imparare che cos'è davvero la felicità vivendo accanto ai malati terminali. È la testimonianza personale offerta in questo libro da Antonio Thellung, tra i fondatori della Comunità del Mattino, da quindici anni impegnato in questa delicata forma di assistenza. Scorrendo le pagine ci si imbatte in una galleria di cammini verso «la soglia». «Non faccio né cronaca, né storia - scrive Thellung - racconto quanto ho personalmente visto, conosciuto, percepito in queste situazioni». Una lezione di vita che sa fare i conti con 1'angoscia.

Noi genitori e figli
Del 29 novembre 1998
Accanto al nalato… sino alla fine di Antonio Thellung riferisce i toccanti rapporti che giorno per giorno si sono instaurati tra i malati – oggi tutti defunti – e gli assistenti domiciliari dell'Associazione Ryder. Ogni storia è diversa, ciò che è sempre lo stesso è l'atteggiamento umile di tutti i volontari, indistintamente, i quali infatti confluiscono tutti in un solo assistente «simbolico ma nient'affatto inventato», Lorenzo, protagonista di ogni vicenda. Lorenzo non è un medico, non combatte la malattia (peraltro già vittoriosa nei casi terminali); è la persona, uomo o donna che sia – che con la sua sola presenza vince la solitudine di chi deve morire e dei suoi familiari. Sembra impossibile che chi soffre con tanta intensità possa ancora provare piccole gioie, avere desideri, concepire un futuro seppure a breve scadenza. Eppure è così, basta saperlo ascoltare. È quello che Lorenzo fa. E mano a mano che ci introduce nelle varie case, ci sembra di conoscerli anche noi quei malati, con le loro piaghe, i loro malesseri così crudamente descritti, ma anche le loro confidenze. Immancabilmente ci lasciano, e tutte le volte ci dispiace: anche noi, come Lorenzo, ci eravamo un po' abituati a loro.
Notiziario Ryder Italia del dicembre 1988
UN LIBRO, UNA STORIA... QUELLA DELLA RYDER ITALIA
di Giovanni Creton

Questo numero del nostro giornale è dedicato in gran parte al volontariato e quindi non poteva mancare la recensione di un libro sull'esperienza diretta di un nostro volontario, Antonio Thellung ha scritto un bel libro sulla sua esperienza come volontario della Ryder Italia. E' scritto con l'ottica di una persona comune che è impegnata da anni nell'assistenza diretta al malato terminale ed ai suoi familiari. A mio parere la cosa più bella del libro è la scoperta da parte di Antonio che il problema del morire è un aspetto essenziale della nostra cultura e della nostra psiche ed il poterne apertamente parlare fa bene al malato, ai familiari e a noi stessi. La lettura dei vari casi è una esperienza emotivamente molto coinvolgente e rappresenta una testimonianza diretta di quello che significa essere un volontario direttamente impegnato nell'assistenza ai malati gravi.

La Pagina, giovedì 21 gennaio 1999
Felice accanto a chi sta morendo
di Alberto Burzio

La morte è il momento più difficile della nostra vita. Partendo da questa considerazione, vorrei suggerire la lettura di un libro prezioso, appena uscito. Il volume è scritto da Antonio Thellung, 67 anni (felicemente sposato da 45, con tre figlie già nonno di sette nipoti) uno dei fondatori della "Comunità del mattino" di Roma (un piccolo insieme di famiglie che da quasi vent'anni vivono sotto lo stesso tetto). Da 15 anni, Thellung si occupa dell'assistenza a malati di cancro terminali. Il libro, nella prima parte (e in forma, a volte, anche molto cruda), riporta numerose testimonianze vissute accanto a malati che stanno per andarsene dal Creatore.

Thellung racconta di «aver imparato ad essere felice» assistendo i malati terminali, "la sua avventura - scrive Luigi Accattoli n'ella prefazione del "libro - è pienamente umana perché egli ci racconta di aver imparato in essa la felicità, ma sopratutto dice di aver capito che "felicità ed angoscia non sono in alternativa, ma possono convivere"... Egli dice più di una volta che il suo volontariato accanto a chi soffre lo aiuta a "coltivare felicità". Ma si tratta di "una felicità paradossalmente intrecciata a sofferenza ed angoscia": Non è così la vita?».

Nel libro ci sono anche tanti bambini. Che con Lorenzo (il protagonista del libro, che rappresenta il volontario presente ai singoli fatti indipendentemente dal suo vero nome, testimone concreto di avvenimenti accaduti nella realtà) si affacciano sulla porta dei malati, vanno con Lorenzo a comperare i fiori per la mamma, qualche volta decidono di andare con lui a vederla composta nella bara.

Diverse le "perle" contenute nel volume. Nella premessa, Thellung ci ricorda che «per coinvolgerci nell'assistenza ai malati terminali, non è affatto necessario essere eroi, missionari, "marziani": basta semplicemente un pizzico di disponibilità, e il resto maturerà nel tempo, a poco a poco. L'importante è farsi aiutare, non essere individualisti, lavorare assieme ad altri. La mia grande fortuna è stata quella di incontrare un' équipe di medici ed infermieri che, oltre alla serietà professionale, hanno capito l'importanza di educarsi alla sensibilità dei rapporti umani, cosa che dovrebbe essere di tutti». E più avanti: "Ho capito che l'assistenza ai malati è qualcosa che non si fa solo per gli altri, ma anche perse stessi, per scoprire, ed approfondire il senso della vita, per lasciarsi aiutare da coloro che hanno bisogno di aiuto. Non è un mestiere o un'attività, ma l'occasione di sperimentare ogni volta qualcosa di nuovo. Ed è inutile chiedersi che cosa: nessuno può dirlo, se non facendone concreta esprienza».

«La disponibilità verso gli altri dovrebbe essere un atteggiamento normale - ci ricorda Thellung - non è necessario essere santi, o perfetti, o tipi in gamba, o particolarmente abili. Anche un mediocre può, chiunque può fare qualcosa, a patto di volerlo fare, a patto di farlo. O, per dirlo con una metafora, basta prestare i vestiti agli angeli: loro sapranno come utilizzarli».

Molto toccanti le testimonianze di diversi volontari, raccolte nella seconda parte del volume. Tra tutte, riportiamo le parole di Marlene: «Ogni giornata è una sfida, ogni paziente che vedo mi porta a riflettere su quanto debba essere terribile sapere che la propria vita sta finendo, ed è questo che mi incoraggia a lavorare ed impegnarmi come posso, utilizzando le cose più semplici. Talvolta basta una parola, o l'ascolto silenzioso, o perfino il palmo di una mano sul braccio, perché non esistono tecniche scientifiche per dare conforto morale».

Famiglia Cristiana del 31 gennaio1999
QUANDO LA VITA FINISCE C'È QUALCUNO CON TE
di Sandro Spinsanti

li titolo stende un velo su una realtà che non si vuole più nominare, ma un velo così leggero che non nasconde niente. Perché è chiaro che stare accanto a un malato "sino alla fine" significa accompagnarlo fin sulla soglia della morte. L'autore non è un professionista della sanità, ma ha seguito tante persone nella fase terminale della lotta contro la malattia. Confessa di aver dovuto superare una soglia: «Un tempo anch'io, come molti, pensavo che ciascuno deve fare il suo mestiere, e dato che occuparsi dei malati non era la mia scelta professionale, concludevo che era assai meglio affidarli agli specialisti».

Poi le vicende della vita lo hanno messo nella necessità di assistere un fratello, colpito da un tumore cerebrale. Ha imparato che coinvolgersi con una persona, rimanendo al suo fianco durante l'ultimo tratto del viaggio terreno, non è solo uno sforzo immane, ma una straordinaria opportunità di crescita spirituale. Da allora Thellung ha assistito decine di persone nell'ultima fase della vita, collaborando con l'associazione romana di volontariato Ryder Italia. In questo libro racconta quello che ha dato e quanto, in misura maggiore, ha ricevuto. Non vuol fare proseliti. Ma il suo entusiasmo è contagioso: è difficile sottrarsi al fascino di una fraternità vissuta, che permette di chiamare "sorella" anche la morte.

Un libro importante, che dovrebbe essere letto da tutti, e potrebbe aiutare molte persone, soprattutto quelle che alla morte non pensano mai.

L'esperienza della Rete di Indra
e la presa di rifugio
di Roberto Mander

testo del seminario tenuto all'Ameco il 20 marzo 1999

Ma direi che il dono maggiore è dato dal senso di fiducia che si può trasmettere anche agli altri in ... – e qui è difficile trovare le parole adatte – un orizzonte più vasto. Mi ha molto colpito una frase di Antonio Thellung che ho ascoltato recentemente in un dibattito. Antonio Thellung da molti anni si occupa di assistenza ai malati terminali e, raccontando delle sue numerose esperienze di accompagnamento di persone giunte alla fase finale della vita, a un certo punto ha detto: "Prestiamo più spesso i nostri abiti agli angeli...". Intendendo dire che attraverso di noi a volte succedono delle cose più grandi di quanto ci potremmo mai aspettare. A me è sembrata una splendida immagine per parlare di non io, di vera umiltà, di apertura di cuore...

RAFAEL notizie Gennaio aprile 1999
di Alberto Burzio

Felice accanto a chi sta morendo

La morte è il momento più difficile della nostra vita. Partendoda questa considerazione, vorrei suggerire la lettura di un libro prezioso, appena uscito. Il volume è scritto da Antonio Thellung (67 anni, felicemente sposato da 45, con tre figli e già nonno di 7nipoti), uno dei fondatori della “Comunità del Mattino” di Roma (un piccolo insieme di famiglie che da quasi vent’anni vivono sotto lo stesso tetto). Da 15 anni, Thellung si occupa dell’assistenza ai malati di cancro nella fase ultima della vita. Il libro, nella prima parte (e in forme, a volte, anche molto crude), riporta numerose testimonianze vissute accanto ai malati che stanno per morire. Thellung racconta di “aver imparato ad essere felice” assistendo questi malati, “la sua avventura - scrive Luigi Accatoli nella prefazione del libro – è pienamente umana perché egli ci racconta in essa la felicità, ma soprattutto dice di aver capito che “felicità ed angoscia non sono in alternativa, ma possono convivere”… Egli dice più di una volta che il suo volontariato accanto a chi soffre lo aiuta a “coltivare la felicità”. Ma si tratta di “una felicità paradossalmente intrecciata a sofferenza e angoscia”. Non è così la vita?” Nel libro ci sono anche tanti bambini, che con Lorenzo(il protagonista del libro, che rappresenta il volontario presente ai singoli fatti indipendentemente dal suo vero nome, testimone concreto di avvenimenti accaduti nella realtà) si affacciano sulla porta dei malati, vannocon Lorenzoa comprare i fiori per la mamma, qualche volta decidono di andare con lui a vederla composta nella bara…

Diverse le “perle” contenute nel volume. Nella premessa, Thellung ci ricorda che “per coinvolgerci nell’assistenza ai malati in fase avanzata non è affatto necessario essere eroi, missionari, “marziani”:basta semplicemente un pizzico di disponibilità, e il resto maturerà nel tempo, poco a poco. L’importante è farsi aiutare, non essere individualisti, lavorare assieme ad altri. La mia grande fortuna è stata quella d’incontrare un’équipe di medici e infermieri che, oltre alla serietà professionale, hanno capito l’importanza di educarsi alla sensibilità dei rapporti umani, cosa che dovrebbe essere di tutti”. E più avanti: “Ho capito che l’assistenza ai malati è qualcosa che non si fa solo per gli altri, ma anche per se stessi, per scoprire ed approfondire il senso della vita, per lasciarsi aiutare da coloro che hanno bisogno di aiuto. Non è un mestiere o un’attività, ma l’occasione di sperimentare ogni giorno qualcosa di nuovo. Ed è inutile chiedersi che cosa: nessuno può dirlo, se non facendone concreta esperienza”.

“La disponibilità verso gli altri dovrebbe essere un atteggiamento normale ci ricorda Thellung - Non è necessari essere santi, o perfetti, o tipi in gamba, o particolarmente abili. Anche un mediocre può, chiunque può fare qualcosa, a patto di volerlo fare, a patto di farlo. O, per dirlo con una metafora, basta prestare i vestiti agli angeli, loro sapranno come utilizzarli”.

Molto toccanti le testimonianze di diversi volontari, raccolte nella seconda parte del volume. Tra tutte, riportiamo le parole di Marlene: “ogni giornata è una sfida, ogni paziente che vedo mi porta a riflettere su quanto debba essere terribile sapere che la propria vita sta finendo, ed è questo che mi incoraggia a lavorare ed impegnarmi come posso, utilizzando le cose più semplici. Talvolta basta una parola, o l’ascolto silenzioso, o perfino il palmo di una mano sul braccio, perché non esistono tecniche scientifiche per dare conforto morale”.

Un libro importante, che dovrebbe essere letto da tutti e potrebbe aiutare molte persone, soprattutto quelle che alla morte non pensano mai.

Lettera della fraternità anawim del 15 marzo 2006
LA SOFFERENZA
di Luciana Silvetti

Ho appena terminato di leggere il libro "Accanto al malato sino allafine" (Ancora editrice, 1998). L'autore, Antonio Thellung, cita una serie di esperienze e testimonianze accumulate nel corso di un' assistenza a domicilio di malati terminali. Nonostante la tristezza dei temi trattati, il libro è in definitiva un inno alla gioia. Le diverse storie in esso narrate mi hanno insegnato che gioia e dolore non sono in antitesi, ma direi quasi che si inseguono e si amalgamano.

Terminata questa lettura, mi è venuto spontaneo fare una serie di considerazioni sulla sofferenza.
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01/02/2013 19:15

L’importanza dell’approccio
socio-educativo-didattico ai
bambini degenti in pediatria
e pediatria-oncologica.

La lotta contro ogni forma di malattia non si esaurisce con il bisturi ed il
farmaco: l’approccio moderno, più efficace e risolutivo, delle attività di
contrasto alle patologie è quello che si basa su azioni positive miranti al
recupero del benessere psicologico, relazionale e socio-ambientale delle
persone. Tale modalità, avallata da un’ampia letteratura scientifica e sancita
ormai anche dall’International Classification of Functioning, Disability and
Health (ICF) dell’OMS, ha ispirato anche questa progettualità rivolta ai bambini
oncologici lungodegenti ed alle loro famiglie.
Il problema delle persone lungodegenti, infatti, in generale comporta
anche il disagio dei contesti familiari di riferimento; ciò è tanto più vero quando
in ballo vi sono bambini.
Occorre, infatti, favorire un ambiente sereno, sostenendo psicologicamente
bambini, genitori ed altri affetti familiari offrendo loro opportunità di svago
nelle lunghe, interminabili, giornate di degenza. Del resto la condizione
psicologica degli uni ha dei riflessi diretti sugli altri, sicchè la condizione di
disagio rischia sempre di condizionare il decorso della malattia sia per quel che
riguarda l’efficacia, sia per quel che ne concerne la durata.
E’ sempre più necessario, dunque, fare attività di presa in carico di tutto il
contesto relazionale del bambino. In questa prospettiva, dunque, il ruolo
dell’ospedale si apre ad esperienze che aprono gli ambienti, necessariamente
asettici, dei reparti ad esperienze di laboratori di socio-animazione che vedono
collaborare attivamente - e fattivamente - operatori qualificati con il personale
sanitario ed equipe di psicologi per sostenere degenti e famiglie.
L’obiettivo è quello di addolcire ogni disagio potenziale, facendo si che ogni
terapia collaterale abbia importanza paritetica rispetto a quella oncologica, per
“curare la psiche” ed innalzare la voglia di vivere del bambino alleviando, allo
stesso tempo, il trauma per le famiglie di riferimento.
Ogni elemento direttamente utile alla cura integrale del bambino oncologico,
dall’ambiente ospedaliero, al personale medico e paramedico, dai protocolli
terapeutici alle procedure amministrative, dalle norme di convivenza alle
garanzie per la privacy, deve contribuire a formulare positività di pensieri e
riflessioni, allontanando ogni elemento che determini incertezza per garantire
la sconfitta del tumore.
Gli interventi dell’equipe integrata con operatori di professionalità diverse -
socio-animatori, medici, psicologi, paramedici – non possono tenere conto,
peraltro, della destabilizzazione provocata dalla patologia oncologica nei
rapporti interfamiliari, tra gli stessi genitori e tra genitori ed eventuali altri figli.
Le attività, quindi, devono essere sempre più tese a coinvolgere i gruppi
familiari, proiettando, per quel che è possibile fare in un reparto, un ambiente
familiare coeso ed emotivamente sano.

>>>>>>>>>>>>>>>>>>>><<<<<<<<<<<<<<<<<<<

Il risvolto psicologico delle
attività collegate alla
educazione alla musica ed
alla socioanimazione.

Negli ultimi anni in numerosi paesi si sta rivolgendo l’attenzione alla cura del
bambino all’interno degli ospedali ed alla risoluzione dei problemi causati
dall’impatto dell’ospedalizzazione sul normale sviluppo psicofisico, dalle
difficoltà legate alla malattie, agli effetti delle terapie ed alle ripercussioni
psicologiche ambientali. Per la risoluzione di tali problemi si sta rispondendo
anche con l’ausilio della musicoterapica che differisce dall’intrattenimento
meramente musicale.
Grazie, alla sua natura dinamica, infatti, cioè suoni, strumenti, canto, ritmi,
movimento, è possibile sondare lo stato emozionale, psichico e fisico, del
bambino ed a stabilire un rapporto terapeutico. Riuscire a far si che i piccoli
pazienti allentino le loro ansie e le loro angosce, sdrammatizzando le
situazione e il luogo, in favore di un pensiero che diverta; superare difficoltà di
relazione, allacciare rapporti più profondi con familiari ed amici; migliorare la
qualità della vita all’interno della struttura ospedaliera.
Ovviamente, da queste attività si attendono positive ripercussioni anche
nell’andamento della terapia del dolore, nel senso che le attività collegate alla
musicoterapia possano costituire momenti di distrazione dal dolore in assenza
di farmaci.
Uguale, positivo, risvolto psicologico possiede anche il ricorso alla
maschera BENONE che richiama da vicino anche l’ormai consolidata esperienza
della clownterapia, ossia il ricorso a figure che stimolano il sorriso, che
riescono a contenere, comprendere, elaborare le loro emozioni. Attraverso
trasfusioni di cioccolata e siringhe che fanno bolle di sapone, il bambino riesce
a sdrammatizzare la tanto temuta figura del medico, riesce a prendere
familiarità con le procedure terapeutiche, in ultimo riesce a comprendere e
probabilmente ad accettare il suo vissuto di malattia.
Un’attenzione alla sfera personale ed emotiva del degente, dunque, che si
associ alla forsennata cura corporea, l’unico obiettivo di cui, in gran parte, la
ricerca scientifica si occupa: il tentativo di comprendere ed apprendere il
concetto di cura non soltanto nel senso di guarire ma del vero significato,
quello di prendersi cura della persona.
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01/02/2013 19:16

Bambini in salute: l’alimentazione nell’infanzia

I bambini, si sa, sono "clienti" difficili ed esigenti. La maggior parte dei cibi sani e consigliabili non trova gradimento nel loro palato. Ci sono, però, tanti trucchi per contrastare le cattive abitudini e radicare in loro sane abitudini di vita. Il cancro è una patologia strettamente legata al cibo: mangiare correttamente sin da piccoli è il miglior investimento per la salute.

Le preferenze alimentari e l'abitudine a un regolare esercizio fisico si consolidano nei primi anni di vita. Per questo è molto importante insegnare ai più piccoli ad alimentarsi correttamente e invitarli a praticare sport nella giusta quantità.
Diversi studi epidemiologici hanno dimostrato che oltre il 30 per cento dei tumori è associato al tipo di alimentazione seguita e che un consumo di cibi sani fin dalla più giovane età si accompagna a una più bassa incidenza di tumori.
Questo dato è stato confermato anche da un grande studio epidemiologico europeo, lo studio EPIC, al quale anche AIRC ha contribuito.
L'elemento determinante, secondo lo studio EPIC, è l'elevato consumo di vegetali fin dalla più tenera infanzia, a fronte di un apporto contenuto di proteine di origine animale.
Questione di proporzioni
La colazione è una cosa seria
Educare a stare a tavola
Vizi e virtù: indicazioni utili
Questione di proporzioni

Perché i più piccoli siano sempre svegli e pieni di energie è necessario che l'apporto calorico segua lo schema rappresentato qui sotto.

L'importanza reciproca di pranzo e cena è, purtroppo, spesso invertita: i bambini che mangiano nelle mense scolastiche tendono a non consumare l'intero pasto (spesso perché non gradito), mentre i genitori che lavorano riservano alla sera il menù più completo, favorendo così l'aumento di peso. Durante la notte, infatti, il bambino non ha modo di smaltire le calorie in eccesso.


La colazione è una cosa seria

La colazione del mattino, spesso sottovalutata in Italia, è molto importante perché al risveglio, dopo una media di 10 ore di digiuno, l'organismo ha bisogno di "carburante" per ripartire.

Per fare una buona colazione, l'elemento chiave è il tempo. Alzarsi dieci minuti prima per sedersi a tavola è una strategia vincente: non solo si dà al bambino il tempo di svegliarsi con calma e di sentire gli effetti del digiuno notturno, ma si incentiva un inizio della giornata non troppo frenetico.

Una colazione scarsa innesca un vero e proprio circolo vizioso: è facile infatti che il bambino che non mangia al risveglio si butti affamato sulla merenda di metà mattina. Di conseguenza a pranzo non avrà fame. La merenda pomeridiana sarà quindi eccessivamente abbondante e la cena scarsa: in sostanza si sposta il bilancio nutrizionale verso gli spuntini di scarso valore a scapito dei pasti principali.

La merenda di metà mattina dovrebbe essere costituita da un frutto fresco o da semplice pane, meglio se integrale, che fornisce un buon apporto di carboidrati senza l'eccesso di zuccheri presente invece nelle merendine e nei biscotti.
Educare a stare a tavola

Insegnare ai propri figli a mangiare bene è parte dell'educazione che fornite loro. E poiché l'educazione parte dall'esempio, dovete fare innanzitutto un bilancio delle vostre abitudini alimentari per modificarle se non sono salubri: ne guadagnerà in salute l'intera famiglia.

Per cominciare, la frutta e la verdura sono la base di una sana alimentazione. Ogni giorno sia i bambini sia gli adulti dovrebbero consumarne cinque porzioni (tre di verdura e due di frutta), ma raggiungere questi standard con i più piccoli può diventare un'impresa impossibile. Esistono però alcuni "trucchi" per rendere i vegetali più appetibili e per educare i bambini a un corretto comportamento nei confronti dei cibi.
Non accettate mai un rifiuto netto
Tenete conto dei gusti dei piccoli
Non consentite ai bambini di alzarsi da tavola quando vogliono
Viceversa, controllate la quantità e la qualità dei bis
Servite porzioni piccole
Evitate di farli mangiare davanti alla TV accesa
Fateli partecipare alla preparazione dei piatti
Non preparate mai pasti differenziati per i diversi membri della famiglia
Non esistono tabù alimentari
Ricordate l'unica arma che avete per controllare l'alimentazione di un adolescente che si rende autonomo dalla famiglia
Introducete tutte le verdure, una per una, fin dalla più tenera età
La frutta e la verdura
Spiegate ai bambini da dove vengono i frutti e le verdure che consumano
Anche i più riottosi non resisteranno alla tentazione di assaggiare qualcosa che è stato coltivato da loro stessi
Giocate con le forme e i colori
Se possibile, privilegiate i piatti unici, che uniscono carboidrati, verdure e proteine
Dolci, budini e biscotti non sono dei "fine pasto", tranne che in occasioni speciali
Vizi e virtù: indicazioni utili

Gli errori più comuni

I bambini assumono troppe calorie rispetto al loro fabbisogno quotidiano
La ripartizione delle calorie nei diversi pasti non è quella corretta
Spuntini e merendine sono spesso molto calorici ma scarsi dal punto di vista nutrizionale
Il consumo di proteine animali è eccessivo
Il consumo di carboidrati ad alto indice glicemico come gli zuccheri semplici è eccessivo
Viceversa, i bambini mangiano poca frutta e verdura, ricche di fibre e di vitamine
Spesso manca sulla tavola il pesce, che è invece fondamentale
I bambini mangiano troppo spesso fuori casa pasti preparati industrialmente (con troppi grassi, troppo sale e troppo zucchero)
I piccoli mangiano spesso davanti alla TV e questo favorisce l'obesità perché riduce la capacità di controllare consapevolmente la quantità di cibo ingerito
I bambini fanno troppo poca attività fisica: dopo la scuola, spesso fanno i compiti e guardano la TV, mentre avrebbero bisogno anche di muoversi e giocare
I comportamenti virtuosi

Consumare tre pasti principali, con la giusta ripartizione calorica. Limitare a un massimo di due gli spuntini giornalieri
Introdurre quando possibile il piatto unico ben equilibrato
Consumare almeno una volta al giorno alimenti ricchi di amido come pasta, riso o pane, preferendo quelli integrali
Ridurre il consumo di cibi e bevande zuccherate sia nei pasti sia fuori dai pasti
Aumentare il consumo di frutta, verdura e legumi
Limitare il consumo di carni grasse e insaccati, eliminando il grasso
Consumare pesce almeno due volte la settimana
Limitare il consumo di burro a favore dell'olio extravergine d'oliva a crudo. Eliminare lardo e strutto
Evitare un consumo eccessivo di formaggi grassi
Variare la scelta dei cibi evitando la ripetitività .
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01/02/2013 19:17

Le 10 cose da non dire ad un (ex) malato di cancro
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Alcuni giorni fa, sul sito di Repubblica, è stato pubblicato questo articolo.
Mi sono immediatamente venuti alla mente alcuni commenti che sono stati fatti a me e che di certo non mi hanno fatto piacere.

Ora, sarò sincera. E’vero che a volte il malato può essere un po’ permaloso, ma non è neanche troppo da biasimare.
Alcune sortite si potrebbero assolutamente evitare. Se non si sa cosa dire, forse la cosa migliore è tacere, piuttosto che improvvisare perché ci si sente in dovere di dire qualcosa. Qualsiasi cosa.
Nel bestiario del chemioterapico, qui sul Codice, trovate alcune situazioni limite, spesso anche piuttosto spassose. Ma non tutti i commenti, non tutte le frasi buttate lì a caso suscitano ironia. A volte feriscono e feriscono durante e dopo la chemio.

Mai nessuno mi ha ferita in tutta la mia vita (a prescindere dal cancro) come questa professoressa universitaria, ma non è stata lei la sola ad avermi profondamente urtato.

Che poi, ho notato una cosa: le frasi che urtano sono più o meno le stesse per tutte, ma a volte cambiano le motivazioni che ci portano a vedere una certa uscita come irritante.

Nella top ten dei commenti che mi hanno irritata maggiormente metterei, in ordine sparso:
1) “Fatti coraggio”: una volta me lo disse persino uno zio del mio ex che non avevo mai visto e conosciuto prima. Ero stata invitata alla comunione di suo figlio. Lui venne da me, mi poggiò la mano sulla spalla, e invece di presentarsi, come prima cosa mi lanciò questo “fatti coraggio”. Fattene tu, coraggio, che ne hai più bisogno di me. Dio, che urto! La prima cosa che mi veniva da ribattere ogni volta era “ma che cazzo ne sai tu del coraggio?! Che ne sai tu cosa vuol dire venire sbattuti in trincea a vent’anni mentre intorno a te la gente muore? Non è coraggio. Io non ho scelto di fare quello che faccio. Io sono costretta a farlo, che è molto diverso. Io non sono coraggiosa. Io me la prendo in quel posto, che è ancora più diverso. E cerco di farlo con buona grazia.

2) “E dai che i capelli sono l’ultimo dei problemi”: sicuramente la perdita dei capelli non è letale. Ciò non di meno, perdere i capelli – oltre al discorso estetico che comunque c’è – è quel che mi identifica al mondo come malata di cancro. E come se io potessi vedere la mia malattia.

3) “Ma lo sai che proprio non si direbbe che sei malata? Sei un fiore!”: si, un fiore di plastica con i petali tutti stropicciati. Ne riparleremo quando sarò piegata in due sul water a vomitare pure gli occhi. Il chemioterapizzato non è necessariamente uno zombie per il 100% del suo tempo. Esistono terapia diverse, con effetti collaterali diversi, praticate su persone diverse. Per il 90% del tempo forse sì, si è oggettivamente degli stracci, ma c’è un margine che tendiamo a sfruttare al meglio.

4) “Se continui a dare esami all’università, è segno che la chemio non è così brutta e puoi studiare”: un corno! Significa solo che non posso mettere il naso fuori di casa perché sono immunodepressa e quindi ho molto, molto, molto tempo per studiare. E mentre prima potevo permettermi di iniziare a preparare l’esame una settimana prima della data prevista, ora devo farlo con molte settimane di anticipo, perché non so quante e quali saranno le giornate no.

5) “Se la racconti non era così grave/evidentemente era benigno”: No, se la racconto è perché sono stata fortunata, esattamente come tutti quelli che ce la fanno. Ho visto prognosi tutto sommato facili che sono state, purtroppo, completamente smentite. Inoltre, basta con questa confusione tra tumore benigno e maligno. Non è che chi sopravvive aveva un tumore benigno e chi non ce la fa lo aveva maligno. La differenza è molto meno grossolana.

6) “Ora è tutto finito: dimentica”: si, certo, che ci vuole. In fondo le persone non sono il frutto delle loro esperienze e, comunque, questo è un episodio talmente marginale nella mia esperienza umana che posso tranquillamente metterlo da parte. Poi, via, chi l’ha mai più visto un medico dopo quel fatto?! Ogni volta che me lo dicono rimango basita. Ma si rendono conto di quello che dicono?! Riflettono prima di parlare?!

7)”Si, ma dai, il linfoma è tra i migliori tumori che ti possono capitare”: per carità, tecnicamente è vero. Peccato che, ciò non di meno, la prima cosa che mi viene da ribattere è “Eh, infatti, pensa che culo che ho avuto!”. Ricordiamoci che se Atene piange, Sparta non ride. Sparta vomita come un pozzo di petrolio, ha dei giorni in cui non si regge in piedi, ha le ossa che fanno male e i suoi globuli bianchi sono solo un lontano ricordo, con tutti gli annessi e connessi.

8) ”Ok, allora adesso ci vuole proprio un bambino!”: allora, questo è il genere di esternazione che non dovrebbe mai essere fatto a prescindere. Questo come regola generale. Una persona potrebbe non aver mai avuto problemi di salute in vita sua e comunque non volere assolutamente dei figli. Sono affari suoi. Oppure potrebbe avere serie difficoltà di concepimento per vari motivi e sentire una pugnalata ogni volta che arrivano queste battute. Oppure potrebbe avere problemi economici/lavorativi/logistici per cui non può avere figli in un certo momento. E poi, santa pazienza, ma se per caso dopo sei mesi di chemio io proprio non potessi più averne? Questo non vi è passato per la mente? Io rientro tra le fortunate che, test di fertilità alla mano, sembra non aver subìto danni in tal senso. Ma io, per l’appunto, faccio parte della schiera delle fortunate. Non sono cose da chiedere. Mi fa piacere, però, quando a chiedermelo è la mia ematologa: lei ha la parete dello studio coperta di foto dei figli di pazienti. Immagino che per un medico, quando un paziente ha un figlio dopo la chemio, il traguardo raggiunto valga doppio.

9) “Ma Tanto tu sei forte. Cosa vuoi che sia per te questo problema familiare/lavorativo/vattelappesca dopo quello che hai passato. ” : Questa mi manda in bestia. “Tanto tu sei forte” è la tipica frase che mi fa diventare idrofoba. Io, a volte, vorrei non essere forte, perché tanto poi la mia forza viene usata contro di me. Altre volte, invece, mi capita di non sentirmi forte abbastanza, pensate un po’. Capiamoci una volta per tutte: tutti i raggi che il malato di cancro si becca, non ne fanno un supereroe insensibile alle difficoltà della vita. La prospettiva rispetto ai problemi sicuramente cambia, ma non siamo dei robot. Vi sto per lasciare una grande verità: l’ex malato di cancro, si incazza come tutti. Forse meno, ma come tutti.

10) ”La prevenzione e la vita sana non servono a niente. E’solo questione di fortuna: tu non hai mai fumato, non ti sei mai drogata e non sei alcolista: eppure ti sei ammalata”: non cerchiamo giustificazioni per i nostri vizi. Sono vizi, punto. Nessuno giudica. E’vero, io ho uno stile di vita abbastanza sano eppure mi sono ammalata. Come si sono ammalate mia nonna e mia mamma. Non perdiamo di vista la genetica. E la sfiga. Non sono una di quelle che non si è mai bevuta più di un cocktail nell’arco di una sera o che va al MacDonald’s una volta ogni tre anni perché fa male. Non mi tratto come una bambola di porcellana. Non ho intenzione di campare da malata per morire sana, ma evito i comportamenti che sicuramente sono potenzialmente nocivi. E non mi venite a dire tanto pure l’aria che uno respira fa male. Si, è vero. Lo smog potrebbe fare veramente male alla salute. Ma smettere di respirare sicuramente uccide. Ci sono comportamenti che non possiamo evitare, altri di cui possiamo fare a meno. Io sono sempre del parere che andarsi a cercar rogna non valga la pena.

Ricordiamoci sempre che un malato di cancro non deve essere trattato come un cancro. Deve essere trattato come una persona. LA MALATTIA NON VA MAI ANTEPOSTA ALLA PERSONA. Se si è in confidenza, vanno bene battute di spirito, umorismo nero, sincerità e domande. Se non si sa cosa dire e si è fortemente in imbarazzo, anche il silenzio può essere una buona soluzione. Tanto il malato capisce che interfacciarsi con lui può essere difficile.
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01/02/2013 19:18

RICOMINCIARE DOPO LA MALATTIA
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Un paziente complesso in ospedale. Dalla diagnosi alla guarigione. L’eventualità della morte
La malattia oncologica comporta sicuramente un'improvvisa interruzione della vita quotidiana a livello
emozionale, cognitivo, sociale. Il paziente è invaso da una netta prevalenza del corpo e del vissuto
corporeo su ogni altra esperienza di vita: sottoposto a una serie di indagini, interventi chirurgici, terapie,
sperimenta attraverso il dolore fisico, la nausea, il vomito, il suo nuovo modo di stare al mondo.
L'esistenza è segnata dai ritmi imposti dai protocolli che seguono tappe precise: la definizione della
diagnosi, l'impostazione terapeutica, la somministrazione dei blocchi terapeutici, il consolidamento fino
allo stop terapia. All’emergenza della prima comunicazione diagnostica, segue come fattore di ulteriore
impatto, in termini razionali ed emotivi, il riferimento alla prognosi.
L’incertezza prognostica cattura qualsiasi risorsa del cuore e della mente. L’eventualità di perdere
un bambino diventa, per il genitore, un dolore del corpo, un insulto immotivato alla genitorialità,
una dichiarazione di incompetenza. Per il paziente quasi adulto la prognosi limita l’orizzonte,
colpevolizza il tentativo di autonomia, ravviva la dipendenza, conflittuale, dagli adulti di
riferimento. Il paziente piccolo avverte la gravità attuale in rapporto al corpo che cambia, allo stile
di vita che si contrae, alle percezioni dolorose che sopporta. Per lui le sensazioni ed i sentimenti
sono ancora i canali comunicativi più efficaci: la sofferenza propria corrisponde a quella stampata
sul viso della mamma e del papà .
“Il fare”, diluisce la tensione e stempera le attese. Perché tutta la famiglia è sopraffatta dalla
dimensione dell’attesa, secondo due estremi: la paura e la speranza.
“Paura di perdere, speranza di acquisire. Rivolte come sono entrambe al futuro, dischiudendo quello
scenario dell’”indeterminato” che la ragione controlla e placa con il calcolo”. (Galimberti, 2006).
Viene attaccato proprio uno dei bisogni primari per l’uomo: il bisogno di sicurezza, la fiducia nella
possibilità di “controllare” gli eventi, di possedere un potere su ciò che accade intorno a sé e dentro
di sé (Carotenuto, 1997).
Diventa quindi fondamentale come l’equipe imposta la propria attività di cura e sostegno alla famiglia e
al paziente, inserendo all’interno del percorso terapeutico una progettualità di lunga durata.
Il piccolo può così essere pensato come persona dentro le proprie relazioni di accudimento che continua il
proprio percorso evolutivo, anche all’interno dell’ambiente ospedaliero.
Il gioco, la scuola, la psicologia esprimono occasioni comunicative normali che segnano il passo verso la
crescita del minore e offrono alla famiglia spazi di riflessione e spunti di contatto col mondo esterno.
 La malattia cronica e mortale in età pediatrica: vissuti psicologici estremi
Il paziente, ancor prima della comunicazione della diagnosi, sembra subire, fin dal primo ricovero, una
regressione nella rappresentazione di sé, dandoci l’immagine di un corpo appiattito dei suoi caratteri
somatici. Aumentano le immagini, che ci fornisce della famiglia, in cui torna a collocarsi di preferenza2
all’interno delle costellazioni familiari, a testimoniare lo spostamento verso la posizione della dipendenza
dagli adulti significativi. Questi segnali compaiono indipendentemente dal fatto che sappia o meno dei
caratteri di cronicità e mortalità della malattia.
L’équipe medico-psicologica è continuamente chiamata a ridefinirsi, in termini dialettici e operativi, a
partire dalla comunicazione della diagnosi che richiede più di una modalità per comunicare la malattia al
paziente; si fornisce il tempo e l’appoggio alla famiglia per trovare insieme il modo che il paziente
predilige per venire a conoscenza delle cose spiacevoli, tenendo in considerazione la sua età, il contesto
socio-culturale, la diagnosi e la prognosi. Di solito è la mamma che racconta la diagnosi, nella maniera in
cui è solita fare per tutte le altre cose della vita. Quando però la famiglia non riesce a dare un senso, un
significato alla patologia, solitamente è un medico dell’equipe che dà informazioni sulla malattia, sulla
terapia, sui tempi e i rischi. Facendo quindi fede non tanto al principio che: “il bambino deve sapere”,
quanto alla considerazione che è meglio dire “ciò che il bambino riesce a capire”, con uno stile che gli è
familiare. Nonostante tutta l'attenzione i bambini si trovano comunque a vivere atmosfere incerte o
paradossali dove ciò che viene detto non trova corrispondenza con ciò che viene sperimentato sul corpo e
sentito nell'intimo.
 La famiglia in ospedale. Una risorsa.
Durante il ricovero di un bambino in ospedale il gruppo familiare è strettamente coinvolto nel
mantenimento della integrità psico-fisica del paziente: il nucleo genitoriale diventa il corpo e la mente che
funzionano al posto del bambino malato, impossibilitato nelle attività consuete, isolato dal contesto
sociale. Tale modalità di funzionamento degli adulti di riferimento, per cui “si fa tutto al posto del
paziente”, se da una parte assicura la continuità delle esperienze vitali del bambino, dall'altra lo espone
allo sguardo altrui, tanto che egli tende a rappresentarsi, nei disegni, con un corpo trasparente, in balia di
eventi incontrollabili. Nell'esperienza ospedaliera pediatrica risulta attuale l’intuizione di Winnicott
secondo la quale alla nostra attenzione non appare mai solo un bambino ma un bambino e la sua mamma,
intesa come ambiente familiare. Quando nella famiglia non siano presenti particolari difficoltà relazionali,
essa si accosta all’équipe fornendo una sorta di protezione al bambino il quale col passare del tempo sarà
sostenuto a stabilirvi anche rapporti diretti e più autonomi, senza cioè la costante mediazione familiare.
Quando invece la famiglia accusa forti problematiche relazionali, può capitare che sia proprio il bambino
il primo interlocutore il quale ci rende possibile collaborare con il resto del nucleo familiare. All'interno
del nucleo genitoriale, solitamente la madre abbandona il lavoro, il padre utilizza permessi, aspettative,
malattia, ferie, mentre i nonni si occupano dei fratelli sani. Rispetto a questo ultimo aspetto per alcuni
anni la famiglia in ospedale si riforma come triade, dove il paziente funziona da figlio unico. L'istituzione
pediatrica tende a muoversi così come fa la famiglia: quando funziona da "buona famiglia" condivide col
nucleo genitoriale la gestione del bambino lasciandola il più possibile autonoma nel preservare la
continuità della cura e dell'igiene personale, nel prelevamento dei parametri come la febbre.
 La continuità del ciclo evolutivo
Al paziente pediatrico, quasi sempre minore, della sua malattia giungono informazioni selezionate,
concordate con le figure di riferimento, perché la comunicazione non sia né carente né eccessiva,
rispettando le tappe del ciclo evolutivo, lasciando sempre un ampio margine di speranza. Gli operatori
tendono ad assumere, di solito, un ruolo educativo nei confronti di quei familiari che, per tutelare il
minore dalla verità, rifiuterebbero ogni forma di comunicazione sulla malattia. In questi casi il non detto
rischierebbe di diventare disarmante e fonte continua di angoscia.
I pazienti adeguatamente preparati ad affrontare la malattia e il ricovero, mobilitano grandi risorse
emozionali e procedono nella crescita cognitivo-comportamentale, in maniera adeguata. Per un periodo
piuttosto prolungato l’attività mentale prevale su quella motoria così che essi spesso sviluppano eccellenti
competenze riflessive.
I contatti mantenuti con l’ambiente di provenienza, anche grazie all’uso delle nuove tecnologie,
permettono di mantenere una discreta disposizione sociale. Il gioco in ospedale consente un continuo
contatto con le fonti più intime di creatività e inventiva. Il sostegno psicologico trova nella relazione3
strumento privilegiato di incoraggiamento. Con la guarigione, per i pazienti che vivono la condizione di
“fuori terapia”, la percezione di sé e del proprio corpo esprime l’interruzione della storia personale:
mancano alcuni pezzi. Il corpo familiare si disloca a catena intorno al paziente per formare un corpo
unico, sostenendolo nella ripresa delle attività quotidiane precedenti la malattia. La differenziazione degli
individui dentro la famiglia diventa un compito impegnativo e ha nella comunicazione il nodo centrale
per la ricomposizione della salute complessiva del nucleo familiare.
 L’avventura della guarigione
Indipendentemente dall’età d’insorgenza della malattia, quando terminano i cicli terapeutici, torna a
funzionare in uno stato di riconquistata indipendenza. Essere “fuori terapia” esprime una serie
complicata di cambiamenti, sentimenti, aspettative, dominata comunque dalla voglia di essere
normali. Finalmente si può tornare a scuola e si possono frequentare gli amici. Finiscono l’incubo
della mascherina portata ovunque, anche dentro casa, l’isolamento dai fratelli, i controlli medici e i
prelievi frequenti. Dell’ospedale si vogliono mantenere i ricordi più creativi, quelli legati alla
concretezza del gioco, delle lezioni, dei compagni di avventura.
 La ricostruzione del senso di sé. I meccanismi di difesa
Nell’intermezzo della malattia, adulti e piccoli della famiglia dispiegano difese, più o meno
consapevoli, per far fronte all’angoscia di separazione e di morte attivata da tale esperienza (Anna
Freud,1967).
Le difese psichiche, quando adeguate, permettono una sorta di adattamento alla realtà: la continuità
del pensiero, della vita interiore, delle relazioni sociali. I più piccoli in età prescolare nascondono
dietro l’irritabilità e l’aggressione l’angoscia di perdere le figure parentali di accudimento, dovendo
far fronte, da soli, ad alcune esperienze quali le manovre tecnico-strumentali, le manovre dolorose. I
pre-adolescenti e gli adolescenti adottano modalità difensive più adulte, quali la razionalizzazione
ma non sono rari comportamenti di ritiro e rifiuto dell’ambiente esterno.
Con il miglioramento delle condizioni cliniche i soggetti, dapprima congelati, riprendono a
“funzionare”, migliora la loro partecipazione al progetto di cura, quanto più la cura prevede
occasioni di confronto e contatto con l’operatore. La guarigione decreta la possibilità di usare meno
strutture di difesa; col tempo bambini e adolescenti si concedono occasioni di apertura alle relazioni
sociali che confermano il passaggio alla normalità.
 I fratelli
Lungo il percorso della malattia i fratelli e le sorelle del paziente oncologico emergono solo
gradualmente dallo sfondo familiare, comparendo nel racconto dei genitori quando iniziano a
manifestare una serie di vissuti inaspettati. Durante le prime fasi dell'iter diagnostico e terapeutico
al malato oncologico di età pediatrica, infatti, il fratello quasi scompare dalle cure parentali,
concentrate invece a proteggere il paziente nel momento del ricovero, nei suoi moti di paura e di
sconforto. il fratello tende a razionalizzare la differenza di trattamento in cui il malato risulta
preferito, sia per la reale preoccupazione che nutre nei suoi confronti, sia perché questo corrisponde
ad una necessità dei genitori.
La consapevolezza che la malattia possa essere determinata da fattori genetici o ambientali scatena
poi la forte paura di poter essere colpiti dallo stesso male. Non meno evidente può esserci la
vergogna nel dover comunicare fuori dalla famiglia l'esperienza di malattia. Comunque forti sono il
dolore e il
senso di perdita nei confronti dell'opportunità di avere un fratello senza problemi (3). Quando a tali
temi affianchiamo il timore rispetto all'eventualità che la malattia non solo possa durare molto ma
che sia anche mortale, tutte le fantasie che un fratello può aver nutrito acquistano un senso di4
estrema e drammatica concretezza. Tutto diventa "vero, anche la colpa, la cattiveria, l'aggressività
solo fantasticate. I fratelli sviluppano modalità difensive, di sopravvivenza psicologica
all'emergenza di tali e tanti timori e giungono alla nostra osservazione solitamente quando il fratello
malato sospende la terapia, perché clinicamente guarito.
In questa fase la famiglia sembra più portata a pensarsi in termini progettuali tanto da rendersi
disponibile a raccogliere richieste di aiuto che non abbiano a che fare col tema della sopravvivenza.
ed il fratello sano inizia a dare spazio ai propri vissuti perché maggiore è la possibilità di trovare
accoglimento. Le sue difficoltà sono per lo più comportamentali (irritabilità a scuola, aggressività
verso i genitori) o di tipo psicosomatico (enuresi, insonnia, dermatosi). Il fratello/sorella pare
scegliere, inconsapevolmente, proprio una comunicazione che passa per il corpo, con tutto un corteo
di sintomi psicosomatici, forse ritenendo che, solo da malato, potrebbe interessare la mamma o il
papà.
Invitati a disegnare una famiglia, i soggetti sani collocano il fratello malato in una posizione
privilegiata, tra il papà e la mamma, mentre il più delle volte tendono ad eliminare se stessi. Quando
si chiede loro di spiegare la rappresentazione grafica dicono che il fratellino è in mezzo perché
sempre malato e quindi bisognoso di attenzione; manca la propria figura, confinata in un'altra
stanza, che non compare.
Non senza una punta di avidità di amore familiare il bambino appena ospedalizzato tende a
cancellare, durante i suoi primi ricoveri, i veri fratelli o sorelle dal disegno che dà della famiglia,
mettendosi al centro della rappresentazione, come "appeso" tra mamma e papà.
La tendenza comune al gruppo dei fratelli collude inoltre con l'isolamento nel quale la famiglia
confina il figlio sano come se "escluso", per il timore della contaminazione, corrispondesse a
"salvo".
Diverso è il percorso emozionale del fratello che è anche donatore di midollo osseo. In questo caso
il suo coinvolgimento nella storia familiare è più importante, svolgendo un ruolo ben preciso che lo
vede protagonista insieme al fratello malato. Vivendo infatti in minor misura in uno stato di
isolamento, grazie ad un evento concreto quale è la donazione, il fratello riesce a risolvere
positivamente una serie di tensioni emotive legate alla fratria - rabbia, competizione, invidia -,
complicate dall'evento malattia, potendo contemporaneamente usufruire di sentimenti genitoriali
come la gratitudine e la riconoscenza. Inoltre l'immaginario terrifico intorno alla malattia si
ridimensiona proprio perché la si vede da vicino e se ne determina, in parte, l'andamento.
 La possibilità di diluire l’angoscia, attraverso spazi di condivisione.
La comunicazione tra genitori, tra genitori e operatori, risente di forti ondate emozionali che ruotano
intorno al tema della morte. I vissuti di disperazione e di impotenza rischiano di saturare le capacità
creative e progettuali degli adulti, complicando il difficile compito dell'accudimento e della cura del
bambino oncologico. La proposta di offrire uno spazio gruppale ai genitori è stata vissuta con l'aspettativa
di assicurare un momento di ascolto dei sentimenti delle figure parentali per diventare poi occasione di
riflessione per l'équipe. Tale esperienza riguarda la conduzione di gruppi aperti coi genitori dei pazienti
ricoverati presso la clinica, nata con lo scopo di fornire loro contenimento e sostegno. La discontinuità
delle presenze dei partecipanti ha creato difficoltà nello stabilirsi di una storia comune del gruppo, mentre
l'angoscia genitoriale ha prodotto reazioni di rabbia, moti di invidia e il timore che le parole potessero
contaminare ogni cosa.
La paura della "contaminazione da dolore" è forse la forza anti-gruppale più evidente in queste condizioni
che impedisce a molti genitori di partecipare al gruppo terapeutico: la condivisione di esperienze così
estreme e coinvolgenti può scatenare infatti la preoccupazione che, parlandone, la sofferenza possa
amplificarsi. Tale convinzione poggia su meccanismi difensivi di scissione ed isolamento di vissuti
d'angoscia concernenti la possibilità di separazione, i quali vengono come incistati nella storia psichica e
relazionale della famiglia fino alla completa negazione.5
Il gruppo terapeutico tende a sviluppare processi di pensiero intorno agli eventi, interni ed esterni, anche
se avvertiti come distruttivi, al fine di renderli comunicabili, comprensibili e creativamente utilizzabili.
La partecipazione al gruppo quando prevalentemente materna esprime la possibilità di poter pensare sui
sentimenti e sugli eventi, la tendenza cioè a funzionare secondo il codice materno; la figura paterna,
quando presente, tende invece a "tenere sotto silenzio" il proprio dolore per assicurare un buon
contenimento alla madre che, a sua volta, più intimamente accoglie il figlio. I padri sono quelli, inoltre,
che riescono tuttavia a rivolgere uno sguardo verso il mondo sociale esprimendo sentimenti come la
vergogna, il confronto, la competizione. La tendenza al "segreto" si palesa comunque all'interno della
coppia rispetto al tema di "cosa dire" della malattia al paziente ( la comunicazione della diagnosi
).Durante il percorso terapeutico è estremamente difficile, per i genitori, articolare sentimenti di speranza.
Il tempo è coartato intorno al presente, il futuro appare pericoloso o incerto. Il passaggio alla
“sospensione della terapia” viene temuto come sospensione-separazione dal contesto di cura che eroga
meno controlli e terapie. L’angoscia dilaga e invade ogni attività mentale degli adulti i quali esprimono
maggiore bisogno di sostegno psicologico.
La guarigione propriamente detta, anche psicologica si verifica nel corso di numerosi anni: mentre i
pazienti fronteggiano il futuro con notevoli chances vitali, madri e padri sono mentalmente imbrigliati
nella risoluzione di vissuti che hanno a che vedere, anche durante la risoluzione di malattia, col lutto.
 Eventi drammatici
La morte di un bambino o di un adolescente, colpisce la famiglia e la rete sociale a cui
appartengono, come una ferita insostenibile dal punto di vista mentale. Quando questo succede il
tempo e lo spazio si dileguano, la famiglia permane in una sorta di ottundimento cognitivo ed
affettivo. Si perdono le motivazioni di rimanere nel mondo o le si limita alla presenza dei fratelli e
delle sorelle del paziente scomparso.
La memoria diventa allora l’unica strada percorribile per mantenere in vita ciò resta della persona
amata, ogni azione, ogni pensiero, hanno l’obiettivo di mantenere un legame, oltre la morte.
Gli operatori che hanno accompagnato il paziente nelle ultime fasi della propria vita, vengono
percepiti dalla famiglia come custodi preziosi, testimoni di una tappa importante, coi quali si
continua a condividere, anche successivamente, pensieri e riflessioni.
Conclusioni . La complessità dell'esperienza di malattia del paziente pediatrico con tumore rende
ragione dell'attenzione crescente richiesta agli operatori (medici infermieri, psicologi, insegnanti,
volontari) nel considerarne lo stato di salute psico-fisico, comprensivo cioè oltre che degli aspetti fisici
anche di quelli psicologici e relazionali. Il paziente pediatrico, infatti, per lo stato di dipendenza a cui è
sottoposto e per la dinamicità del proprio percorso evolutivo, non può che essere costantemente visto
all'interno di una rete di rapporti (familiari, tra pari), con tutto il patrimonio di potenzialità, emozionali
e cognitive, tipiche degli individui in fase di crescita. La condizione della malattia, caratterizzata in
questo caso, tra l'altro, dallo stato di cronicità e di possibile mortalità, complica tali delicati momenti
evolutivi di vissuti centrati sull'angoscia di separazione e di morte, che richiedono maggiore
disponibilità degli adulti alla conoscenza e comprensione. Tutti gli operatori, a qualsiasi livello
svolgano la propria attività, all'interno di un lavoro di équipe, tendono a coordinare i compiti e le
aspettative propri con quelli dei colleghi e collaboratori più prossimi, mirando all'individuazione di
progetti medici, psicologici, didattici, ludici, centrati sulla persona.
Ogni bambino viene cioè riconosciuto nella sua unicità e per lui vengono pensati e successivamente
attuati progetti di cura individualizzati che lo possano sostenere nella crescita, fino ed oltre la
guarigione clinica.
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01/02/2013 19:19

Ripercussioni psicologiche dei test genetici nel paziente oncologico e nei familiari
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La malattia oncologica concerne numerosi tipi di tumore maligno alcuni dei quali sono trasmissibili geneticamente. In molti casi il medico, per comprendere il rischio ereditario, si basa su esami clinici o sulla storia della malattia nella famiglia, mentre, in casi specifici, si suggerisce al familiare del paziente oncologico la possibilità di effettuare i test genetici.

Mediante l’analisi genetica si studia il DNA per comprendere se nel familiare dell’ammalato, in questo caso di tumore maligno, sia presente la mutazione di quel specifico gene che può comportare lo sviluppo della patologia oncologica e, inoltre, si valuta la percentuale di rischio di contrarre quella data malattia.

Questo tipo di test dà modo alla persona di potersi cautelare con controlli periodici o trattamenti medico-chirurgici preventivi, nel caso si scopra la presenza della mutazione genetica, in base al tipo di malattia e alla percentuale di rischio riscontrata.

Come si può ben comprendere, le ripercussioni psicologiche di tutta la famiglia possono risultare rilevanti e tradursi in modo differente in base ai risultati clinici emersi. Diversa è ovviamente la reazione di chi scopre di non avere alcuna mutazione rispetto a chi viene trovata una ereditarietà. Di seguito sono riportate alcune risposte comportamentali fra quelle più comuni.

1) Alleviamento: Nel caso i test genetici non diano alcuna risposta di mutazione, il risvolto emotivo sarà generalmente di grande sollievo e di profonda contentezza.

2) Peso psicologico: La persona affetta dal tumore maligno, motivo per cui è stata fatta l’analisi genetica, può provare sentimenti di colpa, come se fosse l’artefice della possibile futura malattia dei propri cari. Sono possibili anche sentimenti di dolore, per il profondo dispiacere, e di rabbia verso se stessi e/o gli altri.

I familiari, che scoprono di avere una concreta possibilità di ammalarsi, si trovano a confrontarsi con una realtà spiacevole e penosa che, attraverso esami medici, dovranno tenere sotto controllo.

In alcuni casi, essi possono dover effettuare scelte drastiche e difficili, come un intervento chirurgico preventivo, un esempio è il consiglio dell’asportazione preventiva dei seni, per specifici casi di mutazione del gene responsabile del cancro della mammella.

Di fatto, nei casi di maggior rischio, il familiare ha tempo per potersi organizzare, per effettuare scelte di vita che altrimenti avrebbe posticipato, come una gravidanza, ma il tempo a disposizione non ha un timer pre-impostato. Nessuno sa quando la malattia si svilupperà e anche quando la probabilità di contrarla è elevato è comunque difficile valutare le proprie scelte.

Le ripercussioni psicologiche potranno riguardare perciò l’incertezza elevata e quindi l’angoscia per il non sapere quale sarà la scelta giusta o quando si svilupperà la patologia. Ma anche la paura del tumore maligno, il timore di soffrire, di non riuscire a sconfiggere la malattia che potrebbe insinuarsi.

Il familiare può provare anche dolore, per il dispiacere di poter contrarre la malattia, e rabbia verso una situazione che sembra paradossale perché in questo momento si è sani.

A parte è la situazione del genitore che non ha presente la mutazione genetica. In questi casi è possibile che l’amore verso il proprio figlio, soprattutto se giovane, e il dolore per la malattia che quest’ultimo ha contratto possa innescare nel padre e/o nella madre il senso di colpa e la rabbia per essere sani e vedere il proprio figlio malato.

3) Rifiuto/negazione: In alcuni casi, può esserci il rifiuto psicologico di quanto sta avvenendo, il familiare non effettua neanche i test genetici oppure si nega la realtà, che al momento è troppo dolorosa per essere accettata, e si accantona il risultato per pensarci successivamente.

4) Convivenza: La notizia di possedere la mutazione del gene, per una malattia oncologica, può anche non essere affatto deleteria o sconvolgente per un familiare o paziente. A causa della diffusione già da tempo della patologia nella famiglia, egli può aver metabolizzato psicologicamente la possibilità di ammalarsi dei propri cari o di se stesso e vedere nel referto genetico una conferma ai propri dubbi.

Le ripercussioni psicologiche saranno diverse in base:

Al referto: presenza o meno della mutazione.
Alla percentuale di rischio trovata e al tipo di malattia oncologica: a causa dei diversi tipi di prevenzione che possono andare dal semplice controllo periodico ad un intervento chirurgico.
All’esperienza del familiare con la patologia dell’ammalato: il vissuto clinico ed emotivo del paziente influirà molto su come i familiari si confronteranno con questa nuova realtà. In molti casi, il paziente oncologico effettua i trattamenti medici e poi si sottopone solo ai controlli periodici, il ritorno psicologico dei familiari sarà così di una malattia importante ma con la quale ci si può confrontare e uscirne. Diversamente è per la situazione in cui la persona ammalata ha avuto un esito difficile e negativo per cause diverse che possono essere state, per esempio, il trovare la malattia in uno stadio ormai troppo avanzato. Anche se razionalmente i familiari sanno che vi è una profonda differenza fra l’esperienza clinica del proprio caro e la loro situazione, è molto probabile che la possibilità di sviluppare quella malattia sarà per loro ulteriormente spaventante.
Alla storia clinica e personale del familiare sano con mutazione: presenza di altre patologie, vissuti importanti o difficili nella vita affettiva-sociale e/o lavorativa possono aiutare a meglio affrontare tale situazione o al contrario a renderla maggiormente difficile e penosa.
Alla personalità e l’età del familiare: sua modalità di affrontare le difficoltà e di ben utilizzare le proprie risorse.


Concludendo, i test genetici sono uno strumento in più nella prevenzione dei tumori ereditari, nei casi in cui l’oncologo li ritenga necessari.
Come per tutte le situazioni inerenti la possibilità di ammalarsi, effettuare una analisi genetica comporta ripercussioni psicologiche importanti e diverse in base al risultato effettivo e atteso, al tipo di esperienze con la malattia oncologica e alla personalità di chi si sottopone a tale indagine.
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01/02/2013 19:19

La perdita di un nipote
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Brigitte Trümpy ha perso il nipote Till morto di cancro e durante la malattia avrebbe voluto avere più contatti con nonni in una situazione simile. Per questo motivo ha fondato un punto di contatto per persone colpite dallo stesso destino.

di Irena Ristic / Fritz Fränzi
Till ha combattuto per quattro anni contro un tumore al cervello. Per la famiglia questo ha significato una continua altalena fra speranza e dolore. Till è morto nel settembre del 2010, aveva compiuto dieci anni. Per la nonna Brigitte Trümpy da quel momento niente è più come prima. «Siamo i feriti che sono sopravvissuti. Manca moltissimo a tutti noi.»

Tuttavia non hanno voluto abbandonarsi al dolore, bensì trasmettere le sue esperienze ad altri nonni che condividono la stessa sorte e ha fondato la piattaforma online «Sternenkinder-Grosseltern» per i «nonni dei bambini in cielo». Perché «Ci sono molte offerte per il lutto dei genitori, mentre per noi non esiste quasi nulla.»

«Una nonna che mi capisce»
Brigitte Trümpy ha maturato per lungo tempo l'idea di un punto di contatto per i nonni. Durante la malattia di Till ha conosciuto altre due nonne nel reparto di oncologia dell'ospedale pediatrico di Zurigo. «Con loro mi sono decisa a condividere le mie paure e anche la mia rabbia per il nostro destino.» Vedere che non era sola con i suoi sentimenti le ha fatto bene. Tuttavia il contatto con le altre nonne è rimasto superficiale, dal momento che tutte erano impegnate con sé e con la loro famiglia.

E anche se i colloqui con gli psicologi del reparto di oncologia pediatrica sono stati d'aiuto nei momenti difficili, ripensandoci Brigitte Trümpy avrebbe voluto avere più contatti con gli altri nonni colpiti dallo stesso destino. «Dopo una giornata difficile, ad esempio dopo una chemio, sarei stata molto felice se ci fosse stata un'altra nonna ad aspettarmi davanti all'ospedale pediatrico.» Una nonna che sappia come ci si sente in una situazione del genere e senza dover dire niente offra una tazza di caffè o anche solo un semplice abbraccio.

Una rete per i nonni
Molti nonni e nonne che si mettono in contatto con Brigitte Trümpy, provano gli stessi sentimenti. Sono loro le persone alle quali la sessantunenne vuole essere di aiuto. Non ci sono temi tabù: «Io non giudico, ascolto e basta.» Oppure si offre come accompagnatrice, come ad esempio della «nonna di un bambino in cielo» del Canton Argovia. Sono andate insieme a fare visita alla tomba del nipote defunto. E anche con una nonna della Baviera colpita dalla stessa sorte si è creato nel frattempo uno scambio molto bello.

Ora Brigitte Trümpy spera che il numero di persone che si rivolgono a lei aumenti. Il suo obiettivo è «creare un'ampia rete di ‹nonni dei bambini in cielo› per sostenersi e darsi ascolto a vicenda.» e per raggiungerlo avvia contatti con enti specializzati e ospedali pediatrici, racconta del suo impegno e riscontra interesse.

Medici, assistenti sociali e psicologi degli ospedali pediatrici di Basilea, Aarau e Zurigo consigliano nel frattempo il punto di contatto per i nonni, come anche le associazioni Kinder-Krebs-Hilfe della Svizzera e dell'Austria per la lotta contro il cancro infantile. Per l'impegnata nonna del Canton Glarona questo è «un passo importante nella direzione giusta perché i nonni possano elaborare il dolore della perdita».

Essere forti per i figli e addolorati per i nipoti
Le nonne e i nonni che devono accompagnare un nipote nel cammino verso la morte si trovano in una situazione particolare: «il loro lutto è doppio» afferma la nonna di Till. «Da una parte provavo paura e dolore per Till e dall'altra parte volevo stare vicino a sua madre, mia figlia.» Le ha provocato un fortissimo dispiacere che la figlia e la famiglia dovessero sopportare tutto questo.

Brigitte Trümpy e suo marito hanno fornito il loro aiuto in tutti i modi possibili. Hanno imparato a infilare le sonde o il dosaggio giusto dei farmaci e si sono alternati accanto a Till in ospedale. La sessantunenne doveva essere forte per sua figlia, ma chi le dava sostegno? «Non potevo avvicinarmi al letto di Till e piangere. Non sarebbe stato certo un aiuto per mia figlia.» E anche se il suo compagno oggi come allora rappresentava «un enorme appoggio», rimaneva spesso sola con le sue domande e paure. Per la nonna è ancora oggi difficile da accettare che il nipote se ne dovuto andare prima di lei. «È così ingiusto, così innaturale.»

Nessuna paura della morte
Nonostante il lutto Brigitte Trümpy si guarda indietro con pensieri positivi: «Tutti noi, i genitori di Till, la sorella e noi nonni, abbiamo portato degli sprazzi di luce nella camera di ospedale. Abbiamo riso, parlato e non abbiamo permesso al cancro di sconvolgere la nostra famiglia.»

Hanno imparato molto dal nipote e scoperto così la propria spiritualità: «Till ha preso ogni giornata così come veniva. Spesso è stato lui a darci conforto» afferma Brigitte Trümpy. Il bambino le ha anche raccontato dei suoi dialoghi con Dio, facendole capire che non deve avere paura della morte. «Lo sai, nonna, ogni volta che guardo al cielo sento un grande caldo dentro.» le ha detto una volta. Una frase che Brigitte Trümpy porta sempre nel cuore.

Parlando con genitori e nonni che condividono la stessa sorte, la famiglia di Till scopre altre storie simili. Storie di bambini che sapevano di dover morire presto. «È come se con una porticina fossero in contatto con un altro mondo, che per noi adulti da tanto tempo non è accessibile» afferma Brigitte Trümpy, ed è consapevole che «mio nipote si sentiva sostenuto, e non solo da noi.»

L’addio è un momento sereno e, nonostante il grande dolore, anche pieno di speranze. «Tutti a turno abbiamo tenuto la mano di Till, fino a quando voleva solo quella della mamma.» Poco prima di chiudere gli occhi per sempre, Till ha lasciato dolcemente la mano della madre, ricorda la nonna. Da ciò Brigitte Trümpy ha tratto un grande conforto: «Un bambino che lascia la mano della mamma non ha paura.»
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01/02/2013 19:21

UNA MALATTIA RARA
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Amaurosi congenita di Leber
L’amaurosi congenita di Leber (ACL) è una malattia genetica rara, ad esordio precoce, responsabile del 10-18% dei casi di cecità congenita. E’ importante indirizzare i bambini con sospetta ACL a centri specialistici per una diagnosi certa e per interventi terapeutici/ riabilitativi mirati.

CHE COS’E’
L’amaurosi congenita di Leber (ACL) è la più precoce e più severa forma di distrofia retinica ereditaria (Perrault, 1999). Le distrofie retiniche ereditarie sono un gruppo eterogeneo di malattie rare a carattere degenerativo dell’epitelio pigmentato e dei fotorecettori della retina, a trasmissione ereditaria. Possono presentarsi come anomalie isolate o possono associarsi ad altre anomalie sistemiche in particolare del sistema nervoso centrale, dell’apparato renale ed epatico e più raramente dell’apparato cardiovascolare e scheletrico.
L’ACL è responsabile del 10-18% dei casi di cecità congenita (Alstrom, 1957; Casteels, 1996), la sua incidenza è di circa 2-3 per 100.000 bambini nati (Heckenlively, 1988; Schuil, 1998) e si ritiene sia responsabile di circa il 5% di tutte le retinopatie ereditarie. Descritta per la prima volta nel 1869 da Theodor von Leber, un oftalmologo tedesco, è trasmessa, nella maggior parte dei casi, con modalità di trasmissione autosomica recessiva (Alstrom, 1957; Harris, 2001).

COME SI MANIFESTA
L’ACL si manifesta con la presenza di cecità o grave ipovisione già evidente alla nascita o ad esordio nei primi 6 mesi di vita, movimenti oculari anomali (caotici ed erratici e/o nistagmo) e pupille non reattive o scarsamente reattive
alla luce. Caratteristica è la presenza dei cosiddetti ‘segni oculo-digitali’ di Franceschetti rappresentati da sfregamento (‘eye-rubbing’), pressione con il dorso della mano (‘eyepressing’) o con le dita (‘eye-poking’) dei bulbi oculari. Tali aspetti clinici costituiscono i criteri clinici principali per la diagnosi di ACL (De Laey, 1991). L’entità del deficit visivo nella maggior parte dei casi tende a rimanere stabile nel tempo, ma sono descritti casi in cui si sono osservati lievi cambiamenti in senso peggiorativo o migliorativo.
L’aspetto del fondo oculare è variabile: può essere normale, soprattutto nelle prime fasi della malattia, o caratterizzato da anomalie della pigmentazione retinica, dell’apparato vascolare retinico e/o della papilla ottica o della macula.
Altre anomalie oculari possono essere presenti tra cui cataratta, cheratocono, cheratoglobo e più frequentemente enoftalmo. Frequente è inoltre la presenza di vizi refrattivi in particolare di tipo ipermetropico. Alcuni bambini sono fotofobici.
La malattia si può presentare con esclusivo coinvolgimento oculare o a quest’ultimo si possono associare problematiche sistemiche.
L’ACL è infatti una malattia eterogenea sia da un punto di vista clinico che genetico e probabilmente non rappresenta una singola entità di malattia (Fazzi, 2003; Fazzi, 2005). In associazione ai segni e sintomi oculari sopra riportati, i soggetti con ACL possono infatti presentare anche altre anomalie sia neurologiche (ipotonia muscolare aspecifica in ggassenza di evidenti deficit di forza muscolare o di anomalie dei riflessi osteotendinei, ritardo di sviluppo e/o mentale, atassia ed altri segni cerebellari), sia neuroradiologiche (in particolare, malformazioni della fossa cranica posteriore) che sistemiche (in particolare, renali, epatiche e scheletriche).
Il quadro oculare della ACL può inoltre far parte di patologie metabolico-degenerative del sistema nervoso centrale, quali malattie perossisomiali, ceroidolipofuscinosi neuronale, A-betalipoproteinemia, malattie mitocondriali (Fazzi, 2003) o di raggruppamenti sindromici, quali ad esempio la sindrome di Joubert ed i disordini ad essa correlati, la sindrome di Bardet-Biedel e la sindrome di Usher.

CHE COSA DETERMINA LA MALATTIA
L’ACL è una patologia geneticamente determinata, sebbene non sia ancora possibile identificare l’alterazione genetica causa di malattia in un’ampia percentuale di soggetti.
La malattia è causata dall’alterazione di uno dei geni coinvolti nello sviluppo, nel funzionamento o nel mantenimento della retina ed è estremamente eterogenea anche da un punto di vista genetico.
Nella maggior parte dei casi la malattia viene ereditata con modalità autosomica recessiva. Le malattie autosomiche recessive sono malattie genetiche dovute ad un gene difettoso presente su un autosoma, cioè su un cromosoma non-sessuale (cromosoma solitamente presente in duplice copia negli individui di entrambi i sessi).
Questo tipo di malattie può esprimersi fenotipicamente solo quando il genotipo è omozigote (presenza di alleli identici) per il gene che controlla quel carattere. In altre parole, la malattia si manifesta quando l’individuo possiede entrambi i geni alterati. Chi invece ha una copia del gene alterata ed una normale è un portatore sano, e in genere non presenta alcun sintomo di malattia. La condizione di portatore sano in due genitori comporta per i figli una probabilità del 25% di ereditare i geni mutati sia dal padre che dalla madre e di manifestare quindi la malattia. Un fattore di rischio per le malattie autosomiche recessive è costituito dalla consanguineità.
Raramente, alcuni mutazioni in geni specifici (CRX) causano ACL con ereditarietà autosomica dominante.
Fino ad oggi sono stati mappati i seguenti geni: - retGC1 o GUCY2D sul cromosoma 17 (17p13) (Camuzat, 1995; Perrault, 1996)-LCA 1; - RPE65 sul cromosoma 1 (1p31) (Gu 1997; Marlhens, 1997)-LCA 2; - CRX sul cromosoma 19 (19q13.3) (Freund, 1998)-LCA 7; - AIPL1 sul cromosoma 17 (17p13.1) (Sohocki, 2000)-LCA 4; - RPGRIP1 sul cromosoma 14 (14q11) (Dryja, 2001; den Hollander, 2001)-LCA 6; - CRB1 sul cromosoma 1 (1q31-32.1) (Lotery, 2001)-LCA 8; - TULP1 sul cromosoma 6 (6p21.3) (Lewis, 1999); - RDH12 sul cromosoma 14 (14q24) (Thompson, 2005)-LCA 3; IMPDH1 sul cromosoma 7 (Bowne, 2006); - CEP290/NPHP6 sul cromosoma 12 (12q21-q22) (den Hollander, 2006)-LCA 10; - IMPDH1 sul cromosoma 7 (7q31.3-q32 ) (Bowne, 2006)-LCA 11; RD3 sul cromosoma 1 (1q32.2) (Friedman, 2006)-LCA 12; LRAT sul cromosoma 4 (4q31) (Senechal, 2006)-LCA14; LCA 5 sul cromosoma 6 (6q14.1) (den Hollander, 2007)-LCA5; SPATA7 sul cromosoma 14 (14q31.3) (Li, 2009)-LCA 3. Altri loci genici sono al momento allo studio.

COME VIENE DIAGNOSTICATA
La diagnosi può essere ipotizzata sulla base della presenza di segni e sintomi di deficit visivo (ipovisione, nistagmo, segni oculodigitali) ad esordio precoce (entro i primi 6 mesi di vita), dell’eventuale familiarità o consanguineità dei genitori (dato che, come sopra riportato, aumenta la probabilità di ricorrenza di malattie autosomiche recessive). Può essere confermata dal riscontro di alterazioni all’esame del fondo dell’occhio, ma indispensabile per la diagnosi è la presenza di un elettroretinogramma, esame che indaga la funzionalità retinica, estinto o marcatamente ipovoltato sia nella componente fotopica che in quella scotopica e di potenziali evocati visivi estinti o alterati.
Considerato il possibile coinvolgimento di altri organi ed apparati, è indispenssabile ricercare attentamente eventuali segni e sintomi indicativi di tale interessamento mediante l’esecuzione di indagini clinico-strumentali atte a studiare gli aspetti morfologici e funzionali di tali apparati. In particolare, in ambito neurologico, accanto all’esame clinico, utile è l’esecuzione di RMN encefalo con studio specifico del sistema visivo e della fossa posteriore (cervelletto), dell’elettroencefalogramma in veglia e sonno e dei potenziali evocati uditivi. In ambito internistico, importante è lo studio della funzionalità epatica e renale con monitoraggi periodici nel tempo di questi aspetti, data la possibile insorgenza tardiva di tali complicanze. Inoltre, dal momento che il quadro oculare della ACL può far parte di patologie metaboliche e/o degenerative del sistema nervoso (quali ad esempio malattie perossisomiali o mitocondriali) e di alcuni raggruppamenti sindromici, come sopra riportato, è necessario effettuare un’accurata diagnosi differenziale volta ad escludere tali patologie.
In merito alle indagini genetiche (da effettuarsi sia sul bambino che sui familiari), volte alla ricerca di alterazioni nei geni noti coinvolti nella patologia, un riscontro positivo confermerà la diagnosi, mentre un esito negativo non la esclude, non essendo al momento ancora state identificate tutte le cause molecolari responsabili di ACL .


PROSPETTIVE TERAPEUTICHE
Allo stato attuale non esiste una terapia risolutiva dell’ACL ma sono state prese in considerazione diverse linee di intervento tra le quali la più promettente sembra essere la terapia genica che consiste nell’iniezione nello spazio sottoretinico dell’occhio di una copia corretta del gene alterato che causa la malattia. Sperimentazioni cliniche sono state condotte in soggetti con mutazione nel gene RPE65 con riscontro di alcuni risultati positivi (Maguire, 2008; 2009; Simonelli, 2010). Nuove altre sperimentazioni, anche su altri geni, sono al momento in fase di studio.
Considerato però il ruolo cruciale svolto dalla vista nello sviluppo neuropsicomotorio globale del bambino, accanto a tali approcci terapeutici, è di prioritaria importanza mettere in atto, il più precocemente possibile, interventi ri-abilitativi mirati a promuovere e sostenere lo sviluppo dei bambini affetti da questa patologia nonché fornire supporto psicologico alle famiglie.
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01/02/2013 19:21

Malati di cancro e lavoro:
storie di mobbing e stipendi ridotti
Maria Assunta, Giovanni, Ilaria e tanti altri: guariti, ma devono fare i conti con i disagi psicologici ed economici

MILANO - Maria Assunta ha 46 anni, vive sola a Palermo ed è «forzatamente» in aspettativa non retribuita: sta lottando per tenersi il lavoro come infermiera professionale che un tumore al seno potrebbe farle perdere. Giovanni, invece, è già stato licenziato. Anche lui ha 46 anni, una moglie e due figli. Abita a Roma, dove faceva il cassiere in un supermercato finché non si è ammalato di un carcinoma ai polmoni. L’operazione ha richiesto più di tre mesi di degenza in ospedale e quando, con una sutura di 40 punti dietro la schiena, ritorna sul posto di lavoro, iniziano le prime incomprensioni con il datore di lavoro: «Appena ho raggiunto il 180esimo giorno di assenza per malattia, mi è stato intimato il licenziamento – spiega Giovanni -. Mal consigliato dal rappresentante sindacale, non l’ho impugnato e mi ritrovo senza posto di lavoro, con una grave malattia invalidante e notevoli problemi di depressione, oltre che economici». Non vanno meglio le cose in una piccola azienda di Mantova, dove Ilaria si occupava dell’amministrazione del personale «con tanto impegno ed energia – racconta -. Facevo gli straordinari, retribuiti e non. Tenevo tutto in ordine, ero apprezzata. Poi arriva la diagnosi di carcinoma mammario, preso in tempo, per fortuna». Ilaria subisce l’intervento di quadrantectomia e radioterapia intraoperatoria e presenta domanda per il riconoscimento dell’invalidità civile per ottenere i permessi previsti dall’apposita Legge 104/92. «Ma la Commissione medica della Asl – continua Ilaria – mi ha riconosciuto solo il 70 per cento d’invalidità: in pratica è stato ammesso l’handicap (articolo 1), ma non l’articolo 3, utile per i permessi retribuiti Inps. Così mi tocca prendere i giorni di ferie – di cui avrei davvero tanto bisogno per riposarmi e cercare di recuperare un po’ di serenità - per poter effettuare le visite di controllo, la mammografia e gli esami prescritti dall’oncologo». Non solo: la legge le consente di poter usufruire di 30 giorni di congedo straordinario per cure (riconosciuto, su loro richiesta, ai lavoratori mutilati ed invalidi civili con una determinata riduzione della capacità lavorativa e previa autorizzazione del medico provinciale), ma nonostante la normativa in materia l’azienda gliel’ha negato.

L’ESERCITO DEI SOPRAVVISSUTI AL CANCRO - Di storie come queste, purtroppo, ce ne sono molte. In Italia – secondo le statistiche più aggiornate - vivono oltre 1.700.000 persone che hanno avuto una diagnosi di cancro. Più di 250mila sono i nuovi casi di tumore ogni anno e, grazie ai progressi nelle terapie, oggi si contano circa 617mila lungosopravviventi, cioè quanti – trascorsi dieci anni dalla diagnosi – si possono considerare, nella maggioranza dei casi, finalmente guariti. Superato il concetto di cancro come sinonimo di morte, si aprono scenari nuovi che sollevano però nuovi bisogni umani, sociali ed economici. «Numeri alla mano, la metà delle persone malate guarisce e, nella maggior parte dei casi, senza conseguenze invalidanti – spiega l’avvocato Elisabetta Iannelli, vicepresidente dell’Associazione italiana malati di cancro (Aimac - help line) dal lunedì al venerdì, dalle 9 alle 19, numero verde 84050357) che da anni si occupa dei diritti di pazienti e familiari -. C’è poi un numero rilevante di persone che può convivere con la propria neoplasia più o meno a lungo. Se non vogliamo creare uno stuolo di invalidi e emarginati dalla società, dobbiamo darci da fare per offrire alle agli ex pazienti oncologici il recupero o il mantenimento della massima autonomia fisica e relazionale, garantendo loro la migliore qualità di vita possibile». Bisogna, insomma, sostenerli nell’affrontare le conseguenze psicologiche e il rapporto con il proprio corpo e con gli altri.

LAVORARE PER TORNARE A SENTIRSI AUTONOMI - I nuovi bisogni sono da un lato strettamente «medici» (legati alla sessualità o alla possibilità di procreare, ad esempio) o psico-fisici, ai quali si risponde – sempre più spesso in modo efficace – con vari interventi di riabilitazione oncologica (con trattamenti per il linfedema delle donne operate di tumore mammario, ad esempio, o con esercizi contro l’incontinenza dopo l’intervento chirurgico alla prostata). Ma qualità della vita vuol dire anche, soprattutto, sentirsi attivi e autonomi. E riprendere il lavoro aiuta, sia a livello sociale che economico. Lo sa bene Maria Assunta, a cui dopo l’intervento di mastectomia parziale sono stati prescritti sei cicli di chemioterapia: «Già nei primi giorni di convalescenza mi sono informata – racconta mentre è in aspettativa non retribuita e ha dovuto cercarsi un avvocato per non essere licenziata - e ho fatto espressa richiesta all’amministrazione di non computare, tra i giorni di assenza per malattia, quelli dovuti alla chemio, come è previsto dall’articolo 11 del contratto collettivo nazionale del comparto Sanità. Purtroppo, però, il capo dell’ufficio del personale non ha accolto la richiesta ritenendo, in modo del tutto erroneo, di poter escludere dal calcolo in questione solo i giorni di ricovero ospedaliero e i day hospital». Maria Assunta, così, rischia di superare i giorni di assenza per malattia previsti dal cosiddetto «periodo di comporto» (durante il quale il lavoratore-dipendente ha diritto alla conservazione del posto) e, per non perdere il posto, ha chiesto l’aspettativa.

IL MOBBING DI COLLEGHI E CAPI - «Attualmente - sottolinea Cristina Oliveti, avvocato specializzata nel servizio legale per i diritti dei malati oncologici, che risponde al numero verde gratuito della Lega italiana per la lotta contro i tumori (800 998877, da lunedì al venerdì, dalle 9 alle 17) - il paziente oncologico si trova a fronteggiare realtà complicate. Macchinosi iter burocratici, difficoltà di socializzazione e il timore di non essere più accettati o di avere performance lavorative inferiori non sono da meno rispetto ai sintomi della malattia o agli effetti collaterali delle terapie, nel compromettere la qualità di vita». Le assenze dal lavoro e il successivo rientro, spesso con l’impossibilità di svolgere mansioni faticose, aumentano il rischio di un possibile demansionamento o cambio di lavoro (con riduzione del livello retributivo), frequentemente accompagnato da un atteggiamento pregiudiziale e dannoso da parte dei colleghi e dello stesso datore di lavoro. Ma quante persone devono affrontare questi problemi? «Impossibile saperlo – spiega Oliveti -. Per ora non esistono statistiche in proposito e sono soprattutto le associazioni di volontariato ad avere il polso della situazione».

TUMORI, LA PRIMA «MALATTIA SOCIALE» PER L’INPS - Oggi, però, è il cancro la malattia sociale di maggior rilievo anche per l’Inps. I dati statistici presentati dall’Istituto nazionale per la previdenza sociale (grazie alla stretta collaborazione con Aimac e Favo-Federazione delle Associazioni di Volontariato in Oncologia) per il decennio 1998-2007 dicono che le patologie neoplastiche costituiscono il 32,4 per cento delle cause di invalidità e inabilità riconosciute, mentre le malformazioni congenite contribuiscono solo per il 9,3 per cento e i disturbi mentali per l’8 per cento. Mentre le precedenti patologie hanno perso di rilevanza sociale, i tumori dal 2005 si collocano al primo posto delle prestazioni concesse dall’Inps, superando persino le malattie dell’apparato cardio-circolatorio (21,7 per cento).

ARRIVANO I PRIMI STUDI IN MATERIA - L’entità del problema sta richiamando l’attenzione degli esperti. Così, uno studio guidato del Coronel Institute of Occupational Health di Amsterdam e pubblicato di recente sulla rivista Jama dimostra scientificamente che chi sopravvive a un tumore ha il 37 per cento in meno di possibilità di trovare lavoro quando finisce le cure. I ricercatori olandesi hanno passato in rassegna 36 lavori di analisi pubblicati fra il 1996 e il 2008, per un totale di 20.366 persone curate per cancro contro 15.7603 soggetti sani. Dallo studio emerge che l’età media di chi guarisce è inferiore ai 65 anni: a essere colpiti dalla malattia, quindi, sono soprattutto individui che potrebbero essere ancora attivi nel mondo del lavoro, ma che purtroppo – durante il periodo delle cure - perdono l’incarico o vengono demansionati. I risultati evidenziano poi che sono le donne ad avere più difficoltà. Tra le neoplasie dopo le quali più faticosamente si trova lavoro, infatti, compare il carcinoma al seno, seguito dal tumore all’apparato gastroenterico e da quello all’utero. Più semplice, invece, la questione per chi ha superato leucemie, cancro alla prostata o ai testicoli. Ma secondo i dati presentati a un seminario organizzato dal Comune di Milano per la tutela dei lavoratori malati di cancro, il problema sarebbe soprattutto maschile: «Sono oltre sei su dieci (ben il 64 per cento) gli uomini che in seguito a una neoplasia hanno dovuto lasciare il lavoro, una percentuale più che doppia rispetto a quella delle donne (29 per cento) – ha sottolineato Andrea Mascaretti, assessore alle politiche del lavoro e dell’occupazione -». Nel 2010 si stima che nel nostro Paese le persone con esperienza passata di tumore saranno circa due milioni, molte tra queste in età da lavoro. Ad oggi, il 40 per cento delle donne affette da una patologia oncologica è casalinga, mentre il 17 per cento lavora. Sono invece circa il 20 per cento gli uomini lavoratori e malati.

LE LEGGI DI RIFERIMENTO – Eppure le tutele per pazienti (e familiari) esistono: in ambito lavorativo alcuni benefici conseguono all’accertamento di una certa percentuale di invalidità, mentre altri sono legati alla verifica dello stato di «handicap in situazione di gravità». E’ possibile, ad esempio, fare visite mediche senza dover ricorrere a ferie o permessi, passare a una mansione più adatta al proprio stato fisico o ottenere un periodo anche lungo di aspettativa non retribuita. Per tale motivo, e per evitare di doversi sottoporre più volte alla visita medico-legale, è consigliabile presentare alla Asl la domanda sia per il riconoscimento dello stato di invalidità sia per quello di handicap cosiddetto «grave», sia per l’accertamento della disabilità ai sensi della L. 68/1999. La Legge Biagi (numero 276 del 2003), poi, ha introdotto un’ulteriore facilitazione per i malati di tumore: consente, infatti, al malato dipendente dal settore privato di passare dal tempo pieno al tempo parziale per potersi curare con maggiore agio, mantenendo però il diritto a riprendere il normale orario di lavoro quando lo riterrà opportuno. Un ulteriore e significativo passo avanti viene compiuto a fine 2007. Nel protocollo sul Welfare (collegato alla Finanziaria 2008), viene approvato all’unanimità un emendamento che estende i benefici della norma della Legge Biagi ai dipendenti del pubblico impiego e, in diversa misura, anche ai lavoratori familiari o conviventi che assistono il malato.

«I DIRITTI CI SONO, MA I PAZIENTI NON LO SANNO» - Anche la percezione di questi diritti da parte degli stessi malati, però, è ancora troppo bassa. «Su 544 donne colpite da tumore al seno - chiarisce il presidente di Europa Donna , Giovanna Gatti, citando una ricerca effettuata da Astra per l’Associazione nel 2007 - solo il 35 per cento è risultato informato sulla possibilità di fare visite mediche senza dover ricorrere a ferie o permessi, il 22 per cento sul diritto di passare ad una mansione più adatta al proprio stato fisico, il 20 per cento sulla possibilità di ottenere un periodo anche lungo di aspettativa non retribuita, il 18 per cento sul diritto di passare a un part-time provvisorio». Ancora più preoccupanti, poi, i dati riguardanti l’utilizzo di queste facilitazioni. Solo il 3 per cento delle 544 intervistate è infatti passato a un part-time provvisorio, a lunga aspettativa o a una mansione più adatta è solo il 12 per cento ha fatto ricorso a visite mediche senza sprecare giorni di ferie».

CONGEDI RETRIBUITI PER I FIGLI CHE ASSISTONO I MALATI – Ai numerosi casi finiti in Tribunale almeno la Legge italiana cerca di dare una risposta. E’ del 12 Febbraio 2009 l’ultima importante sentenza (n. 19/2009) della Corte Costituzionale, che riconosce al figlio convivente di persona con handicap grave (articolo 3, comma 3, Legge 104/1992), il diritto a fruire di un congedo straordinario dal lavoro per un periodo massimo di due anni in modo frazionato o continuativo e è interamente retribuito. Questo «permesso» può essere fruito una sola volta nell'arco dell’intera vita lavorativa del familiare che assiste il malato. «Ma prima di questa sentenza – spiega Elisabetta Iannelli -, il congedo biennale retribuito (art. 42, D. lgs. 151/2001) era riconosciuto solo al coniuge o al genitore della persona con handicap grave oppure (ma solo in caso di decesso o inabilità dei genitori) a un fratello o sorella convivente. Ora la Corte Costituzionale – già recepita da una circolare applicativa dell’Inps - ha esteso il diritto in esame anche al figlio convivente nel caso in cui non ci siano altri soggetti idonei a prendersi cura della persona in situazione di disabilità grave». Questo significa che il figlio di una persona malata di cancro (cui sia stato riconosciuto lo stato di handicap in situazione di gravità) potrà assistere il proprio caro assentandosi dal lavoro per un periodo continuativo o frazionato fino a due anni conservando la retribuzione ed il posto di lavoro.
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01/02/2013 19:23

RACCONTO
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«Da quei bambini e dai loro genitori una lezione di vita»
Denise Lombardi, fotografa folgorata sulla via del Gaslini. I suoi scatti finiranno in un libro sull’ospedale genovese

CECINA. Il desiderio di testimoniare e documentare anima la sua passione per la fotografia. Uno dei suoi sogni è fare il reporter ma per ora Denise Lombardi, trentaduenne cecinese, è animatrice di pagine facebook per prodotti realizzati a mano e partecipa agli incontri della Banda degli Scatti, gruppo fotografico di Guardistallo.
Spirito vivace e orientato all’impegno civile, Denise ha realizzato il suo desiderio quasi per caso un pomeriggio di novembre a Genova: le foto che ha scattato quel giorno saranno pubblicate in un libro sull’ospedale Gaslini in uscita a marzo.
«Il 24 novembre ero andata con mio marito al funerale del padre di un amico musicista – racconta – che nonostante il lutto nel pomeriggio ha deciso di onorare l’impegno preso con gli organizzatori dell’iniziativa “Genova accoglie, Genova sostiene”, due associazioni di volontari dell’ospedale Gaslini. Lo abbiamo accompagnato a Palazzo Ducale per assistere al suo concerto e siamo rimasti affascinati dal pubblico presente in sala. C’erano le madri dei bambini in cura, un padre che ha perso il figlio e ha voluto offrire la sua testimonianza. E’ stato molto emozionante».
Frutto di quel pomeriggio sono tanti scatti eseguiti a ruota libera sulle impressioni del momento. Guardando i bambini, il pubblico, ma soprattutto cercando di catturare il clima di unione e di convergenza verso un unico obiettivo: contribuire al funzionamento dell’ospedale pediatrico più celebre d’Italia. Motore dell’iniziativa erano infatti le due associazioni Abeo Liguria (Associazione bambino emopatico e oncologico, onlus) e Fondo tumori e leucemie del bambino che festeggiavano rispettivamente i 30 e i 45 anni di assistenza ai piccoli e alle famiglie al Gaslini.
«Queste due associazioni sono animate dal desiderio di far crescere l’ospedale, mentre a Cecina non si respira la stessa aria – continua Denise - perché ci si è adagiati sul non fare. Lì i genitori che hanno perso i figli oggi fanno i volontari. Cecina ha reparti di eccellenza, tra i migliori della zona, ma sta andando tutto alle ortiche nel silenzio generale. La salute è un bene primario e Genova mi ha dato una grande lezione di civiltà, mostrando che si costruisce dal basso facendo comunità. Dovremmo fare come loro».
L’impatto con la realtà ligure è stato così forte che le foto scattate quel pomeriggio sono state invitate ad Abeo Liguria, presieduta da Angelo Ricci. «Mi hanno chiamato per dirmi che stanno preparando un volume sul Gaslini e ne pubblicheranno alcune» conclude raggiante Denise, cui è rimasta la voglia di trasmettere a Cecina la determinazione di Genova.
Federica Lessi
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01/02/2013 19:23

IL SORRISO DEL MONDO.......
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Due giorni di riflessione con la Prometeo, dedicata ai bambini malati oncologici della Romania.


Non solo pedofilia. Da anni l’impegno incessante della Prometeo a favore dell’infanzia violata ha toccato anche altri temi, come i bambini sieropositivi e quelli malati di cancro.

Si è tenuta preso la sede di Prometeo una due giorni dedicata al progetto di adozione a distanza dei bambini ospiti del reparto di oncologia pediatrica dell’ospedale Budimex di Bucarest.
La due giorni ha visto la presenza del dr. Scurtu, medico primario del reparto e della dr.ssa Gheorghica, psicologa e coordinatrice per la Prometeo del progetto.
Questo il resoconto della conferenza stampa tenuta alla fine dei due giorni, in cui sono stati incontrati i genitori “affidatari” e visitati gli ospedali di due grandi città, creando dei proficui contatti operativi.
“Il tutto è nato circa 8 anni fa” ha detto Massimiliano Frassi, presidente di Prometeo, “quando approdammo “per caso” al Budimex, dopo aver visitato un reparto dove venivano abbandonati i bambini vittime di gravissimi abusi. Rapiti dai turisti sessuali pedofili, venivano torturati e poi lasciati in mezzo alla strada o nel migliore dei casi fuori dall’ospedale medesimo, con ferite difficili da descrivere.
Scoprimmo allora l’esistenza dell’unico reparto di oncologia pediatrica di tutta la Romania, reparto che con pochissimi mezzi ma tantissima buona volontà cercava di contrastare il male che colpiva parecchi bambini.
All’epoca avevamo già aiutato il reparto di pediatria del padiglione di malattie infettive di Timisoara, acquistando letti nuovi e farmaci/strumenti di pronto intervento – siringhe sterili in primis – e cercavamo una nuova realtà da poter supportare”.
Continua Frassi: “il primo ingresso al Budimex non lo scorderò mai. Incrociare lo sguardo con dei bimbi, sconfitti dalla fame e dal dolore ma malgrado tutto sempre sorridenti, fu sicuramente la molla che fece scattare il nostro impegno. Un impegno gravoso, non facile.
Come spesso ho detto come Prometeo abbiamo scelto sempre la via più tortuosa, meno battuta, ma proprio per questo più bisognosa di noi.”
Interviene il dr. Scurtu. Poco più di sessantanni, da sempre anima dei bimbi del Budimex. Se li ricorda tutti e snocciola nomi e diagnosi con grande precisione. Il viso si illumina o si rabbuia a seconda della situazione in cui stanno oggi i “suoi” piccoli.
“Quando Prometeo venne a noi il primo pensiero fu che si sarebbero comportati come tutti gli altri prima e dopo di loro. Invece hanno dimostrato subito, che facevano sul serio. E se il tasso di mortalità allora per i nostri pazienti era del 80% mentre oggi si è pressoché dimezzato, sono orgoglioso di dire che lo dobbiamo al loro aiuto!”
“Per questo dico che l’impegno è gravoso” riprende la parola Frassi, “non possiamo permetterci di sbagliare né tantomeno di fare promesse che non possono essere mantenute, poiché qua si gioca con la vita. Di tanti bambini!”.
Dice il dr. Scurtu: “il primo impegno di Prometeo fu quello di comprare una macchina aspira veleni nocivi, senza la quale le infermiere che preparavano certi cocktail di farmaci rischiavano di ammalarsi loro stesse o se rimaste incinta di mettere al mondo dei bimbi con gravi disabilità.
Poi nel tempo, oltre ad aver creato lo spazio cucine per le mamme, ed aiutato tantissimi bimbi e tante famiglie, vorrei ricordare l’acquisto di alcune macchine per la chemioterapia.
Il nostro reparto è quello che subisce più tagli e che ha meno aiuti, ma permettetemi di dire che quelle macchine in tutta la Romania le abbiamo solo noi. E anche grazie a quelle macchine, oggi, possiamo dire ciò che ieri manco ci sognavamo: molti bambini sono definitivamente guariti!”.
Davanti ad un simile risultato non bisogna però abbassare mai la guardia. Il rischio di recidiva del male per alcuni di loro è ancora elevato.
Due giorni prima dell’arrivo in Italia della delegazione del Budimex, Ionut, anni 10, si è spento per un improvviso e fortissimo attacco di cuore.
Si commuove la dr.ssa Andreea Gheorghica al ricordo suo e di tutti quelli che in questi anni ha “salutato”. Bambini spesso soli, abbandonati in ospedale, o con situazioni familiari tragiche.
Lei per molti di loro era quella mamma che non hanno avuto, quel sorriso sempre presente, quell’essere portatrice di tante piccole attenzioni, per noi scontate, per questi bimbi merce rara.
Oggi lei ha un nuovo sogno: “abbiamo visto un letto che permette con una sorta di tenda di rendere l’ambiente sterile. Così facendo potremmo curare ancora più bambini”.
Purtroppo anche in questo caso l’ospedale non ha i fondi per acquistare nulla.
Altre volte arrivano invece risposte indegne.
Come quella che compare su un piccolo quotidiano indipendente, di quelli che stanno nascendo anche in Romania cercando di portare “la vera verità dei fatti”.
Il sindaco di un paese rifiuta di aiutare la famiglia di uno dei “nostri” piccoli del Budimex dichiarando che “essendo malato di cancro è inutile spendere dei soldi”.
“Bisogna poi fare i conti con la crisi che sta toccando il paese” aggiunge la dr.ssa Gheorghica. “Gli stipendi statali sono stati tagliati del 25% mentre l’iva è aumentata. Vuol dire che si va a fare la spesa coi prezzi dell’Italia ma con uno stipendio che ad esempio per il dr. Scurtu, che è primario, è di poco meno di 800 euro al mese. Questo ha creato una fuga del personale specializzato all’estero. Infermiere in Italia, medici in Francia e Spagna”.
“E pochi eroi, che ancora ci credono”, aggiunge Frassi, “fissi al Budimex”.
Alla Prometeo, oltre che la richiesta di dare un aiuto per il lettino sterile, sono stati “affidati idealmente” altri bambini. Una decina in tutto i nuovi casi bisognosi, al fronte di 50 nuovi ingressi annui al Budimex.
Tra questi una piccola di sei mesi ed un bimbo down di 13 anni, ma che fisicamente “ne dimostra non più di 8”.
Insieme a loro sono state consegnate le relazioni di aggiornamento dei bimbi presi in carico con alcune nuove fotografie.
Alcuni bimbi posano raggianti mostrando all’obbiettivo le scarpine nuove o i giochi ricevuti dalla “delegatio italiana”: “si sono tutti raccomandati di salutarvi, di ringraziarvi, ma soprattutto di ricordarvi che anche quest’anno vi aspettano con ansia per San Nicolaus”, aggiunge Andreea, ridendo.
Patricia è forse l’immagine che più di tutte riassume gli esiti del progetto.
“La affidammo a Prometeo che era uno scricciolo a tal punto che la giovane madre la metteva nel passeggino delle bambole, non avendo altro per portarla in giro. Oggi è cresciuta, è una bellissima ragazza, i capelli sono lunghi, ed è sulla via di una guarigione che pensiamo possa essere definitiva”.
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01/02/2013 19:24

LA STORIA
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«Il cancro? Ho vinto io.
E sono diventata mamma»
La prima donna in Italia che ha adottato un bimbo dopo il tumore al seno si racconta. Un iter lungo, difficile, tortuoso, ma non impossibile

MILANO - Vittoria ha avuto un tumore del seno a 26 anni. Una volta guarita, ha scelto con suo marito Riccardo di adottare un figlio e nel dicembre 2004 è finalmente arrivata Andrea. La sua esperienza ha rappresentato una vera novità: in Italia adottare un bambino dopo aver superato un tumore appare ancora un iter lungo, difficile, tortuoso. Vittoria ha deciso di raccontare la sua esperienza per lanciare soprattutto un messaggio di speranza a tutte le donne guarite, che vorrebbero diventare mamme, ma sono spaventate o vengono scoraggiate da una burocrazia spesso «insensibile». Ha però preferito restare anonima: «Sarò io a spiegare ad Andrea la sua storia quando sarà il momento», dice tenendo in mano la copia del libro (Ho vinto io, a cura di Boldrini, Smerrieri e Goffi, promosso dalla Fondazione Aiom Giunti editore) in cui racconta le sue vicissitudini insieme a molte altre donne che hanno saputo trovare risorse e forza per ripartire dopo la malattia. E che hanno voluto denunciare, attraverso le loro esperienze, difficoltà e bisogni disattesi nel reinserimento lavorativo e sociale. È sufficiente un veloce giro sui siti internet dedicati alle adozioni o alla fertilità di coppia o basta leggere i molti messaggi che arrivano nei forum di Sportello Cancro: «Ora che ho sto bene, vorrei avere un figlio» è una frase ricorrente, le storie sono tantissime. Il principio però è sempre lo stesso: il legittimo desiderio di tornare, continuare, a vivere dopo la «burrasca».

CRESCE IL NUMERO DELLE MAMME POST-CANCRO - Ad oggi sono 400mila le donne italiane guarite dal cancro al seno e se fino a 10 anni fa il massimo obiettivo era sopravvivere, ora si guarda oltre. Capita così che una su quattro (il 25 per cento) lasci il marito o compagno che nella maggioranza dei casi si è dimostrato inadeguato a questa prova. Se poi il 40 per cento ricomincia a lavorare a due mesi dalla diagnosi, cinquecento donne (il 5 per cento, circa, ma i dati disponibili attualmente sono pochi) hanno avuto figli dopo il tumore. «E si tratta di un numero destinato ad aumentare per vari motivi - spiega Carmelo Iacono, presidente nazionale dell’Associazione italiana di oncologia medica -. Perchè non sembrano esistere controindicazioni alla gravidanza dopo il cancro e molte pazienti si ammalano quando sono ancora in età fertile. E perché il carcinoma mammario è sempre più diffuso nel mondo, ma la sua mortalità è in costante diminuzione: in Italia, negli ultimi cinque anni è scesa dell’11,2 per cento nelle donne al di sotto dei 49 anni».

«IL PIÙ’ FANTASTICO DEI TRIONFI» - «Riuscire ad adottare Andrea è il più fantastico dei trionfi: ho vinto il cancro e sono riuscita a realizzare il mio desiderio più grande, essere mamma» sottolinea Vittoria. Forse non è l’unica, ma nessun’altra mamma ha per ora reso pubblico un evento analogo. «I medici con me sono stati chiari: avere un figlio dopo il tumore non è impossibile, ma bisogna lasciar passare almeno cinque anni dall’intervento chirurgico, per precauzione. E sapere che può anche andarti male.. Io ci ho sempre creduto e dopo l’operazione ho iniziato a contare i giorni che mi separavano dal “traguardo”». Vittoria era giovane e il suo fisico resistente aveva reagito bene alle cure oncologiche, quando si sentivano finalmente pronti la sorte sembrava essere dalla parte sua e di Riccardo: dopo un solo mese di “tentativi” lei rimane incinta. «Invece il peggio doveva ancora arrivare: improvvisamente il cancro è tornato, più aggressivo. Non mi ha dato scelta e i medici non mi hanno lasciato nessuno spiraglio: era impossibile portare a termine la gravidanza. Se mi fossi sacrificata, rinunciando alle terapie, sarebbe stato un tentativo inutile. Per me e per lui». Poi, dopo un lungo calvario per le cure, il tumore scompare per non ripresentarsi mai più. «Ma questa volta si era portato via una parte di me – continua Vittoria -. Senza un aiuto psicologico non ce l’avrei mai fatta. E poi c’era Riccardo: ha saputo starmi vicino, prendermi per mano, consolarmi. Come tutte le grandi prove, se non ti annientano ti rendono più forte. Così è successo a noi». Poi la vita prende il sopravvento e Vittoria, che prima si consideravo guarita, ora si sentiva una malata cronica. «Una condizione che ti porta necessariamente a riconsiderare alcune scelte fondamentali, ma non a rinunciare ai desideri più grandi», spiega. In linea teorica avrebbe potuto rimanere incinta di nuovo, ma i medici lo sconsigliavano e il rischio per la sua salute era elevatissimo. Così ha deciso che l’adozione avrebbe potuto essere la strada giusta. E tuo marito? «Piano piano, dopo notti di discussioni, dubbi, confronti, anche lui ha maturato il mio stesso desiderio. E così, ancora una volta mano nella mano abbiamo iniziato questa nuova avventura».

«UNA GRAVIDANZA BUROCRATICA» - La “gestazione” è durata quasi tre anni (il limite massimo, dopo il quale bisogna ricominciare l’iter di richiesta per l’adozione ex novo). Accade purtroppo, ma questo caso è stato particolarmente “travagliato” perché Vittoria e Riccardo non hanno mai nascosto la malattia. Il che, ovviamente, ha fatto in modo che le richieste e gli accertamenti per l’idoneità si moltiplicassero. «Nei tribunali le domande di adozione per chi si è lasciato alle spalle una patologia grave si scontrano con molti pregiudizi - commenta Elisabetta Iannelli, avvocato specializzato e vicepresidente dell’Associazione italiana malati di cancro (Aimac) -. “Ripassi fra cinque anni” è una frase molto comune, peccato che si possa avere un bimbo con meno di 12 mesi solo se i genitori hanno al massimo 45 anni: molte persone quei cinque anni non li hanno». La legge, è ovvio, tutela i minori e prevede che la salute dei genitori non pregiudichi il diritto del bambino ad avere genitori sani, che gli possano stare accanto il più a lungo possibile. Poi tutto sta nella valutazione del singolo caso. «Così come si calcolano le condizioni economiche e sociali della coppia, sono previste per tutti certificati sanitari e visite psicologiche e psichiatriche – precisa Iannelli -. Tutto viene rivisto dal medico legale del tribunale. La domanda a cui bisogna rispondere per un’adozione però è una soltanto: è ragionevole affidare un bimbo a queste due persone?». Se uno dei due coniugi è un ex-malato troppo spesso le richieste sconfinano nell’inutile e nell’accanimento. Ma Vittoria e Riccardo ce l’hanno fatta: «È stata durissima: umiliazioni, discriminazioni. Nei confronti di chi è stato malato di tumore resta ancora purtroppo, da parte di molti, un pregiudizio di fondo. Ma noi ci siamo presi Andrea e una bella rivincita: un ottimo assistente sociale e una psicologa davvero eccezionale, nella loro valutazione, ci hanno dato “la lode”. Hanno spiegato che il nostro percorso così accidentato ci ha portati ad affrontare la sofferenza con equilibrio e che abbiamo sviluppato una sensibilità e un entusiasmo verso la vita che chi è in buona salute non possiede, perché li dà per scontati».

LA PAROLA AI MEDICI – Secondo recenti statistiche, circa il 15-20 per cento delle donne con diagnosi di tumore al seno è ancora in età riproduttiva e l’ipotesi di una futura gravidanza è un parametro da valutare attentamente nella scelta del trattamento. «Il carcinoma mammario – dice Pierfranco Conte, responsabile del Dipartimento di oncologia dell’Università di Modena. - può risentire dei livelli di estrogeni e il ricorso a terapie ormonali richiede delle precauzioni. Alcuni farmaci per la chemioterapia possono indurre una menopausa precoce, cosa che accade in poco più di metà delle donne. Nelle under 35enni è un’eventualità però molto bassa e in genere dopo un anno si ha una ripresa della funzione ovarica». Alcuni studi, poi, mostrano che una gravidanza a due anni dalla fine della terapia può avere addirittura un effetto protettivo, mentre non sono stati riscontrati effetti avversi e anomalie nei feti. Più alto, invece, è il pericolo di aborti spontanei, che nelle ex-malate aumento del 25 per cento. E anche nel caso si scopra la neoplasia quando la gravidanza è già iniziata? Accade in un caso ogni 3000 gestazioni e le speranze di portarla a termine non mancano. «Troncare la gravidanza - conclude Alessandra Fabi, oncologa del Regina Elena di Roma - è un’opzione da non considerare a meno che il tumore non sia già in fase avanzata. Nel secondo-terzo trimestre della gestazione l’intervento chirurgico è senz’altro un’alternativa. Anche la chemio è un’opzione efficace, ma va evitata nei primi tre mesi, insieme a terapie ormonali e radioterapia».

TERAPIE ANTICANCRO IN DIFESA DELLA FERTILITÀ – Nel caso di una diagnosi di cancro, per maschi e femmine, oggi sono molte le attenzioni che chirurghi, oncologi e radioterapisti possono adottare per non compromettere la futura possibilità dei malati di avere figli. Ci sono tecniche operatorie che risparmiano gli organi riproduttivi e trattamenti chemio e radio che possono essere scelti a seconda del tipo di neoplasia, certo, ma anche dell’età e dei desideri del paziente. «Nel nostro Paese 1.500 donne sotto i 40 anni vengono colpite ogni anno da un carcinoma alla mammella, il 4 per cento di tutti i casi, e il 33 per cento di loro non ha avuto figli» precisa la coordinatrice di una nuova ricerca salva-fertilità, Lucia Del Mastro, dell’Istituto tumori di Genova. I chemioterapici compromettono la possibilità di avere una gravidanza nel 70 per cento dei casi perché riducendo il numero di follicoli nelle ovaie, provocano una menopausa precoce. Finora l’unica soluzione per diventare madri era congelare gli ovuli prima dell’inizio della terapia per poi procedere, a guarigione avvenuta, alla fecondazione in vitro. Ma la nuova ricerca, giunta alla fase più avanzata della sperimentazione, dimostra ora che è possibile ridurre la menopausa precoce dal 50 al 30 per cento grazie a un farmaco, la triptorelina, che mette a riposo le ovaie prima di iniziare il trattamento, risparmiando loro gli effetti tossici della cura.
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CONTRO LA VERGOGNA DELLA MALATTIA


Eh si ragazzi, è uscito il suo libro, la battaglia di Paola si fa sempre più concreta. Abbiamo letto il suo blog fino al consumo e le storie che Paola racconta di quel reparto, il regno di Op appunto, dove “op” sta per oncologia pediatrica, hanno portato alla luce una realtà parallela, scomoda e triste.

“C’è una minoranza di persone che nomina le cose e lo fa anche per gli altri; che guarda negli occhi la paura e dà al resto del mondo la misura del coraggio. Che entra nel buio e torna dicendo: questa dove si sta di solito è la luce. Allora gli altri dicono: certo, lo sappiamo. È vero, tutti lo sappiamo. Ma trovare le parole per dirlo fa la differenza, rende consapevoli.” Dall’introduzione al libro di Concita De Gregorio




Se ti dicono reparto oncologico ammutolisci. La fitta è proprio lì, nel mezzo del cuore. Se ti aggiungono ‘pediatrico’ ti frana tutto sotto i piedi. Ecco: il Regno di Op è quello nel quale precipiti dopo che il terreno ti frana sotto i piedi. E non hai scelta.Cominci la battaglia. Non per te. Sarebbe la cosa che vorresti che fosse. Ma per tuo figlio. Per tua figlia. Il Regno di Op di Paola Natalicchio, giornalista, è al decimo piano di un grande Ospedale romano.
In una mattina di fine maggio, la sorte ha deciso che a finire intrappolato in quel regno ci fosse anche suo figlio. E non c’è stato altro da fare, se non affidarlo appena nato alle cure di chi ha il ‘sapere’ per guardare in faccia la malattia e provare a governarla. Il Regno di Op è un libro (ma anche un blog) contro la vergogna della malattia, che invita alla resistenza e alla speranza di farcela. Ti prende per mano e ti porta al centro delle relazioni di un mondo dove si maneggia la vita, dove la parola ‘prendersi cura’ la capisci nello sguardo, nella carezza, nella lacrima, nel silenzio che è complicità per tutto quello che vorresti che fosse. Per la gioia più grande (che a Op c’è) e per il dolore più acuto (che a Op non ti è risparmiato). Perché l’uno e l’altro abitano Op.È una guerra quella che si combatte lì. E Paola, che ci è finita dentro senza colpa e senza possibilità di fuga, come fa sempre, da giornalista, ne ha scritto. Un assaggio di lettura cliccando qui. Questo non è un libro che muove a compassione. Ma è un libro di passione civile. Perché la malattia, questa malattia, ha bisogno delle parole giuste che la sottraggono all’apartheid sociale nella quale deleghiamo, anche per difenderci, chi ci entra.E se sono bambini, il cui mondo rimane bambino anche quando ai giochi si affiancano flebo, aghi, corsie e barelle, quando alle filastrocche e ai ritornelli fanno da eco diagnosi con parole mai sentite, allora c’è bisogno che una come Paola lo racconti quel mondo per vincere la paura che ci prende. Perché il drago che spadroneggia su Op, i dottori bravi e le infermiere con i guanti da puffo, qualche volta, molte volte, sanno farlo addormentare.



Insieme agli scritti su Op di Paola Natalicchio, il libro contiene l’introduzione di Concita De Gregorio, la postfazione del prof. Riccardi, primario di Op del Gemelli e le tavole di Esther Cristofori, che è un’adolescente in cura ad Op, autrice di fumetti e cartoni, che tiene a bada il drago a suon di matite colorate.
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01/02/2013 19:25

LA STORIA
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Emma Marrone:
ragazzi vi racconto
la mia battaglia contro il cancro

La vincitrice di Amici spiega perché è impegnata in una campagna per la prevenzione

MILANO - Piangerai. Come pioggia tu piangerai... È l’incipit ormai famoso della canzone "Arriverà" che l’ha definitivamente lanciata ai vertici della musica leggera italiana, regalandole il secondo posto a Sanremo con i Modà. Al contrario di quanto canta, però, Emmanuela Marrone, in arte Emma, 27 anni da Aradeo in provincia di Lecce, non ha versato neppure una lacrima. Da vera "capu tustu", testa dura, la "leonessa del Salento" non ha pianto quando il ginecologo si è messo le mani nei capelli dopo averla visitata. Due anni fa, alla vigilia della nona edizione del talent show Amici che poi Emma avrebbe vinto, il suo tempo si è fermato sulle labbra del medico che scandivano le parole: tumore, operare, massima urgenza.
«La neoplasia mi aveva preso utero e ovaie. Avevo fatto la Tac e la risonanza magnetica. Anche la ricerca dei marker nel sangue confermava la presenza di cellule tumorali. A quel punto non potevo più sfuggire». Seduta nel backstage di uno dei concerti che sta portando in tour per l’Italia, Emma, un concentrato di bellezza mediterranea, volontà, coraggio e saggezza quasi d’altri tempi, ci racconta la sua storia con estrema semplicità e senza reticenze. Lo fa adesso per un motivo ben preciso: ha voluto evitare facili strumentalizzazioni sia ai tempi di Amici che al Festival di Sanremo, ma ora vuole trasformare la malattia sconfitta in una campagna di prevenzione assieme alla Fondazione Ant di Bologna, che di prevenzione e assistenza domiciliare in campo oncologico si occupa dal 1985.

Cercalo prima che ti trovi. Fidati di me e pensa seriamente alla prevenzione: è il messaggio che la cantante comincerà a diffondere dalla prossima settimana. Di suo, Emma ci mette la faccia. In tasca, non le entra nulla. E per i cinici di mestiere, che inarcheranno il sopracciglio dubbiosi, chiarisce: «Se lo faccio adesso è perché ci credo e voglio aiutare, se posso. Non ho bisogno di usare una malattia del genere per sponsorizzarmi. Nemmeno un mese fa è morta di tumore una mia giovane fan e altre sono in cura. Questo bisogna chiedersi: è normale, ancora oggi, che una ragazzina di 17 anni muoia di tumore in Italia?». Emma ne aveva 25 quando la malattia ha bussato alla sua porta preceduta da avvisaglie di stanchezza prolungata e perdita di peso che mamma Maria e papà Rosario attribuivano alla sua vita stressata. Di giorno lavorava come commessa in negozio e di notte andava in giro a suonare nei locali con la sua band. In più, preparavano un disco tutto da soli. «Poi però, sai quando ti si accende quella lampadina nella testa? Anche prima di andare a fare la visita avevo parlato con mia mamma e le avevo detto: preparati perché non ne verrà niente di buono, lo so. Me lo sentivo dentro».

A chiamare i colleghi del Policlinico Umberto I a Roma per farla operare d’urgenza è stato il ginecologo stesso, amico di famiglia. «Chicca», così la chiama suo padre, ha voluto essere informata di tutto dai dottori fin dall’inizio. A muso duro e da sola. Così glielo hanno detto: rischi di morire; se sopravvivi, c’è la probabilità che tu comunque possa non avere figli. Prima di entrare in sala operatoria, Emma ha quindi chiesto di firmare il consenso alla donazione degli organi. «Ero serena, il perché non lo so. Sarà che sono abbastanza credente, pregavo molto. Avevo paura però volevo comunque affrontare tutto». L’intervento è durato sette ore. «Non smetterò mai di ringraziare la dottoressa Marialuisa Framarino e lo staff di Ginecologia. Mi hanno accolto subito bene e mi hanno salvato la vita. Lei ce l’ha messa tutta per salvarmi le ovaie e l’utero. E c’è riuscita. Fortunatamente non c’è stato nemmeno bisogno di fare radio o chemioterapia, come invece mi era stato anticipato. Dopo l’intervento ho fatto di nuovo gli esami ed era sparito tutto. Nel sangue non era rimasto niente, come se il mio corpo avesse immediatamente reagito bene». Poi, una settimana di ricovero. «Sono stata dimessa anche un giorno prima del previsto, perché volevo tornare a casa. È stato il solo momento in cui ho pianto: non pensavo di uscire con le mie gambe, sinceramente».

Tre settimane dopo, Emma era seduta in un pub a cantare. «Avevo ancora i punti e il busto con le stecche, che ho portato per mesi, anche quando ho fatto il primo provino il 3 giugno ad Amici». Maria De Filippi lo sapeva, ma la ragazza le ha chiesto il silenzio sulla sua condizione. La malattia è scomparsa. È rimasta però la paura che torni e per questo Emma si sottopone ai controlli ogni tre mesi. È arrivato il successo. E l’imperativo di testimoniare: «Da quando sono scampata al male mi sento un po’ fortunata e un po’ missionaria nei confronti dei giovani. A loro dico: mi raccomando, non bisogna vergognarsi di andare dal medico. La prevenzione è importante. Avessi fatto più visite prima, magari avrei arginato il problema in maniera diversa».
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01/02/2013 19:26

ALI DI SCORTA
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Domande frequenti

Le domande che genitori e bambini fanno più frequentemente sulla leucemia e relative risposte

1 - Qual è la causa della leucemia (sia nell’adulto che nel bambino)?

2 - E’ una malattia ereditaria o contagiosa?

3 - Si può prevenirla?

4 - E' una malattia sicuramente mortale?

5 - Ma che cosa si intende per guarigione?

6 - Che cosa è il trapianto di midollo osseo?

7 - Cosa rischia il donatore di midollo osseo?

8 - Qual è il rischio se ad un soggetto in terapia viene la febbre?

9 - E’ meglio che il bambino con leucemia vada al mare o in montagna?

10 - Durante le cure il bambino può essere sottoposto alle vaccinazioni?

11 - Il trapianto di midollo osseo è “l’ultima spiaggia”?

12 - Che cose è l’assistenza globale?

13 - Ma i capelli cadono tutti?

14 - Ma si può morire?

15 - Il bambino può frequentare luoghi pubblici e/o uscire?

16 - Nostro figlio può tornare a scuola?

17 - Il catetere venoso centrale (CVC): come facciamo a gestirlo?

18 - Ci sono dei cibi che il bambino leucemico deve evitare?

19 - Come ci si deve comportare con gatti e cani?

20 - Cosa si intende per aplasia e quali precauzioni adottare quando un bambino è in aplasia?

21 - I fratelli del bambino leucemico devono essere messi a conoscenza della malattia del fratello/sorella? Come comportarsi con loro?

22 - Bisogna rinunciare al lavoro e agli hobbies per dedicarsi esclusivamente al bambino con la leucemia?

23 - Il bambino con leucemia ha bisogno di assistenza psicologica?

24 - Come ricorderà tra qualche anno questo periodo? Potrà rimanere traumatizzato ed avere delle ripercussioni psicologiche?

25 - Diagnosi di leucemia ad un adolescente: come comportarsi?

Risposte

1 - Qual è la causa della leucemia (sia nell’adulto che nel bambino)?
A tutt’oggi purtroppo, come del resto per tutti i tumori in genere, non si conosce la causa precisa che determina una leucemia. Si conosce bene il meccanismo che è alla base della malattia, ma il perché compaia un clone di cellule “impazzite” è ancora oscuro. Solo per l’adulto si sa che la leucemia può essere determinata da cause precise quali: radiazioni (malattia professionale) o alcune sostanze chimiche (coloranti).

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2 - E’ una malattia ereditaria o contagiosa?
Assolutamente NO. Gli studi fin o ad ora condotti escludono l’ereditarietà della leucemia. Non si conosce la causa della malattia, ma si può escludere la familiarità o ereditarietà. Come per tutti i tumori NON è una malattia contagiosa.

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3 - Si può prevenirla?
Purtroppo no. Non ci sono esami predittivi e i sintomi di esordio della malattia sono così comuni con altre malattie che si rischia di vedere la leucemia troppo spesso. Ricordiamo inoltre che la leucemia c’è o non c’è, non ce n’è poca o tanta. Quindi il fattore tempo per diagnosticarla è solo importante al fine di non avere condizioni cliniche troppo compromesse.

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4 - E’ una malattia sicuramente mortale?
La malattia, sia nel bambino che nell’adulto, è sicuramente GRAVE, ma, oggi, NON sicuramente mortale. Infatti la possibilità attuale di guarigione è nel bambino di circa il 70% dei casi, nell’adulto, invece, di circa il 30-35%. Tale percentuale varia a secondo di fattori tecnici (tipo di leucemia, caratteristiche biologiche ed immunologiche, risposta alle cure) e soggettivi (tolleranza al trattamento).

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5 - Ma che cosa si intende per guarigione?
Per guarigione si intende che il soggetto adeguatamente trattato mantiene nel tempo (almeno 2 anni dopo l’interruzione delle cure che in genere durano 2 anni) uno stato di remissione ematologica (assenza di malattia) ed un normale stato psichico e sociale. Quindi la vera guarigione deve essere fisica, psichica e sociale.

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6 - Che cosa è il trapianto di midollo osseo?
Trapianto di midollo osseo significa sostituzione di un tessuto vitale quale il midollo contenuto nelle nostre ossa. Trapianto, che attiene come termine tecnico più ad un organo solido, andrebbe meglio sostituito con trasfusione. Infatti il trapianto di midollo osseo è più simile ad una trasfusione che viene eseguita attraverso il catetere venoso centrale che viene sempre posizionato per eseguire un trapianto. In pratica con il trapianto vengono infuse cellule staminali emopoietiche normali al soggetto affetto da malattia maligna o non maligna del midollo osseo.

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7 - Cosa rischia il donatore di midollo osseo?
L’unico vero rischio per il donatore è quello anestesiologico, quindi molto basso. La durata dell’anestesia varia a seconda della superficie corporea del ricevente ed in media varia da 40 a 60 minuti. Quando possibile, la raccolta e somministrazione delle cellule staminali periferiche, che si effettua con prelievo venoso, può ovviare anche a questo “minimo” rischio.

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8 - Qual è il rischio se ad un soggetto in terapia viene la febbre?
Un soggetto (bambino o adulto) in terapia è un soggetto immunodepresso cioè con difese anticorpali abbassate. Pertanto se a questa immunodepressione si aggiunge, in alcune fasi di trattamento, un abbassamento di globuli bianchi (= aplasia), la febbre, quale espressione di un’infezione aspecifica, va considerata con molta attenzione e prudenza. In genere è meglio ricoverare il soggetto e metterlo in terapia antibiotica associativa. Il rischio della febbre, e quindi dell’infezione, non è per la leucemia (= facilita la ricaduta) ma unicamente perché l’infezione può trasformarsi in setticemia (= infezione sistemica). Quando invece i globuli bianchi hanno un valore pressoché normale (=non aplasia) il rischio infettivologico è molto minore.

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9 - E’ meglio che il bambino con leucemia vada al mare o in montagna?
E’ indifferente. Il clima non condiziona assolutamente la leucemia del bambino o dell’adulto. Il sole non induce affatto una ripresa della malattia. Clima e, aggiungo anche, alimentazione non guariscono o aggravano una leucemia, ma sono senza dubbio importanti per mantenere le buone condizioni fisiche del soggetto.

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10 - Durante le cure il bambino può essere sottoposto alle vaccinazioni?
NO. Non perché i vaccini possano causare una ricaduta della malattia, ma perché l’immunodepressione causata dalle cure impedisce l’attecchimento di un vaccino (cioè la risposta immunitaria da parte dell’organismo). In genere il calendario vaccinale viene ripreso circa 6 mesi dopo l’interruzione delle cure o viene ricominciato “ex novo” 1 anno dopo il trapianto di midollo osseo. L’ unica eccezione prevista è per il vaccino anti-influenzale e conseguente possibile richiamo che, dal 2004, è consigliato a tutti i pazienti in terapia.

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11 - Il trapianto di midollo osseo è “l’ultima spiaggia”?
NO. Il trapianto di midollo osseo è una terapia alternativa alla chemioterapia. In alcune situazioni è addirittura indicato fin dall’esordio (o meglio, poco dopo la 1a remissione); nella maggior parte dei casi, solo quando la chemioterapia non è in grado di controllare la malattia può seguire un trapianto. Insomma, una leucemia può essere trattata con chemioterapia o con trapianto di midollo osseo. A tale proposito ci sono indicazioni tecniche ben precise e delineate dal centro di cura.

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12 - Che cose è l’assistenza globale?
Oggi curare una leucemia non vuol dire solo saper somministrare i farmaci adatti per guarire la malattia, ma occorre offrire al bambino (o adulto) e alla sua famiglia tutto quanto gli potrà consentire di raggiungere la vera guarigione o, comunque, la miglior qualità di vita. Questo “quanto” è appunto l’assistenza globale che, oltre a richiedere un intervento multidisciplinare (medico, infermiera, assistente sociale, psicologo, educatore, clown, volontari, …), necessita di momenti ben precisi ed organizzati quali la comunicazione della diagnosi, il parlare al bambino, l’inserimento del bambino nella scuola di origine, la ripianificazione in caso di ricadute, l’assistenza nella fase terminale, il problema dei fratelli.

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13 - Ma i capelli cadono tutti?
Purtroppo la perdita dei capelli è da mettere in conto. Non è detto che ciò avvenga subito ed in maniera completa, ma è molto probabile. Un tempo, quando si eseguiva la radioterapia craniale come terapia preventiva al sistema nervoso centrale, la caduta completa era sicura; oggi un po’ meno, ma prevedibile. La caduta dei capelli, più o meno precoce più o meno completa, non è assolutamente indice dell’efficacia della terapia ma è fattore del tutto individuale, espressione della tossicità delle cure.

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14 - Ma si può morire?
La leucemia è una malattia grave e,anche se oggi si parla in maniera concreta di guarigione, è ovvio che resta una malattia potenzialmente mortale. In mani “esperte”, però, questa evenienza è più rara: i rischi maggiori, specie per alcune forme, sono all’inizio delle cure, quando distruggendo le cellule malate vengono liberate delle sostanze che possono causare emorragie mortali o dismetabolismi gravi. Il 2-3% dei soggetti può sviluppare infezioni o tossicità mortali, mentre una quota (circa il 30% dei bambini e il 60-70% degli adulti) può morire per progressione della malattia leucemica espressione della tossicità delle cure.

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15 - Il bambino può frequentare luoghi pubblici e/o uscire?
Sì. Le maggiori attenzioni vanno poste nelle prime settimane di trattamento, ma il più presto possibile (circa dopo il 1° mese di cure) viene promosso il reinserimento del bambino a scuola (quella di origine) e quindi la rinormalizzazione della sua vita. Pertanto i bambini possono frequentare anche i luoghi pubblici quali cinema, supermercati, parchi-gioco (qualche limite di frequenza può essere riservato a bar, ristoranti piccoli, sale-gioco, tutti luoghi in cui ci può essere un “inquinamento atmosferico” da fumo).

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16 - Nostro figlio può tornare a scuola?
Vostro figlio DEVE tornare a scuola. Quando parliamo di normalizzazione di vita per un bambino la scuola rappresenta la normalità, la riconquista del suo stato di “benessere” con i suoi compagni. Da anni si è sviluppato il programma-scuola nel nostro Centro e ciò è stato possibile grazie anche alla sensibilità ed alla collaborazione del Provveditorato agli Studi. Scuola intesa come presenza in ospedale (con insegnanti preparate ad hoc per inserirsi nel “circuito” malattia di questi bambini) ma anche, e soprattutto, come reinserimento nella scuola d’origine. Quindi mantenimento dell’educazione sì, ma soprattutto ricollegamento con gli stessi compagni. A partire dal termine del 1° mese di cura, e nel rispetto delle condizioni cliniche ed ematologiche del bambino, il bambino torna a scuola. La paura delle infezioni va gestita dal Centro; non è così facile contrarre infezioni (i bambini non sono proprio delle “carte veline”). La situazione da accettare è più quella della discontinuità di frequenza nei primi mesi di terapia. Anche il bambino più piccolo può andare alla scuola materna ma, ovviamente, con minore urgenza di reinserimento e con maggiore prudenza, legata soprattutto all’età.

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17 - Il catetere venoso centrale (CVC): come facciamo a gestirlo?
Il CVC ha dato, specie per i piccoli (da 0 a 6-7 anni di età) un grosso beneficio: basta punture dolorose, basta pianti legittimi. Come in tutte le cose il “successo” richiede però l’impegno e l’attenzione anche vostra come genitori. Seguendo le indicazioni delle infermiere, il CVC va tenuto ben pulito e ben pervio. La manualità, senza essere esasperata, va ricercata con precisione e soprattutto è bene che venga fatta da voi. Ciò non vi impedisce di poter andar via per brevi periodi di vacanza senza dipendere da ospedali di zona o operatori sanitari …… e poi il bambino preferisce come gestori proprio voi genitori. Se tutto prosegue bene il CVC va mantenuto per circa 7-8 mesi.

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18 - Ci sono dei cibi che il bambino leucemico deve evitare?
Sì ma limitatamente ad alcune fasi (aplasia intensa) o nei mesi (almeno i primi 6) post-trapianto. Per evitare il rischio di alcuni tipi di infezioni gastro-intestinali è meglio evitare le verdure non cotte (esempio insalata, pomodori freschi, …), la frutta non sbucciabile ( es. uva, albicocche, fragole, …), gli insaccati non cotti (es. prosciutto crudo, salame crudo, bresaola), la carne, le uova e il pesce non cotti. Per quanto riguarda i fritti e i cibi troppo grassi o elaborati è sempre meglio limitarne il consumo … anche se piccoli “sgarri” alla regola possono essere concessi!

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19 - Come ci si deve comportare con i gatti e cani?
In generale non ci sono problemi per gli animali domestici (vaccinati) … discorso a parte invece per i pazienti sottoposti a trapianto di midollo osseo, soprattutto nei primi sei mesi.

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20 - Cosa si intende per aplasia e quali precauzioni adottare quando un bambino e’ in aplasia?
Per aplasia si intende una riduzione importante, come possibile conseguenza della chemioterapia, dei globuli bianchi, dei globuli rossi e delle piastrine, in particolare del sottogruppo dei globuli bianchi neutrofili, cioè di quelle cellule deputate in prima istanza alla difesa immunitaria nei confronti delle infezioni batteriche. In queste fasi, quindi, bisogna cercare di ridurre il rischio di infezioni evitando il contatto con persone malate ed i luoghi super-affollati ma senza, per questo, costringere il bambino ad una “reclusione forzata”. Un’altra precauzione da adottare consiste nel contattare telefonicamente il Centro nel caso di comparsa di febbre, mal di pancia o diarrea, o se il bambino si presentasse scarsamente reattivo … verranno così forniti consigli ed indicazioni per la corretta gestione del problema.

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21 - I fratelli del bambino leucemico devono essere messi a conoscenza della malattia del fratello/sorella? Come comportarsi con loro?
Certamente sì. Bisogna spiegare, in maniera più o meno semplificata in base all’età, la malattia del fratello/sorella e la necessità di determinare cure che richiedono comprensione e sacrifici anche da parte loro! Sono rendendoli perfettamente coscienti della situazione si potrà ottenere la loro piena collaborazione. Tuttavia anche loro, pur essendo sani, hanno bisogno dei propri genitori, del loro amore e della loro attenzione … non bisogna “ concentrarsi” solo sul figlio malato ma cercare, nel limite del possibile, di essere esigenti e comprensivi in ugual misura, senza creare troppe differenze, che potrebbero risultare controproducenti sia per l’uno che per gli altri.

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22 - Bisogna rinunciare al lavoro, agli hobbies per dedicarsi esclusivamente al bambino con leucemia?
No, E’ bene che per lo meno uno dei due genitori continui a lavorare nonostante la malattia del figlio. Il continuare a dedicarsi al proprio lavoro, all’ attività sportiva o agli interessi di sempre, ovviamente con i limiti che una terapia intensa come quella per la leucemia composta (soprattutto nei primi 6 mesi) è vantaggioso non solo per i genitori ma anche per il bambino. E’ importante che la malattia del bambino non “stravolga” la normalità della vita familiare ma ne entri a far parte, integrandosi con le abitudini e attività quotidiane in maniera meno traumatica possibile.

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23 - Il bambino con leucemia ha bisogno di assistenza psicologica?
Generalmente no. La famiglia può offrire la migliore assistenza psicologica creando, attorno al bambino un clima il più sereno possibile, condizione indispensabile affinché il bambino impari ad accettare e non subire la malattia. Ovviamente è necessario che i genitori stessi abbiano iniziato non dico ad accettare ma per lo meno a convivere con l’idea della malattia del figlio. Non dimentichiamo inoltre che i bambini hanno una capacità di “adattamento” a nuove situazione molto migliore rispetto a quella dell’adulto, per cui riescono ad “abituarsi” a terapie o ricoveri ospedalieri più facilmente di quanto si possa pensare.

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24 - Come ricorderà tra qualche anno questo periodo? Potrà rimanere traumatizzato ed avere delle ripercussioni psicologiche?
Non ci sono molti studi in merito ma alcuni eseguiti anche dal nostro gruppo confermano che questa esperienza può addirittura rafforzare il carattere e i sentimenti di questi bambini/ragazzi.

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25 - Diagnosi di leucemia ad un adolescente: come comportarsi?
Allo stesso modo di quello che si fa con i bambini, anche se è molto importante imparare ad ascoltarli prima di dare loro risposte affrettate e/o pericolose.
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01/02/2013 19:27

RACCONTO
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"Vi racconto il mio linfoma guarito al quinto tentativo"
Ecco la storia di Marco, ingegnere milanese di 38 anni, sposato e con due figli. Ci racconta il suo calvario iniziato nel 2005 all'ospedale San Carlo di Milano...

"Mi chiamo Marco C, ho 38 anni. Faccio l’ingegnere, sono sposato e ho due bambini. Vi racconto come ho affrontato la mia malattia, un linfoma di Hodgkin (stadio IIA sottodiaframmatico). La diagnosi risale al febbraio 2005, ospedale San Carlo di Milano, avevo 32 anni.
Il mese successivo inizio una chemioterapia secondo lo schema ABVD (quella proposta per i linfomi), a luglio, al termine dei primi 4 cicli, il risultato è deludente, le adenopatie sono diminuite di volume del 50% ma ci sono ancora. Mi propongono altri 2 cicli di chemioterapia, vado avanti fino a settembre 2005.

A fine settembre le mie condizioni fisiche sono pessime. Il quadro è invariato rispetto a luglio, la Pet dimostra che la malattia persiste. I medici mi propongono una chemio di “salvataggio” secondo lo schema IGEV e, se possibile, autotrapianto di midollo. Scartano la radioterapia data la mia giovane età e la localizzazione.

Inizio a perdere la fiducia nella soluzione che in ospedale mi era stata presentata come la migliore disponibile, applicata in tutto il mondo (‘le sue adenopatie si scioglieranno come neve al sole’ mi dicevano).

Scopro che per combattere i linfomi non-Hodgkin tipo B sembra efficace un anticorpo monoclonale, il rituximab. Mi rivolgo all’istituto Ieo di Milano (anche se il mio è un linfoma di Hodgkin). Lì mi vien detto che anche al mio caso di può applicare l’anticorpo e che è meglio rimandare il trapianto.

Faccio i salti di gioia, nell’ottobre 2005 inizio il ricovero allo Ieo, per quattro settimane filate entro il venerdì ed esco la domenica. Mi somministrano l’anticorpo in 4 infusioni con medicazione e cortisone. Tocco il cielo con un dito perché l’efficacia del farmaco si fa subito sentire, al tatto i linfonodi mi appaiono più morbidi e piccoli: a conferma la Pet di dicembre 2005 rivela la scomparsa della malattia.

Purtroppo è soltanto una tregua: nell’ottobre 2006 le adenopatie riaffiorano. Prendo tempo, voglio valutare con calma ma la calma non ce l’ho, so anche che non sarei in grado di sopportare altro: ricoveri, chemio, trapianto… La risonanza magnetica è impietosa: il mio linfoma è tornato più maligno di prima, ora ha un’ aggressività impressionante. Torno allo Ieo sperando di poter testare altri anticorpi monoclonali ma le speranze – queste sì - si sciolgono subito come neve al sole: per me non c’è altro da fare che il trapianto.

Precipito nello sconforto. Sento diversi medici, c’è chi mi sconsiglia il trapianto perché “non porterebbe a risultati”, c’è chi mi dice che avrei dovuto fare un’altra chemio invece dell’ABVD… comincio a credere che ognuno vada a tentoni e io non ce la faccio più di tentativi. Decido di andare a Genova da un medico privato che, partendo dalla terapia Di Bella, ha messo a punto un suo protocollo.

Perché non sono andato a cercare la ‘pura’ terapia Di Bella? Per me questa era morta e fallita, tutti ne parlavano così e anch’io ricordavo quello che dicevano i telegiornali alla fine degli anni Novanta (poi non feci più caso a questa storia, vedevo il cancro distante da me anni luce…) . Lo specialista di Genova mi mostra la razionalità della terapia Di Bella da lui riveduta e corretta. Ammetto che durante il mio peregrinare da un medico all’altro rimanevo spiazzato quando pretendevo spiegazioni e mi sentivo rispondere che ‘la medicina non è una scienza esatta perché deve fare i conti con la variabile biologica’.

Tuttavia nemmeno questa si rivelò la mia ‘cura’.

Le Pet fino a gennaio 2008 mostrano un lento ma progressivo peggioramento.

E io volevo guarire e non vivacchiare…

Continuo a documentarmi, studio le pubblicazioni di Di Bella sulle malattie linfoproliferative, nel frattempo tento un’altra strada ufficiale. Mi presento all’istituto dei tumori di Milano: 15 minuti di visita e 240 euro di parcella, il dottore mi fa firmare la cartella sull’autotrapianto. Domando: che percentuale c’è di guarigione? Risposta: il 70%. Chiedo: ma 70% riferita ai linfomi di Hodgkin in generale o nel caso del mio sottotipo a predominanza linfocitaria che tutti, dall'inizio, mi hanno detto essere un po' particolare? Risposta: ‘Le statistiche sono fatte a livello generale, il suo linfoma potrebbe essere mutato in qualcosa di diverso, di misto’.

Stavo già dubitando di poter rientrare nel 70% di guarigione e chiedo: ‘Non sarebbe sensato fare prima una biopsia a un linfonodo per capire di cosa si tratta e poi decidere la strada terapeutica? Risposta: ‘Forse poi lo faremo ma adesso mi ascolti, morire alla mia età non è bello ma alla sua direi che non è il caso…’ Mi dice quindi che c'è un posto libero per la settimana successiva.

Firmo l'assenso al ricovero ma già cullo l'idea che non mi presenterò.

E’ domenica 8 febbraio 2009 quando mando una mail all’indirizzo trovato su internet. Mi risponde Giuseppe Di Bella, il 24 febbraio sono nel suo studio.

Dopo una lunga visita esco con la testa un po' frastornata e un lungo elenco di farmaci, alcuni galenici altri farmaceutici, da prendere a dosi e tempi ben stabiliti.
Sono pieno di dubbi e paure. Nella mia testa il tarlo si sta facendo largo ‘forse sto sbagliando, forse devo tornare in ospedale… qui così sono solo".

La prima volta che mi infilo l'ago della somatostatina nella pancia mi chiudo in bagno, da solo, mentre i miei figli e mia moglie sono a letto. Per la tensione, dopo essermi punto l'addome, mi sento svenire, mi devo sdraiare a terra per qualche minuto. Poi mi riprendo, vado a letto ma rimango sveglio tutta notte. L’angoscia mi sale dallo stomaco, penso ai miei figli, a mia moglie, ai miei genitori…piango mentre rifletto: chi mi perdonerebbe se dovesse finire tutto nel peggiore dei modi, io non mi perdonerei…

I giorni passano, dopo un mese mi sento già meglio. Dopo tre faccio la prima Pet. Quando il radiologo sente che cura sto facendo mi dà del pazzo, mi dice: ‘Io non me ne intendo ma per i miei colleghi oncologi, con i quali pranzo spesso, Di Bella è la Vanna Marchi della medicina’.

Con questo commento nella testa mi infilo nella Pet. A fine esame il radiologo dice testuale: ‘Non so che dirle, se per lei fosse il primo esame di questo tipo le direi di stare tranquillo, non ha niente (in realtà avevo ancora qualche linfonodo ingrossato, ma tre mesi prima ne avevo molti di più, più grossi e ‘captanti’, ossia pericolosi). Il radiologo prosegue: ‘Forse il suo non era un linfoma, o forse tutte le terapie che ha fatto si fanno sentire ora…’ Penso: chissenefrega se non riconosce che sto bene per la Di Bella, io mi sento in paradiso.

Sono cauto (già una volta ero stato bene per un intervallo di nove mesi) ma comincio a sentirmi forte e fiducioso. Continuo la cura Di Bella, nel dicembre 2009 gli esami confermano un’ ulteriore regressione della patologia.

Dentro di me si fa largo una considerazione: ‘allora c’è un rimedio al mio cancro…’

Oggi, siamo al dicembre 2011, sono ancora in cura, ma i dosaggi dei farmaci sono sempre più leggeri, faccio una risonanza magnetica ogni sei mesi che accerta ogni volta un progresso.

Mi sono ripreso in mano la vita, il cancro è una brutta bestia che forse ho trovato il modo di addomesticare, non soffro più da due anni, sono tornato spensierato, lavoro, mi godo la mia famiglia e il tempo libero. Ci tenevo a dirvelo”.
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04/02/2013 22:11

EVENTO : CONCERTO DEL 09.02.2013
Carissimi Amici di Ali di Scorta,

il prossimo 9 febbraio presso la sala Sinopoli, Auditorium Parco della Musica, si svolgerà il concerto di

Tifu & Romanovsky: "INSIEME - NOBILI ARMONIE", concerto di beneficenza organizzato da Niccolò Di Raimondo - Assessore alle Politiche Sociali e Servizio alla Persona del II Municipio di Roma.

Il ricavato totale della serata sarà devoluto a 5 Associazioni e tra queste la nostra.



I biglietti per ali di scorta :

settore A platea: n° 30 biglietti da euro 40,00

settore B platea: n° 30 biglietti da euro 30,00

settore B galleria (laterale): n°46 biglietti da euro 30,00

settore galleria: n° 30 biglietti da 20,00 euro



Per l'acquisto dei biglietti potete rivolgervi a me

Grazie. Silvia



Tel. 06-5748423 cell. 3337335757
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