00 24/07/2013 08:39
Risorgere dalle ceneri
L'industria chiamata calcio: pagano i ragazzi. La nostra analisi che spiega come il sistema sovraccarica di pressioni il mondo delle giovanili

di Nicola Cavaliere
In un'intervista di metà anni '90 all'incirca, Marco Simone, storico attaccante del Milan, compagno di reparto di George Weah, alla domanda di un giornalista in cui gli veniva chiesto “se avessi un figlio che vuole diventare calciatore, dove lo porteresti a giocare?” Rispose così: “All'oratorio vicino casa”. Quella frase raccoglieva l'essenza del gioco del calcio: divertimento, territorialità e se poi sei proprio un fenomeno non ti preoccupare, che tanto ti vengono a prendere. I giovani principalmente si dovevano dilettare dando due calci al pallone, e per farlo i genitori li portavano a scorazzare a poche centinaia di metri da casa. Tanto, se non tutto, girava intorno alle qualità del giocatore e alle capacità del dirigente di andare a pescare il talento anche in un campetto della chiesa di quartiere. Ne era convinto Marco Simone, che al tempo quando scendeva in campo con la maglia del Milan vestiva le Valsport bianche, il primo modello di scarpe da gioco non nere del campionato italiano, che al tempo fece scalpore quasi quanto il bacio tra Brezhnev ed il presidente della Germania dell'Est Honecker. Era convinto che il calcio in futuro non sarebbe cambiato così tanto dal suo. Dopo di lui, e delle sue calzature bianche, venne la volta delle Diadora rosse del suo amico e compagno di squadra George Weah... Forse Simone non lo sapeva, ma ai piedi portava una delle prime testimonianze del cambiamento del gioco più amato dagli italiani. Un gioco che aveva abbandonato le vecchie regole e che si accingeva a diventare ben altro.

Oggi Basta estrapolare il concetto espresso dall'ex giocatore rossonero, e applicarlo alla realtà odierna. Chi porterebbe ora il proprio figlio a giocare nel campo dell'oratorio? Senza ipocrisia vien da dire pochi, pochissimi anzi. Il perché è lungo da spiegare, ma di non difficile comprensione; per analizzare i motivi ci concentriamo sul momento storico in cui il calcio è definitivamente cambiato: non più solo un gioco, ma soprattutto un'industria che genera ricchezza e le cui scorie vengono scaricate nel mare aperto dei settori giovanili. Si potrebbe immaginare come un'organizzazione piramidale, che poggia tutto il suo peso sulla base. Quando abbiamo accennato alle prime scarpe da calcio colorate infatti, stavamo solo introducendo la valutazione sul business degli sponsor tecnici. Importantissimo per la mutazione di questo sport. Perché fino ai primi anni '90 a dettare legge erano ancora le società e i presidenti. Le scarpe erano nere, tutte; lo stile delle maglie restava pressapoco lo stesso con il passare delle stagioni. I giocatori non percepivano ancora stipendi multimilionari, e i ricchissimi contratti con i più famosi marchi di materiale sportivo, nonché quelli sui diritti di immagine, non erano per niente diffusi e comuni. Per la precisione, uno dei primissimi a gestire la propria immagine fu Diego Armando Maradona, quando sottoscrisse un contratto che lo legava alla Puma. Non uno qualunque, non una proposta per tutti. Tanto per capirci sin da subito, oggi gli sponsor tecnici propongono accordi ai giocatori delle giovanili. Che i tempi siano diversi lo si capisce da nolte cose: li Sindacato dei calciatori, l'Aic, nato a Vicenza nel 1968 da un gruppo di aclamatissimi calciatori, se lo poteva solo sognare di indire uno sciopero che avrebbe fatto slittare l'inizio della Serie A. Potremmo continuare a lungo, ma non ce n'è bisogno.

Figure nuove Oggi i diritti di immagine sono prerogativa delle trattative tra sportivi e società. Si stipulano i più bizzarri contratti pur di mangiare una fetta del ghiotto introito. La trattativa tra i club e l'atleta introduce uno dei punti chiave di questo pensiero, quella del procuratore o agente. Qui bisogna partire da un concetto fondamentale. I giocatori, i veri protagonisti di questo spettacolo, in realtà non erano ‘tutelati’ abbastanza ad inizio anni '90, ed effettivamente non erano retribuiti nella giusta maniera per la ricchezza che generavano. Nasce quindi questo nuovo personaggio, con il compito preciso di curare gli interessi economici dell'atleta. La FIGC nel 1991 stila il primo di una lunga serie di regolamenti sulla nuova figura. Il primo procuratore della storia, almeno stando a quanto dice nel suo libro 'Nessuno prima di me', è Antonio Caliendo, capace di salire alla ribalta della cronaca per il passaggio di Roberto Baggio dalla Fiorentina alla Juventus: era l'anno 1992-1993. Il cambio epocale del calcio però avviene nel 1995, e coincide con la sentenza Bosman emessa dalla Corte di Giustizia delle Comunità Europee, che stabilisce che i calciatori professionisti aventi cittadinanza dell'Unione Europea possono trasferirsi gratuitamente a un altro club alla scadenza del contratto con l'attuale squadra. Le società non devono più spendere soldi per assicurarsi il calciatore, ma possono acquisirne le prestazioni sportive senza spendere una lira se non quelle della retribuzione. E' il boom dei procuratori, che vista la situazione possono impugnare il coltello dalla parte del manico e scucire una cifra maggiore ai club per il passaggio del proprio assistito, vedendo aumentare di non poco la propria parcella. Così, la figura dell'agente, nata per assistere il calciatore diventa una delle più losche del movimento. Tra i tanti professionisti che lavorano in trasparenza e in onestà, cominciano ad insidiarsi personaggi poco raccomandabili, privi di scrupoli, che promettono la luna ai propri assistiti, a volte anche dietro un corrispettivo, ingannandoli e danneggiandoli.

La crisi Con i calciatori che cominciano a diventare star, con i procuratori che si moltiplicano e che cominciano a fatturare cifre da capogiro, e con le società che non sono più così forti nella loro posizione e che spesso si ritrovano ad incolpare gli stessi procuratori per qualche affare saltato, si procede a passi spediti verso i nostri giorni, i giorni della crisi economica che attanaglia la società italiana e di conseguenza il nostro sport preferito. Meno soldi e tanta gente che deve “mangiare” o che vuole continuarlo a fare nella stessa forma e nella stessa sostanza. Non ci sono più i trasferimenti milionari dei giocatori più affermati a livello internazionale. Non arrivano più i Van Basten, i Ronaldo, gli Ibrahimovic. Anzi, oggi gli affari alla Zidane, pagato poco e venduto a cifre astronomiche, sono l'ossigeno del nostro movimento quando prima erano un'incredibile eccezione. Infatti Cavani è solo uno dei tantissimi oramai che parte in cambio di un sostanzioso bottino. La plusvalenza è una parola d'ordine per tenersi in linea con le rigide regole del FIFA Fair Play. Le nostre società cominciano a investire sempre di più sui giovani calciatori, per lo più stranieri, perché a basso costo. La caccia al giovanissimo talento viene sdoganata nel 1999, quando un osservatore del Torino scova a Secondigliano, in provincia di Napoli, Vincenzo Sarno. Tutti i mass media riportano la improbabile notizia. Il ragazzo, classe 1988, viene pagato 120 milioni di lire più o meno, e si trasferisce in Piemonte. Un'esperienza troppo difficile per un bimbo di 11 anni, che dopo poco più di un mese torna a casa dalla sua famiglia.

Veniamo a noi Quattordici anni dopo ormai, è una prassi quotidiana quella di vedere un adolescente preparare la valigia e partire a caccia della propria fortuna. Il nostro giornale riceve tantissime segnalazioni di ragazzi che si avventurano e sono disposti anche a varcare i confini nazionali. E ce n'è per tutti i gusti, dal giocatore della Juniores Provinciale, al pulcino che dovrà aspettare ancora qualche anno per scolgere attività agonistica. Se volessimo metterci a fare esempi di giocatori giovanissimi, e strapagati, potremmo riempire qualche pagina; basterà farne uno, l'ultimo, quello di Hachim Mastour, classe 1998 accasatosi al Milan. Il ragazzo viene prelevato dalla Reggiana all'età di 8 anni, quando milita nella US Reggio Calcio. Lo seguono in tantissimi, addirittura si vocifera di un'interessamento dei marpioni delle società inglesi, che in quanto a “ratto di talenti italiani” se ne intendono. E' l'Inter a strappare la promessa di avere il ragazzo quando ha ancora 12 anni, ma viste le regole sul tesseramento degli Under 14 fuori regione, si vede costretta a lasciarlo in Emilia. Gioca lo Ielasi a Roma, torneo organizzato dalla Tor Tre Teste, con la maglia nerazzurra. Stupisce tutti con le sue giocate pazzesche; si parla del '98 più forte del pianeta, categoria Giovanissimi Fascia B. In estate sembra scontato il passaggio ai nerazzurri, ma si inserisce il Milan che si accorda con la famiglia e con la Reggiana per la cifra di 500 mila euro tra i vari bonus, fino all'eventuale debutto. Mezzo milione di euro per un ragazzo al suo primo anno di agonistica.

La situazione Comincia ad essere chiaro ora, illustrato a grandi linee il quadro della situazione, quello che sta succedendo. Il sistema, impoverito, genera una “pressione a scalare”. I grandi club hanno meno soldi ma devono andare avanti e inventarsi qualcosa per uscire dalla difficoltà: scouting è un'altra parola d'ordine per le società italiane. I procuratori, aumentati a dismisura, per riuscire a lavorare devono adeguarsi ai tempi che corrono e alle richieste del mercato, andando a “prendersi” i giocatori quando ancora sono adolescenti nella speranza che al più presto firmino un contratto da professionisti e sperando allo stesso tempo, che uno dei big del mondo degli agenti non sia così furbo da soffiarglielo. Quindi si va a scavare fino all'attività agonistica delle società dilettantistiche. Ma se fino a qualche anno fa il “sistema del premio di preparazione” ingolosiva il mondo dei dilettanti, ora “girano meno liquidi” e le cose sono cambiate. Con le professioniste meno “generose”, per aumentare gli introiti e poter tenere in vita l'attività, le società dilettantistiche devono puntare tanto sulle iscrizioni alla Scuola Calcio. Due piccioni con una fava, la possibilitàdi un giovanissimo talento alla Mastour, e soldi provenienti dalla rata annuale che i genitori pagano per permettere al proprio figlio di giocare. Ma dove vogliono andare a giocare i piccoli e gli adolescenti che sognano di diventare calciatori? Nelle squadre che vincono e che rappresentano più di altre una rampa di lancio verso il professionismo. E' come un'equazione, una cosa abbastanza ovvia nel mondo del calcio: più il club vince, più sono i suoi giocatori che sbarcano nei prof, più sono i giovani che vogliono vestire quella maglia. Uguale, più soldi.

Ripercussioni Le conseguenze di questo sistema sono catastrofiche, e le vittime sono sempre i “civili”. Ci sono ragazzi che sacrificano tutta la loro adolescenza per giocarsi la possibilità di sfondare, di fare la vita del calciatore. Illusi troppo spesso dalle promesse di affabulatori, sognano soldi, belle macchine, e una professione da far invidia a tutti. Milioni di euro per giocare a calcio... Il tutto purtroppo si ripercuote su di loro, sui ragazzi. E questo è uno dei motivi per cui la violenza, anche nei campionati Elite, cresce sempre di più. Il carico di aspettative, dopo tanti anni passati a calcare campi di calcio, viene esasperato. Loro sono le prime vittime. I secondi sono i genitori, che ahimè, potrebbero sicuramente fare qualcosa di più. Non deve essere semplice ritrovarsi nel mare aperto del Settore Giovanile, circondato da tanti squali pronti a offrirti la luna se tuo figlio se la cava con il pallone in mezzo ai piedi. A volte però sarebbe meglio evitare di assecondare e caricare di aspettativa il sogno di un ragazzo che deve ancora assaporare appieno il senso dell'esistenza. Ma non puntiamo il dito contro; nonostante tante volte sulle nostre pagine siano stati denunciati comportamenti violenti da parte di qualche genitore. Poi ci sono gli allenatori, anche loro ne pagano le conseguenze. Anche loro sognano di diventare i nuovi Mourinho. E si continua a salire, sempre più su, passando per i dirigenti, per i presidenti, fino a tornare di nuovo alla punta della piramide. Ma lì in cima, forse, lo scotto costa qualcosa meno, rispetto al prezzo che paga un giovane che sogna di fare il calciatore e dovrà poi assicurarsi un futuro qualora le cose dovessero andare male.

La conclusione Non c'è da scandalizzarsi per quanto detto sinora, quello che importa è solo esserne coscienti. Questo è il calcio di oggi, non più uno splendido gioco, ma un'industria che genera ricchezza e che come ogni altra industria sta soffrendo le conseguenze della crisi. Chi vuole farne parte, sin dal primo giorno in cui porterà il suo piccolo su un campo di calcio, deve essere consapevole a ciò a cui va incontro. La consapevolezza prima di partire, permette di essere più obiettivi poi con se stessi. Dopo tante parole quindi, porgiamo a voi la domanda: “Se aveste un figlio che vuole diventare calciatore, dove lo portereste a giocare?”