STORIE DI CALCIO

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mauretto58
00giovedì 24 settembre 2009 23:24
Racconti di calcio ed extra
Fashanu: quando il coraggio non basta

“Non voglio dare altri motivi di imbarazzo ai miei amici ed alla mia famiglia […] Spero che il Gesù che amo mi accolga e che io possa infine trovare la pace” (Justin Fashanu, nel biglietto trovato sul suo corpo).



“Penso che abbia, anzi che abbiamo creato una situazione in cui lui sia stato isolato. Non credo che noi avessimo accettato il fatto che lui fosse gay. E quando dico ‘noi’ sto probabilmente cercando di difendermi dal dire ‘io’”. (John Fashanu, in un’intervista dopo il suicidio del fratello).




Justin Fashanu nasce il 19 febbraio 1961 nella zona est di Londra dalla guyanese Pearl e dal nigeriano Patrick. Quando i suoi genitori divorziano Justin, assieme al fratello John (di un anno più giovane), viene collocato in un orfanotrofio facente riferimento ad un’associazione caritatevole inglese. In un secondo momento i due fratelli, che all’epoca hanno rispettivamente 6 e 5 anni, vengono affidati ad una famiglia della middle-class inglese residente nel Norfolk che li adotta e li cresce.


Il piccolo Justin ha iniziato a tirare i primi calci al pallone sin da quando può reggersi in piedi e le sue qualità di attaccante lo segnalano all’attenzione del Norwich City, che lo tessera prima nella squadra giovanile e nel 1978 gli fa firmare il primo contratto professionista. Poco dopo, all’inizio del 1979, Fashanu fa il suo esordio in campionato, conquistandosi il posto da titolare a suon di gol. Nel 1980 la sua carriera raggiunge l’apice. Nella partita vinta contro il Liverpool segna infatti una rete spettacolare, che a fine stagione gli varrà il premio assegnato dalla BBC per il gol dell’anno. Il gol ai Reds, insieme agli altri 39 segnati nelle 103 presenze con la maglia dei Canaries, porta definitivamente il suo nome alla ribalta nazionale, tanto che l’estate successiva Brian Clough decide di portarlo al Nottingham Forest sborsando una cifra record. Fashanu diventa infatti il primo giocatore di colore ad essere pagato un milione di sterline e, scherzo del destino, al Forest si trova ad ereditare la maglia numero 9 di quel Trevor Francis che due anni prima era stato il primo giocatore inglese a superare tale spesa.


Le contemporanee apparizioni di “Fash” nella nazionale inglese Under 21 fanno presagire una scintillante carriera per l’attaccante – le cui orme il fratello John sta nel frattempo seguendo con la maglia del Norwich – ma proprio dal trasferimento a Nottingham prende avvio l’inizio della fine.

I rapporti con il tecnico s’incrinano infatti ben presto, in parte per il magro rendimento dell’attaccante ed in parte a causa delle voci che aleggiano sulla vita privata di Justin. Nonostante sia fidanzato con una ragazza, infatti, la sua frequentazione di locali notturni per omosessuali non manca di suscitare l’attenzione dei pettegoli media britannici, ed anche il suo allenatore sembra poco entusiasta, per usare un eufemismo, dell’immagine offerta dal giovane bomber. Il fatto che sia stato il primo a spendere 1 milione di sterline per un giocatore di colore non vuol dire che Clough sia immune da pregiudizi, e lo dimostra attaccando senza mezzi termini quello che definisce esplicitamente un “fottuto finocchio”.


Le aspettative per la definitiva esplosione della sua carriera sarebbero già sufficienti a mettere sotto pressione un giovane di vent’anni, la pesante atmosfera causata dal ‘gossip’ sulla sua vita privata rappresenta un ulteriore ostacolo di cui Fashanu farebbe volentieri a meno. Le sue prestazioni sul campo non possono che risentirne ed i soli 3 gol segnati in 32 presenze non sono certo un buon modo per indurre Clough (a sinistra) a cambiare opinione. Il tutto senza dimenticare il razzismo di molte tifoserie, che, oltre ai beceri cori di rito, giungono al punto di lanciare banane in campo quale ultimo gesto di sberleffo.

Attenuanti a parte, la sostanza è che Clough ne ha abbastanza ed appena se ne presenta l’occasione (l’estate successiva) lo scarica in prestito al Southampton, dove gioca poco, 9 partite, ma va a segno 3 volte. Tanto basta per suscitare l’interesse del Notts County, che lo acquista dai concittadini del Forest per sole 150.000 sterline. Con la maglia delle ‘gazze’ trascorre due anni e mezzo, gioca 64 partite e segna 20 reti, ma soprattutto subisce un infortunio che darà un ulteriore spinta verso il baratro alla sua carriera. Nella partita dell’ultimo dell’anno nel 1983 Fashanu viene infatti colpito al ginocchio da un avversario, i cui tacchetti gli provocano una serie ferita che stenta a guarire.

Nel frattempo Fashanu ha raggiunto una maggiore consapevolezza riguardo alla propria sessualità, ma il timore di uscire allo scoperto gli impedisce di ammettere pubblicamente la realtà delle cose, nonostante i pettegolezzi al riguardo siano già da tempo in circolazione. Justin decide così di cercare consolazione nella Chiesa evangelica, a sua volta ben poco aperta – per non dire in condizione di aperta condanna – verso l’omosessualità, che lo spinge a rifiutare le proprie inclinazioni e a tentare invano di instaurare relazioni sentimentali con delle donne. Il suo comportamento in campo e fuori non può che risentirne, così Fashanu prosegue la sua inesorabile discesa.


Nell’estate del 1985 è il Brighton & Hove Albion a pagare 115.000 sterline per assicurarsi le sue prestazioni, ma dopo solo 16 partite (e 2 gol) la ferita al ginocchio si infetta e ne mette a serio rischio la carriera. “Fash” è costretto a lasciare la costa sud dell’Inghilterra ed a volare negli Stati Uniti per sottoporsi ad un intervento chirurgico. Dopo alcuni anni, siamo nel 1988, può considerarsi di nuovo un calciatore, con la maglia dei Los Angeles Heat prima e degli Edmonton Brickmen poi, riprendendo anche confidenza con il gol.

La voglia di riscatto e la consapevolezza di poter ancora dare molto al calcio lo spingono a tornare in Inghilterra, dove diverse squadre sembrano disposte a concedergli un’opportunità. La prima è il Manchester City, ma le cose non vanno bene. Justin ci prova così col West Ham, ma non va meglio. Poi tocca all’Ipswich Town e poi al Leyton Orient. Nel 1990 è così costretto ad accettare la proposta dei dilettanti del Southall, che gli offrono il doppio ruolo di allenatore-giocatore.



È in questi momenti, probabilmente rendendosi conto che il grande treno non passerà comunque più, che Fashanu trova il coraggio, o la rassegnazione, di ammettere pubblicamente la propria omosessualità. Così il 22 ottobre del 1990 “The Sun” pubblica in esclusiva l’intervista con la sconvolgente notizia. Forse Justin spera di essere d’esempio per le numerose celebrità – tra cui, a suo dire, anche altri dodici calciatori professionisti – che ancora tengono nascosta la propria omosessualità, ma nessuno lo segue e lui si trova ad essere il primo, e finora unico, giocatore inglese a dichiararsi gay e subisce da solo tutte le conseguenze del caso. Le prime critiche che lo colgono riguardano il perché si sia affidato, per pubblicare tali rivelazioni, ad un quotidiano disposto sì a pagare parecchio per ottenere simili esclusive, ma appartenente non a caso a quel genere di stampa popolare considerata scandalistica e di infimo livello. “Ho pensato sinceramente che se mi fossi dichiarato sui peggiori giornali, e fossi al tempo stesso rimasto forte e positivo riguardo al fatto di essere gay, questi non avrebbero avuto più nulla da dire in merito” si difende il calciatore. Nulla di più ingenuo, col senno di poi. Di certo, infatti, se l’ex astro nascente del calcio britannico sperava in questo modo di trovare qualche sollievo ai propri tormenti, fare ‘outing’ si rivela una pessima mossa, anche se lui in seguito negherà di essersene mai pentito: il fratello John lo rinnega pubblicamente e la comunità nera britannica decide di dimenticarsi il significato della parola discriminazione definendolo un “patetico ed imperdonabile affronto per tutta la comunità”. Anche gli amici, compresi quelli di vecchia data, smettono di richiamarlo al telefono, il tutto mentre la stampa lo crocifigge costruendo quante più storie ed illazioni possibili. Justin finisce così per ritrovarsi ancora più solo e disperato di prima.


Finita la stagione calcistica in Europa, Fashanu torna oltreoceano per indossare la maglia dei Toronto Blizzard, salvo tornare in Inghilterra per aggregarsi ai dilettanti del Leatherhead. Poco dopo, siamo nell’ottobre del 1991, un provino per il Newcastle gli offre l’ultima illusione di rientrare nel calcio che conta dalla porta di servizio, ma la speranza svanisce presto e l’attaccante si ritrova a giocare nel Torquay United, squadra di terza divisione e comunque meglio dei dilettanti. Nonostante la retrocessione della squadra, Fashanu dimostra di essere tornato in forma e convince così la dirigenza ad affidargli l’incarico di allenatore-giocatore. Nel 1992-93 il Torquay sfiora la finale dei play-off promozione perdendo 4-1 a Preston dopo aver vinto l’andata per 2-0.


Fashanu cambia aria e si trasferisce a nord, in Scozia, precisamente ad Airdrie dove, con la maglia degli Airdrieonians, segna 5 gol in 16 partite. Dopo non molto si sposta di nuovo per tentare l’avventura in Svezia con il Trelleborg, ma altrettanto velocemente fa ritorno in Scozia, dove viene arruolato dagli Hearts of Midlothian, con la cui maglia granata ha tempo di scendere in campo 11 volte e di andare a segno in una occasione. Poi il suo comportamento extrasportivo comincia ad andare decisamente oltre il limite dell’accettabile ed i giornali scandalistici acquistano dal suo agente storie sul coinvolgimento di personaggi del mondo politico in rapporti omosessuali con lo stesso Fashanu. Le rivelazioni potrebbero provocare un vero terremoto politico se non si rivelassero false e costruite ad arte per spillare soldi ai tabloid. Nell’aprile del 1994, l’aver tirato in ballo Stephen Milligan (membro del Parlamento trovato morto due mesi prima in seguito ai tragici esiti di un tentativo di asfissia autoerotica) in una di queste storie si rivela fatale per Justin, che viene cacciato dagli Hearts per comportamento disonorevole. Chi lo conosce personalmente attribuisce simili scompensi alle discriminazioni subite, ma quel che conta è che comportamenti stravaganti come questo, o come la breve relazione con la chiacchierata attrice Julie Goodyear (a sua volta omosessuale, o quantomeno bisessuale, dichiarata), gli regalano fiumi d’inchiostro sulle pagine dei tabloid, ma non lo aiutano certo a recuperare presso l’ambiente calcistico quel credito ormai irrimediabilmente compromesso.

Fashanu per trovare un ingaggio è così costretto a volare di nuovo oltre un oceano, questa volta quello Indiano, dove gioca diciotto partite – con undici gol – con i Miramar Rangers di Wellington, Nuova Zelanda. Nel 1997 è di nuovo negli Stati Uniti, dove è arruolato dagli Atlanta Ruckus. Quando entra in contrasto con la dirigenza per questioni contrattuali, Fashanu decide di averne abbastanza ed appende definitivamente le scarpette al chiodo, spostandosi nel Maryland, dove il presidente di una nuova squadra, il Maryland Mania Club, gli offre la panchina. La squadra si sta preparando a competere nella seconda divisione di un paese nel quale il calcio ha tentato di affermarsi diverse volte in passato, anche con il patrocinio di grandi campioni, ma sempre invano. Non si tratta quindi del massimo da un punto di vista professionale, ma è altrettanto vero che Justin sembra aver finalmente trovato un angolo di pace, lontano da quell’Inghilterra che lo ha rinnegato, con nuovi amici e con una dirigenza soddisfatta del suo lavoro di tecnico. Sembra. In realtà è solo la quiete prima della tempesta finale. I primi venti minacciosi cominciano a spirare il 25 marzo 1998, quando un ragazzo diciassettenne del luogo telefona alla polizia affermando di essersi risvegliato, dopo una notte di baldoria, nel letto di Fashanu, mentre questi stava abusando sessualmente di lui.
Il giocatore viene ovviamente interrogato dagli inquirenti, cui appare sorpreso, rinnega le accuse a proprio carico e si dichiara disposto a sottoporsi al test della “macchina della verità” ed a fornire campioni di sangue quando sia necessario. Constatata la sua disponibilità a collaborare e visto che, dichiarazioni del ragazzo a parte, non sussistono al momento altre prove del crimine, la polizia non ritiene necessario l’arresto preventivo.

A quel punto però, il fatto di trovarsi a fronteggiare un’accusa grave come quella di violenza sessuale su un minore appartenendo contemporaneamente a due categorie allora quasi universalmente discriminate come quella degli omosessuali e quella dei neri, senza contare tutte le aggravanti del caso (consumo di marijuana, reperimento di bevande alcoliche a favore di minorenni, per non parlare della legge che al tempo in molti stati degli USA proibisce la sodomia ed i rapporti orali anche all’interno del matrimonio) fa probabilmente precipitare Justin nel panico. E così, il 3 aprile successivo, quando la polizia si reca nel suo appartamento per sottoporlo a perquisizione scopre che Fashanu lo ha abbandonato il giorno dopo l’interrogatorio, per fuggire e fare ritorno in Inghilterra.

In patria vive in stato di clandestinità usando il cognome da nubile della madre e cerca invano di contattare vecchi amici per difendersi dal polverone che si sta scatenando su di lui. Chiama il suo ex agente sostenendo di essere stato incastrato e chiedendogli di vendere l’esclusiva alla stampa, ma questi non lo richiama più.

Il 2 maggio si reca al Chariots Roman, una sauna gay nel quartiere londinese di Shoreditch, nei pressi di Liverpool Street. Il proprietario della sauna si rifiuta in seguito di rivelare particolari sulla visita di Fashanu, preferendo tutelare l’immagine di riservatezza e discrezione offerta dal proprio esercizio piuttosto che intascare i soldi dei tabloid. Tuttavia frequentatori del Chariots assicurano di averlo visto di buon umore e per nulla depresso dalla situazione che sta vivendo.

John Fashanu ha in seguito raccontato in un’intervista di aver ricevuto una chiamata al cellulare quella sera, di aver sentito il respiro della persona in silenzio all’altro capo del telefono e, una volta intuito che si trattava del fratello, di aver riattaccato seccato.

Potrebbe essere l’ultimo tentativo di cercare aiuto da parte di Justin, che il giorno dopo, è il 3 maggio 1998, viene trovato impiccato con un cavo elettrico all’interno di un garage semi-abbandonato poco lontano dalla sauna. Le indagini stabiliscono che l’ex calciatore vi si è introdotto subito dopo aver lasciato il Chariots e si è suicidato. Nel biglietto ritrovato sul suo corpo, Fashanu spiega di essere arrivato al tragico gesto una volta resosi conto di essere stato già giudicato colpevole per il caso di stupro ancora prima dell'inizio del processo. Nel breve messaggio dà anche la propria versione su quanto accaduto nel suo appartamento nel Maryland, secondo la quale il rapporto sessuale ci sarebbe stato, ma con il consenso del giovane, che al mattino avrebbe chiesto dei soldi in cambio del silenzio su quanto accaduto. Ricatto al quale Justin si sarebbe rifiutato di cedere andando incontro, secondo la sua difesa postuma, alla ritorsione sotto forma di accusa di violenza sessuale.

La sua controversa vicenda, come sempre accade, lascia spazio alle reazioni più variegate: dal dolore e dalle accuse di coloro che lo considerano un martire nella lotta alle discriminazioni all’indifferenza – che sa molto di sollievo - di quanti, come ad esempio l’intero movimento calcistico inglese, lo vedevano come motivo d’imbarazzo. Al rimorso di un fratello, John, che dopo averlo rinnegato ed avergli tolto la parola per anni, si trova davanti alle drammatiche conseguenze dei propri gesti.

Tuttora c’è chi difende Justin attribuendo tutte le sue colpe – oltre che le sue sventure – ai condizionamenti subiti a causa del razzismo e dell’omofobia; c’è chi ricerca le motivazioni dei suoi scandalosi exploit nelle difficili condizioni affettive che era stato costretto ad affrontare da piccolo; c’è chi è sicuro della sua innocenza rispetto alle accuse di stupro ed addirittura propone delle ipotesi complottistiche in merito alla morte di “Fash”; c’è chi ritiene che il suicidio non sia stato altro che l’estrema fuga dalle proprie colpe.


A dieci anni di distanza, senza mezzi adeguati e soprattutto in una sede non adeguata, è pressoché inutile cercare di stabilire in quali circostanze Justin Fashanu abbia sbagliato per colpe proprie e in quali sia stato vittima incolpevole di situazioni avverse. Altrettanto inutile è perdersi in voli pindarici chiedendosi quali obiettivi avrebbe potuto raggiungere in un mondo più giusto o cercando di stabilire il coefficiente di incidenza delle discriminazioni subite sull’evolvere della sua carriera o ancora chiedendosi se con un carattere più forte e con spalle un po’ più larghe non avrebbe affrontato più convenientemente gli ostacoli incontrati.

Quello che appare oggettivo, oltre le singole interpretazioni, è che l’astro nascente del calcio inglese si sia trovato ad affrontare come avversari più pericolosi non la pressione delle aspettative o le scivolate dei difensori avversari quanto piuttosto il razzismo e l’omofobia. E che, al momento di confessare la propria omosessualità, si sia visto rinnegare da chiunque, abbandonato da un intero movimento calcistico, da amici e familiari. Il fatto che la sua carriera avrebbe potuto ugualmente portarlo a militare tra i dilettanti prima di avere trent’anni è materia di supposizioni indimostrabili, i fatti di cui sopra non lo sono. E, purtroppo, è già abbastanza per rendere quella di Justin Fashanu una storia in cui il calcio ha perso.

mauretto58
00giovedì 24 settembre 2009 23:50
LA PARATA DEL SECOLO


Il 7 giugno 1970 a mezzogiorno si gioca allo stadio Jalisco di Guadalajara una partita destinata ad entrare nella storia del calcio indipedentemente dal fatto che ad affrontarsi ci siano i fortissimi brasiliani trascinati da Pelè – e destinati a vincere quella Coppa del Mondo – e gli inglesi campioni del mondo in carica.

A difendere la porta dell’Inghilterra c’è Gordon Banks, allora 33enne portiere dello Stoke City, ma già protagonista con le maglie di Chesterfield e Leicester City, oltre che con quella della nazionale ai precedenti Mondiali, giocati e vinti in casa. Per contro l’attacco dei verdeoro è guidato dalla stella del Santos Pelè, il calciatore riconosciuto come il più forte di tutti i tempi.

La partita viene decisa al 59’ da una rete dell’ala Jairzinho, che varrà ai sudamericani il primato a punteggio pieno nel gruppo 3 della prima fase dei Mondiali, ma allo stesso tempo non impedirà agli inglesi di passare il turno in qualità di secondi classificati.

Non è ad ogni modo il risultato finale né l’andamento dell’incontro a restare impresso nella memoria di chi ha assistito a quel match, bensì un momento preciso, una scintilla durata qualche decimo di secondo e scaturita dalla “collisione” tra il talento di Pelè e gli straordinari riflessi dell’estremo difensore avversario, istantanea destinata a rimanere scolpita come la “parata del secolo”.

Il momento è all’incirca tra il decimo minuto ed il quarto d’ora del primo tempo, a reti ancora inviolate. L’azione parte da Carlos Alberto, che lancia rasoterra sulla destra per il rapido ed imprevedibile Jairzinho, il quale a sua volta mette fuori causa Terry Cooper, terzino sinistro inglese e suo diretto avversario. Gordon Banks a questo punto vede l’avversario avanzare minaccioso e si porta a ridosso del palo alla propria sinistra coprendo così lo spazio ad un’eventuale conclusione a rete del verdeoro. Il numero 7 brasiliano, però, decide altrimenti e piazza un perfetto cross al centro, prendendo in controtempo il portiere, che deve così tornare sui propri passi, seguendo con lo sguardo la parabola che si dirige verso Pelè. L’attaccante è ben piazzato ed ha la meglio sul proprio marcatore, colpendo la sfera con la testa. La conclusione, diretta verso l’angolino basso alla destra di Banks, è discretamente forte e resa ancor più pericolosa dal rimbalzo a terra qualche decina di centimetri prima della linea di porta. La leggenda vuole che Pelè stia già esultando quando l’estremo difensore inglese compie l’inaspettato: con un formidabile colpo di reni Banks allunga la mano quel tanto che basta a modificare la traiettoria del pallone, che s’impenna ed esce oltre la traversa, sfiorando l’incrocio dei legni. L’attaccante brasiliano in un primo momento resta paralizzato dallo stupore, ma poi applaude l’impresa dell’avversario, che avrà modo di definire come “la più incredibile parata che abbia mai visto”.

Anche se in ambito calcistico stilare graduatorie che non siano rigidamente stabilite dai numeri resta un’attività estremamente opinabile, non c’è dubbio che l’istinto mostrato da Banks in questo preciso frangente, valga al portiere inglese l’imperitura fama presso gli appassionati di calcio. Il gesto compiuto in risposta al colpo di testa di Pelè viene infatti unanimemente riconosciuto come la “parata del secolo” e lo stesso brasiliano ha inserito colui che sventò il suo gol nella lista dei cento più grandi calciatori viventi, commissionatagli dalla FIFA. Banks è stato inoltre nominato terzo miglior portiere del XX secolo – dietro a Lev Yashin e Dino Zoff – dall’IFFHS (la Federazione Internazionale di Storia e Statistica del Calcio) e un sondaggio tra tifosi lo ha indicato come il più forte estremo difensore inglese di sempre. Nel 2002 è stato tra i primi ad inserito nella Hall of Fame del calcio inglese.

La sua carriera purtroppo non può godere a lungo della considerazione derivatagli da quella incredibile parata in parte perché l’età lo mette in situazione di svantaggio rispetto all’emergente Peter Shilton, ma soprattutto per l’incidente automobilistico che nel 1972 priva della vista il suo occhio destro.



mauretto58
00giovedì 24 settembre 2009 23:55
MANCHESTER UNITED : QUANDO LA MEMORIA NON HA PREZZO . O FORSE SI.......


Il Manchester United di fine anni ’50 è una squadra sorprendente, costruita da giovanissimi talenti scoperti da Matt Busby (a sinistra) – da cui il soprannome di “Busby Babes” - senza bisogno di spendere cifre esorbitanti e capace di vincere, nonostante l’inesperienza e la giovane età, due campionati nazionali di fila nel 1956 e 1957. Nel 1957 l’avventura in Coppa dei Campioni si conclude in semifinale contro il Real Madrid ed anche la conquista della prestigiosa FA Cup sfuma in finale contro l’Aston Villa, per cui la stagione successiva inizia con grandi ambizioni da parte dei ragazzi di Manchester, che puntano a fare bottino pieno ed a consacrarsi definitivamente come una squadre più forti del mondo. Tutto inizia nel migliore dei modi: in testa al campionato, i “Busby Babes” avanzano anche nelle coppe, tenendo fede ai propositi di rivincita, ma le cose andranno diversamente.


Il 6 febbraio 1958, dopo la partita di Coppa giocata a Belgrado contro la Stella Rossa e conclusasi 3-3 con passaggio del turno, i giocatori del Manchester United s’imbarcano sullo stesso aereo che il lunedì precedente lì ha portati in Yugoslavia. Il volo fa scalo a Monaco di Baviera, dove è in corso una tempesta di neve, per effettuare il rifornimento previsto prima di riprendere il viaggio per l’Inghilterra. Pare che il pilota ritardi la partenza, oltre che per le condizioni metereologiche, anche per verificare il funzionamento di uno dei motori, che lo preoccupa. Alla fine decide di decollare, ma per ben due volte non ci riesce a causa del fango formato dalla neve sulla pista. Al terzo tentativo l’aereo va oltre la fine della pista e urta una casa con un’ala, compie una brusca rotazione verso destra e si schianta contro un altro edificio, adibito a deposito di pneumatici e carburante, prendendo fuoco.


Nell’impatto muoiono otto giornalisti, tre dirigenti del club, due membri dell’equipaggio e due altri passeggeri. Oltre a loro perdono immediatamente la vita sette giocatori del Manchester: Mark Jones (24 anni), Eddie Colman (21), Tommy Taylor (26), Liam Whelan (22), David Pegg (22), Geoff Bent (26) ed il capitano Roger Byrne (28). L’ottavo dei Busby Babes a morire a causa dello schianto sarà Duncan Edwards (21), ritenuto una delle più grandi promesse del calcio britannico, che si spegnerà due settimane più tardi per le ferite riportate.


Le condizioni di molti feriti sono disperate, su tutte quelle di Busby che, nonostante le trasfusioni di sangue subite in ospedale, sembra ormai destinato a spegnersi come già successo ad otto dei suoi ragazzi, tanto che in ben due occasioni gli viene impartita l’estrema unzione. Nonostante queste scarse speranze, il manager dello United si riprende e, dopo mesi di ospedale, può finalmente riprendere le redini del club. La ricostruzione passa attraverso il recupero di alcuni giocatori sopravvissuti all’incidente aereo, Bobby Charlton su tutti, e su nuovi talenti, tra cui Nobby Stiles, Denis Law e George Best. Anche se il nomignolo di “Busby Babes” è stato rispettosamente accantonato e ora i ragazzi in maglia rossa si fanno chiamare “Red Devils”, la nuova formula pare funzionare quanto quella vecchia e nel 1968, dieci anni dopo, il Manchester United riprende quel cammino che il destino aveva tragicamente interrotto, conquistando la Coppa dei Campioni a Wembley contro il Benfica di Eusebio.


La memoria dei “Busby Babes” è stata onorata in diversi modi dalla dirigenza del Manchester United, in particolare in occasione dei vari anniversari della tragedia. Sui muri dell’Old Trafford è stata apposta una targa commemorativa ed il famoso “Munich Clock” (a sinistra).



Lo scorso 6 febbraio ricorreva il 50esimo anniversario dell’incidente, che lo United ha deciso di ricordare indossando, in occasione della più vicina partita casalinga di campionato, una speciale divisa commemorativa identica a quelle utilizzate a fine anni ’50: calzettoni neri, calzoncini bianchi e maglia rossa con numeri progressivi dall’1 al 16 bianchi senza nomi dei giocatori, senza stemma o altra effige sulla maglia, sponsor ufficiale e tecnico inclusi. A chi additava tale scelta come astuta mossa per incrementare il merchandising, la dirigenza dei Red Devils ha risposto non mettendo sul mercato la speciale divisa e producendola esclusivamente per i giocatori che Sir Alex Ferguson avrebbe poi diviso tra campo e panchina.






Molte preoccupazioni c’erano sull’atteggiamento che avrebbero mostrato i tifosi avversari nei confronti della commemorazione, considerato che la gara di domenica non si giocava contro una squadra qualunque, ma contro i rivali cittadini del City. Fortunatamente il rispetto ha prevalso sul tifo da parte dei Citizens ed il minuto di silenzio è stato onorato in modo impeccabile.






A mostrare decisamente meno rispetto sono stati, paradossalmente, alcuni tifosi dello United che, nonostante la richiesta di non lucrare sugli oggetti commemorativi gratuitamente distribuiti in occasione dell’evento (tra cui sciarpe e copie del programma del match contro lo Sheffield Wednesday, primo incontro disputato dopo il disastro aereo), hanno prontamente messo in vendita su E-Bay i cimeli ricevuti costringendo il noto sito di acquisti online a sospendere le aste in questione in quanto contrarie alle norme etiche che ne regolano le transazioni.

mauretto58
00venerdì 25 settembre 2009 01:36
DARI GRADI : ITALIANO D'INGHILTERRA

"Sono venuto nella squadra giusta, al momento giusto e con la gente giusta. Gli stessi dirigenti che sono qui oggi c'erano anche quando sono arrivato e non avevano nessuna ambizione di raggiungere gli obiettivi che abbiamo centrato. E il fatto che li abbiamo raggiunti insieme ci dà un grande senso di realizzazione" (Dario Gradi).

"Dario ha fatto un grande lavoro al Crewe e si è dimostrato essere uno dei nostri migliori allenatori" (Sir Bobby Robson).




Quando si parla di italiani nel mondo del calcio inglese di questi tempi la mente non può che correre all’affascinante avventura che attende Fabio Capello alla guida della nazionale dei tre leoni, così come in anni passati i nostri punti di riferimento nel football d’Oltremanica erano Gianfranco Zola e Gianluca Vialli. Eppure, da molto prima che il Chelsea facesse da esempio agli altri club nell’aprire metaforicamente le porte del proprio stadio al Belpaese, c’era un italiano che in Inghilterra ci lavorava, costruendosi, mattone dopo mattone, un proprio invidiabile primato. Si tratta di Dario Gradi, poco conosciuto in Italia, dove pure è nato, precisamente a Milano, l’8 luglio 1941. In realtà con il nostro paese il rapporto è esclusivamente anagrafico visto che all’età di quattro anni, perso il padre (italiano), la madre (inglese) decide di fare ritorno in Gran Bretagna ed è lì che Gradi cresce ed entra in contatto con quello che sarà il suo futuro, il calcio.




L’esperienza sul campo non è delle più esaltanti ed infatti il giovane Gradi non va oltre la militanza nel Sutton United e nel Totting & Mitcham. Mentre frequenta l’Università di Loughborough gioca nelle selezione dell’istituto, squadra a cui prende parte anche Bob Wilson, futuro portiere dell’Arsenal. E forse è proprio mentre studia per diventare insegnante di educazione fisica che matura l’idea di passare sull’altro lato della linea laterale, nonostante sia ancora molto giovane.

E così nel 1971, quando non ha ancora 30 anni, viene assunto dal Chelsea come assistente allenatore. Negli anni seguenti lascia i Blues per avere il ruolo di allenatore vero e proprio e gira parecchie panchine: dal ritorno al Sutton United, al Derby County, al Wimbledon, oltre alla gestione delle giovanili del Leyton Orient ed una sfortunata parentesi al Crystal Palace.


Il 16 giugno 1983 è la data che probabilmente cambia la sua vita. Peter Morris lascia la panchina del Crewe Alexandra che ha concluso la stagione precedente nei bassifondi della Quarta Divisione ed i dirigenti, disperati per un club che minaccia da qualche anno di sparire nei meandri del calcio dilettantistico, affidano la panchina proprio a Dario Gradi. Il nuovo tecnico non promette miracoli che infatti non arrivano, ma i decenti piazzamenti dei suoi primi cinque anni di gestione sono comunque oro colato rispetto alle ambizioni di pura sopravvivenza della squadra, che rimane così all’interno della Football League.


Fin da subito Gradi, rendendosi ovviamente conto di non poter usufruire di chissà quali risorse, punta su una filosofia gestionale ben precisa: ripristinare il settore giovanile in modo da lanciare promettenti talenti in prima squadra e puntare su giovani giocatori che altre squadre, non riuscendo a vederne le qualità, hanno scartato. Per arrivare a risultati accettabili, il neo-tecnico propone l’idea al presidente John Bowler, che fa costruire un campo da gioco subito dietro le tribune dello stadio di Gresty Road. È su questo terreno che viene a sorgere l’Academy del club, che nei primi anni di attività lancia Geoff Thomas, scoperto dal nulla appena ventenne e lanciato verso la Prima Divisione e la maglia della nazionale inglese e David Platt (a destra) che nel 1985, seppur giovanissimo, arriva al Crewe dopo essere stato scaricato dal Manchester United e dà il via ad una carriera di tutto rispetto, che lo porterà a vestire le maglie di Aston Villa, Bari, Juventus, Sampdoria, Arsenal e Notthingam Forest, oltre a quella dell’Inghilterra in ben 62 occasioni.


La stagione 1988/89 è quella del definitivo trionfo di Gradi e dei suoi ragazzi, che ottengono la promozione in Terza Divisione per la prima volta dopo venticinque anni di sofferenze. I gioielli Thomas e Platt vengono ceduti rispettivamente a Crystal Palace ed Aston Villa, per un incasso complessivo di 450.000 sterline, che il tecnico reinveste immediatamente su altri giovani da far crescere, tra i quali sta già emergendo il diciassettenne Rob Jones, futuro difensore del Liverpool e dell’Inghilterra.

Il dodicesimo posto del 1990 significa una comoda salvezza per l’”Alex”, che però la stagione successiva non riesce nella nuova impresa e retrocede in Quarta Divisione. Gradi non si dà per vinto e ci riprova l’anno seguente, quando arriva sesto e si guadagna un posto nei play-off, ma la sconfitta contro lo Scunthorpe rimanda una promozione che, da un punto di vista puramente burocratico, avviene comunque. Durante l’estate infatti il Crewe, che nel frattempo ha ceduto per 300.000 sterline Jones al Liverpool ed ha utilizzato la somma per migliorare le strutture del proprio stadio, scopre di dover giocare la stagione successiva in Terza Divisione. In realtà lo “scalino” è sempre il quarto in ordine d’importanza, ma con l’introduzione della scintillante Premier League, la nomenclatura viene a cambiare e quella che è sempre stata la Seconda Divisione viene a chiamarsi Prima Divisione e così via a cascata.


Il campionato 1992/93, al di là del nome che lo fa sembrare un po’ più prestigioso, è molto simile al precedente, con la differenza che Dario Gradi porta la squadra molto più vicina alla promozione, arrivando a giocare la finale play-off nel tempio di Wembley (per la prima volta nella storia dell’Alexandra), ma perdendo la partita ai rigori contro lo York. A fine stagione è l’attaccante Craig Hignett a garantire la prosecuzione del progetto del Crewe, grazie al suo trasferimento al Middlesbrough, che porta nelle casse del club la cifra record di 500.000 sterline. L’ennesima cessione fa dubitare i tifosi sulle reali ambizioni della squadra, che l’anno seguente li smentisce conquistando l’agognata promozione in Seconda Divisione grazie al terzo posto in campionato. In estate è l’attaccante Tony Naylor a lasciare Gresty Road e trasferirsi a Port Vale per 150.000 e per il disappunto dei tifosi dell’Alexandra. Con il ricavato Gradi può mettere sotto contratto un ventenne centrocampista gallese di nome Robbie Savage (a destra), appena scartato dalle giovanili del Manchester United.

La necessità di ristrutturare lo stadio porta il club a cedere un altro pezzo da novanta durante il mercato invernale: si tratta di Ashley Ward, punta centrale e idolo dei tifosi, che passa al Norwich per 500.000 sterline.

I soldi però non finiscono solo nelle tribune dello stadio e infatti il club annuncia che 750.000 sterline – dei 3 milioni incassati durante la gestione Gradi – verranno utilizzati per la costruzione di un nuovo centro di allenamento per i giovani da lanciare poi in prima squadra.

I risultati della squadra ancora una volta contraddicono il pessimismo dei tifosi visto che il Crewe a fine stagione si piazza terzo, mancando per 2 punti la promozione diretta, ma guadagnandosi comunque l’accesso ai play-off, da cui viene però estromesso dai Bristol Rovers.

Nel 1995-96 l’andamento è molto simile visto che Gradi porta la squadra al quinto posto in campionato, ma non riesce a condurla indenne oltre il labirinto dei play-off, questa volta a causa del Notts County.


A fine stagione Neil Lennon (a sinistra), futuro cardine del Celtic Glasgow e della nazionale nordirlandese, viene ceduto al Leicester City per la cifra record di 750.000 sterline.

Ma, come ormai dimostrato dalle precedenti esperienze, le cessioni, per quanto importanti, non minano la fiducia di Dario Gradi nei confronti della squadra, che nel 1997 riesce finalmente ad arrivare in fondo ai play-off, espugnando Wembley con un 1-0 sul Brentford e conquistando così la possibilità di giocare in Prima Divisione, un traguardo impronosticabile solo pochi anni prima.

È al suo apice però che il progetto quindecennale coltivato da Dario Gradi rischia di risultare compromesso proprio dalla partenza del suo uomo simbolo. La Football Association gli offre infatti l’importante ruolo di direttore tecnico e addirittura i portoghesi del Benfica gli propongono la propria panchina. Il tecnico ringrazia e risponde “Mi piacerebbe, ma preferisco quello che stiamo cercando di ottenere al Crewe” e la sua risposta coi fatti è ancora più eloquente di quella a parole, visto che poco dopo firma un contratto che lo lega al club per altri dieci anni.


Il club salva così il suo tassello più importante, ma ne perde numerosi altri, che la promozione dell’anno prima aveva portato all’attenzione delle grandi squadre. Nel corso dell’estate 1997 partono così Danny Murphy (al Liverpool per 3 milioni di sterline, nuovo record d’incasso per la squadra), Wayne Collins (allo Sheffield Wednesday per 600.000 sterline) e Robbie Savage (che per 400.000 sterline raggiunge l’ex compagno Neil Lennon al Leicester di Martin O’Neill).

Tutti pronosticano una retrocessione certa per la matricola Crewe, che ancora una volta stupisce conquistandosi un undicesimo posto finale che sa molto di impresa. Dopo le critiche per le continue cessioni ed i pronostici che ogni anno davano per spacciata la sua squadra, Dario Gradi si gode una meritata rivincita, suggellata dal conferimento dell’MBE, ovvero l’appartenenza all’Ordine dell’Impero Britannico, come riconoscimento per il contributo dato al calcio inglese.


La stagione 1998/99 è decisamente più dura della precedente, ma la salvezza arriva comunque dopo un’ultima giornata di campionato da film thriller. In estate tocca a Seth Johnson, futuro nazionale inglese (anche se solo in una occasione), lasciare Crewe e trasferirsi al Derby County per 3 milioni di sterline. Grazie a questa cessione il club può così ultimare la costruzione dello stadio (a sinistra) con un’ultima tribuna da 5.000 posti a sedere.

Anche nelle due stagioni successive l’”Alex” deve lottare con unghie e denti per non perdere la Prima Divisione e ci riesce soprattutto grazie al contributo della coppia d’attacco formata da Rob Hulse e soprattutto Dean Ashton (attuale punta del West Ham e nel giro della nazionale inglese). I gol dei due là davanti non bastano però nel 2001-02, quando il Crewe fa mestamente ritorno in Seconda Divisione. Ma si tratta di una "toccata e fuga", visto che già l’anno dopo, grazie al secondo posto, i “Railwaymen”, possono far ritorno in Prima Divisione, che nel frattempo ha cambiato nome e si chiama Championship.

Nell’ottobre del 2003 Gradi è costretto a sottoporsi ad un intervento chirurgico al cuore e lascia le redini della squadra a Neil Baker, suo assistente da quasi dieci anni. La mancanza della guida dell’allenatore storico si fa evidentemente sentire, visto che agli ordini di Baker il Crewe riesce a mettere insieme a malapena 4 sconfitte, 1 pareggio e 2 reti segnate in un mese. L’assenza di Gradi è fortunatamente più breve del previsto ed al suo ritorno la squadra, guardacaso, torna alla vittoria con un 2-0 sul Derby. Nonostante la breve crisi dovuta alla convalescenza del tecnico, il Crewe non ha particolari problemi a conquistare la salvezza al termine del campionato.


La stagione 2004/05 verrà indubbiamente ricordata dai tifosi del Crewe come una montagna russa di emozioni probabilmente senza precedenti per loro. A gennaio infatti Gradi si trova ad essere settimo in classifica, con addirittura ambizioni che potrebbero portarlo a sfidare Arsenal, Manchester United e Chelsea l’anno successivo. I 21 gol segnati da Dean Ashton (a destra) nella prima parte di stagione hanno però nel frattempo attirato le attenzioni del Norwich, che se lo porta a casa con 3 milioni. Una volta tanto il tecnico anglo-italiano paga a caro prezzo una cessione e per i successivi venti turni non riesce a vincere una partita, precipitando drammaticamente nella zona calda della classifica. All’ultima giornata una vittoria sul Coventry ed una fortunata coincidenza di risultati favorevoli sugli altri campi garantisce al Crewe la permanenza nella seconda serie inglese, ma con quanta sofferenza!

Il campionato 2005/06 comincia come era finito il precedente, ma con meno fortuna e decisamente meno motivi per cui gioire. Il vuoto lasciato da Dean Ashton in termini di reti messe a segno non viene colmato da nessuno dei giovani sconosciuti che tentano di prendere il suo posto, ed il Crewe naviga mestamente verso una retrocessione, questa volta giustamente, annunciata.

Dario Gradi si prepara ad un difficile campionato di Seconda Divisione (ora League One) visto che i problemi dell’anno successivo persistono e fanno a lungo temere una seconda retrocessione consecutiva. Il tecnico riesce comunque a limitare i danni prima che la situazione sia compromessa e si conquista una tranquilla posizione di metà classifica.

Nell’aprile 2007 Gradi annuncia di voler abbandonare la panchina al termine della stagione in corso e così il 1 luglio scorso lascia la guida della prima squadra al tecnico delle giovanili Steve Holland, assumendo l’incarico di direttore tecnico.


Dario Gradi lascia così il proprio ruolo dopo 24 anni durante i quali ha messo insieme qualcosa come oltre 1200 panchine (solo col Crewe), si è conquistato un’onorificenza ufficiale da parte della regina Elisabetta II oltre che un ruolo di diritto nella Hall of Fame del calcio britannico (conferitogli nel 2004) e ad aver fatto proprio il record come tecnico rimasto più a lungo alla guida della stessa squadra, primato che potrebbe essergli insidiato in un prossimo futuro da Sir Alex Ferguson (a sinistra i due insieme, dopo una partita di Coppa), giunto a quota 22 stagioni.

L’allenatore anglo-italiano ha conquistato anche altri diversi attestati di stima nel corso degli anni, alcuni anche decisamente curiosi. Ad esempio, il gruppo musicale Dario G, piuttosto noto in terra britannica, deriva il proprio nome proprio da quello dell’uomo simbolo del Crewe Alexandra. La città di Crewe, invece, ha pensato di onorarlo in un modo meno stravagante, dedicandogli una strada, la Dario Gradi Drive, così come altrettanto tradizionale è stato il riconoscimento dell’Università di Loughborough, che nel 2003 gli ha conferito una laurea honoris causa.

Insomma un “pluriscudettato” Fabio Capello, che ha annunciato di voler vincere la prossima Coppa del Mondo, difficilmente troverebbe lusinghiero un paragone con un allenatore che per 24 anni ha traghettato la stessa squadra su e giù per le serie minori del calcio inglese raggiungendo il massimo traguardo con una salvezza non troppo sofferta nell’equivalente della nostra Serie B. Però è altrettanto vero che augurare a Mr Fabio di ottenere la stessa stima guadagnatasi negli anni da Dario Gradi e gli stessi onori a lui tributati dal calcio inglese equivale ad un auspicio non da poco per chi si trova a dover risollevare una nazionale sprofondata ai minimi storici.


mauretto58
00venerdì 25 settembre 2009 01:37
GRAZIE LUTON


Fango, sudore, aree spazzate con rinvii di punta che danno l’impressione di far finire il pallone fuori dallo stadio. E poi ancora agonismo, crampi, una squadra quartultima in League One (la terza divisione, equivalente alla Serie C1 italiana) nel bel mezzo di una crisi economica e societaria che riesce a pareggiare contro i vicecampioni d’Europa dopo averli messi sotto per lunghi tratti di partita. Cosa può definire meglio di tutto ciò lo spirito della F.A. Cup? Niente, ed è per questo che il romantico quadretto potrebbe sembrare messo insieme ad arte per introdurre l’ennesimo panegirico del calcio inglese. Al contrario, quanto descritto, oltre ad accadere con una regolarità sufficiente ad escludere il semplice caso, si è verificato esattamente questo pomeriggio quando il Liverpool ha fatto visita al Kenilworth Road di Luton per affrontare la locale compagine in un incontro valido per i trentaduesimi di finale di F.A. Cup ed è tornato a casa con un magro 1-1 in saccoccia.


Drew Talbot è il simbolo dello spirito con cui gli undici del tecnico Kevin Blackwell hanno affrontato l’incontro: l’attaccante ha corso, lottato, costruito e vanificato occasioni, si è disperato, a cinque minuti dal termine lo si vedeva ancora lanciarsi in scivolata nella speranza di strappare il pallone ai difensori avversari e a fine partita nome e numero sulla schiena erano quasi illeggibili visto che la maglia era completamente ricoperta di fango.

Certo, si può controbattere che il Liverpool fosse in formazione rimaneggiata, ma anche lasciando a riposo Reina, Gerrard e Torres, i Reds scesi in campo oggi tutto si possono definire fuorché un’armata Brancaleone: molti di loro sono nazionali, senza contare che non mancavano elementi titolari (Carragher, Riise, Finnan, Xabi Alonso e Kuyt) o comunque molto utilizzati nel turnover di Rafa Benitez (Hyypia, Babel, Benayoun, Voronin, Mascherano e Crouch). Insomma, sulla carta più che abbastanza per sbarazzarsi senza problemi di una squadra che in questa stagione dovrà seriamente preoccuparsi di non precipitare sul quarto gradino della piramide calcistica inglese.

In questi casi si è soliti ricorrere al luogo comune per cui le diverse motivazioni possono sovvertire il pronostico, ma va da sé che si tratta una constatazione molto facile da elargire dalla poltrona e molto più complicata da tradurre in pratica trovandosi davanti diversi giocatori che pochi mesi fa disputavano la finale di Champions League. Eppure gli uomini di Blackwell ci sono riusciti. Intendiamoci, lungi dall’essere perfetti, viste le occasioni che hanno comunque concesso al Liverpool e quelle che hanno gettato all’aria davanti ad Itandje, però hanno aggredito gli avversari dal primo minuto ed hanno fatto la partita praticamente sempre, senza concedere spazio a timori reverenziali di alcun tipo. Tanto che già nei primissimi minuti Edwards si presenta a tu per tu con l’estremo difensore dei Reds, che lo ipnotizza e ne respinge la conclusione. Poi la gara si assesta sui binari che vedono i padroni di casa giostrare bene la manovra e sommergere l’area avversaria di cross ed il Liverpool che, per contro, quando attacca, dà comunque l’impressione di poter essere letale. Alla fine, quando probabilmente la pressione del Luton è più intensa, gli ospiti passano grazie ad uno dei non pochi svarioni della difesa in maglia bianca: Voronin è libero davanti a Brill, angola sulla destra ma il portiere non si è ancora seduto e riesce a respingere di piede, Crouch arriva e conclude a porta vuota, vanificando l’intervento in disperata di un difensore avversario. È il 73esimo e la pietra messa sul match dallo spilungone numero 15 di Liverpool e nazionale inglese sembra un macigno ancor più che una lapide.
Ma i tifosi di casa non smettono di incitare i propri beniamini, né questi si meriterebbero tale ingrato trattamento, e forse anche per questo i giocatori non smettono di crederci. E così solo tre minuti più tardi arriva il pareggio, che ha un po’ il sapore del contrappasso: non essendo riusciti in 75 minuti a segnare un gol in maniera ortodossa, il Luton va in rete con una carambola da Mai dire Gol. Il cross che arriva dalla destra non è di per sé pericolosissimo, anche perché l’unico attaccante in area è in svantaggio rispetto a Riise, che tenta comunque l’intervento in spaccata, mandandosi il pallone sul braccio e infine alle spalle del proprio esterrefatto portiere.

A fine partita il pubblico si spella le mani dagli applausi e anche da casa è difficile non esultare insieme ai giocatori che alzano i pugni al cielo al momento del triplice fischio. Le telecamere, che in diversi momenti della partita avevano ripreso Fabio Capello seduto in tribuna, non lo inquadrano al termine dell’incontro, ma è improbabile che il neotecnico dell’Inghilterra, giunto fino al Kenilworth Road per osservare all’opera Carragher e Crouch, abbia avuto grossi motivi per essere contento dei propri nazionali. Anche se, vedendo lo spirito messo in campo dai padroni di casa, avrà sicuramente un buon esempio da additare loro per quanto riguarda la grinta necessaria a risollevare la bandiera dei tre leoni dopo le recenti figuracce.
Doveroso chiudere con i giocatori del Luton, che ora si godranno una ricca (vedi divisione dell’incasso al botteghino) e prestigiosa trasferta all’Anfield. Niente di più meritato. E, visto com’è andata oggi, e come va molte altre volte in quello strano torneo che è la F.A. Cup, chissà se tutto debba per forza finire ad Anfield.





blugrana
00venerdì 25 settembre 2009 10:10
NON SOLO CALCIO



Roberto Saviano, l'autore di Gomorra, ha incontrato in Spagna il fuoriclasse del Barcellona Messi.
In un reportage-racconto, la storia di un successo nato dal dolore .Storie di Calcio •

- Lo incontro negli spogliatoi del Camp Nou di Barcellona, uno stadio enorme, il terzo più grande del mondo. Dagli spalti invece Messi è una macchiolina, incontrollabile e velocissima. Da vicino è un ragazzo mingherlino ma sodo, timidissimo, parla quasi sussurrando una cantilena argentina, il viso dolce e pulito senza un filo di barba. Lionel Messi è il più piccolo campione di calcio vivente. La Pulga, la pulce, è il suo soprannome. Ha la statura e il corpo di un bambino. Fu infatti da bambino, intorno ai dieci anni, che Lionel Messi smise di crescere. Le gambe degli altri si allungavano, le mani pure, la voce cambiava. E Leo restava piccolo. Qualcosa non andava e le analisi lo confermarono: l'ormone della crescita era inibito. Messi era affetto da una rara forma di nanismo.

Con l'ormone della crescita, si bloccò tutto. E nascondere il problema era impossibile. Tra gli amici, nel campetto di calcio, tutti si accorgono che Lionel si è fermato: "Ero sempre il più piccolo di tutti, qualunque cosa facessi, ovunque andassi". Dicono proprio così: "Lionel si è fermato". Come se fosse rimasto indietro, da qualche parte. A undici anni, un metro e quaranta scarsi, gli va larga la maglietta del Newell's Old Boys, la sua squadra a Rosario, in Argentina. Balla nei pantaloncini enormi, nelle scarpe, per quanto stretti i lacci, un po' ciabatta. È un giocatore fenomenale: però nel corpo di un bimbetto di otto anni, non di un adolescente. Proprio nell'età in cui, intravedendo un futuro, ci sarebbe da far crescere un talento, la crescita primaria, quella di braccia, busto e gambe, si arresta.

Per Messi è la fine della speranza che nutre in se stesso dal suo primissimo debutto su un campo da calcio, a cinque anni. Sente che con la crescita è finita anche ogni possibilità di diventare ciò che sogna. I medici però si accorgono che il suo deficit può essere transitorio, se contrastato in tempo. L'unico modo per cercare di intervenire è una terapia a base dell'ormone "gh": anni e anni di continuo bombardamento che gli permettano di recuperare i centimetri necessari per fronteggiare i colossi del calcio moderno. Dagli spalti dello stadio Messi è una macchiolina, incontrollabile e velocissima. Da vicino è un ragazzo mingherlino ma sodo, timidissimo. Parla quasi sussurrando una cantilena argentina, il viso dolce
e pulito senza un filo di barbaSi tratta di una cura molto costosa che la famiglia non può permettersi: siringhe da cinquecento euro l'una, da fare tutti i giorni. Giocare a pallone per poter crescere, crescere per poter giocare: questa diviene d'ora in avanti l'unica strada. Lionel, un modo di guarire che non riguardi la passione della sua vita, il calcio, non riesce nemmeno a immaginarlo.

Ma quelle dannate cure potrà permettersele solo se un club di un certo livello lo prende sotto le sue ali e gliele paga. E l'Argentina sta sprofondando nella devastante crisi economica, da cui fuggono prima gli investimenti, poi pure le persone, i cui risparmi si volatilizzano col crollo dei titoli di stato. Nipoti e pronipoti di immigrati cresciuti nel benessere cercano la salvezza emigrando nei paesi di origine dei loro avi. In quella situazione, nessuna società argentina, pur intuendo il talento del piccolo Messi, se la sente di accollarsi i costi di una simile scommessa.

Anche se dovesse crescere qualche centimetro in più - questo è il ragionamento - nel calcio moderno ormai senza un fisico possente non si è più nulla. La pulce resterà schiacciata da una difesa massiccia, la pulce non potrà segnare gol di testa, la pulce non reggerà agli sforzi anaerobici richiesti ai centravanti di oggi. Ma Lionel Messi continua a giocare lo stesso nella sua squadra. Sa di doverlo fare come se avesse dieci piedi, correre più veloce di un puledro, essere imbattibile palla a terra, se vuole sperare di diventare un calciatore vero, un professionista.

Durante una partita, lo intravede un osservatore. Nella vita dei calciatori gli osservatori sono tutto. Ogni partita che guardano, ogni punizione che considerano eseguita in modo perfetto, ogni ragazzino che decidono di seguire, ogni padre con cui vanno a parlare, significa tracciare un destino.
Disegnarlo nelle linee generali, aprirgli una porta: ma nel caso di Messi, ciò che gli viene offerto, rappresenta molto di più. Non gli viene data solo l'opportunità di diventare un calciatore, ma la possibilità di guarire, di avere davanti una vita normale. Prima di vederlo, gli osservatori che sentono parlare di lui sono comunque molto scettici. "Se è troppo piccolo, non ha speranza, anche se è forte", pensano. E invece: "Ci vollero cinque minuti per capire che era un predestinato. In un attimo fu evidente quanto quel ragazzo fosse speciale".
Questo lo afferma Carles Rexach, direttore sportivo del Barcellona, dopo aver visto Leo in campo.
È così evidente che Messi ha nei piedi un talento unico, qualcosa che va oltre il calcio stesso: a guardarlo giocare è come se si sentisse una musica, come se in un mosaico scollato ogni tassello tornasse apposto. Ero sempre il più piccolo di tutti, qualunque cosa facessi, ovunque andassi... Ma non potevo permettermi di sentire dolore, non potevo permettermi di mostrarlo davanti al mio nuovo club. Perché a loro dovevo tuttoRexach vuole fermarlo subito: "Chiunque fosse passato di lì, l'avrebbe comprato a peso d'oro". E così fanno un primo contratto su un fazzoletto di carta, un tovagliolo da bar aperto. Firmano lui e il padre della pulce. Quel fazzoletto è ciò che cambierà la vita a Lionel.
Il Barcellona ci crede in quell'eterno bimbo. Decide di investire nella cura del maledetto ormone che si è inceppato. Ma per curarsi, Lionel deve trasferirsi in Spagna con tutta la famiglia, che insieme a lui lascia Rosario senza documenti, senza lavoro, fidandosi di un contratto stilato su un tovagliolo, sperando che dentro a quel corpo infantile possa esserci davvero il futuro di tutti. Dal 2000, per tre anni, la società garantisce a Messi l'assistenza medica necessaria.
Crede che un ragazzino disposto a giocare a calcio per salvarsi da una vita d'inferno abbia dentro il carburante raro che ti fa arrivare ovunque.

Le cure però spezzano in due. Hai sempre nausea, vomiti anche l'anima. I peli in faccia che non ti crescono. Poi i muscoli te li senti scoppiare dentro, le ossa crepare. Tutto ti si allunga, si dilata in pochi mesi, un tempo che avrebbe dovuto invece essere di anni. "Non potevo permettermi di sentire dolore", dice Messi, "non potevo permettermi di mostrarlo davanti al mio nuovo club. Perché a loro dovevo tutto". La differenza tra chi il proprio talento lo spende per realizzarsi e chi su di esso si gioca tutto è abissale. L'arte diventa la tua vita non nel senso che totalizza ogni cosa, ma che solo la tua arte può continuare a farti campare, a garantirti il futuro.
Non esiste un piano B, qualsiasi alternativa su cui poter ripiegare.

Dopo tre anni finalmente il Barcellona convoca Lionel Messi e la famiglia sa che se non sarà in grado di giocare come ci si aspetta, le difficoltà a tirare avanti saranno insormontabili. In Argentina hanno perso tutto e in Spagna non hanno ancora niente. E Leo, a quel punto, ricadrebbe sulle loro spalle. Ma quando La Pulce gioca, sfuma ogni ansia. Allenandosi duramente con il sostegno della squadra, Messi riesce a crescere non solo in bravura, ma anche in altezza, anno dopo anno, centimetro dopo centimetro spremuto dai muscoli, levigato nelle ossa. Ogni centimetro acquisito una sofferenza. Nessuno sa davvero quanto misuri adesso. Qualcuno lo dà appena sopra il metro e cinquanta, qualcuno al di sotto, qualche sito parla di un Messi che continuando a crescere è arrivato al metro e sessanta. Le stime ufficiali mutano, concedendogli via via qualche centimetro in più, come se fosse un merito, un premio conquistato in campo.

Fatto è che quando le due squadre sono in riga prima del fischio iniziale, l'occhio inquadra tutte le teste dei giocatori più o meno alla stessa altezza, mentre per trovare quella di Messi deve scendere almeno al livello delle spalle dei compagni. Per uno sport dove conta sempre più la potenza e, per un attaccante, i quasi due metri di Ibrahimovic e il metro e ottantacinque di Beckham sono diventati la norma, Lionel continua a somigliare pericolosamente a una pulce.
Come dice Manuel Estiarte, il più forte pallanuotista di tutti i tempi: "È vero, bisogna calcolare che le probabilità che Messi esca sconfitto da un impatto corpo a corpo sono elevate, come elevato è il rischio che venga totalmente travolto dai difensori. Ma solo a una condizione... prima devono riuscire a raggiungerlo". Guardarlo giocare è qualcosa che va oltre il calcio e coincide con la bellezza stessa.
Quasi un’epifania che permette a chi è lì
di confondersi pienamente con ciò che vedeE infatti nessuno riesce a stargli dietro. Il baricentro è basso, i difensori lo contrastano, ma lui non cade, né si sposta. Continua a tenere la corsa, rimbalza palla al piede, non si ferma, dribbla, scavalca, sguscia, fugge, finta. È imprendibile. A Barcellona malignano che le star della difesa del Real Madrid, Roberto Carlos e Fabio Cannavaro, non sono mai riusciti a vedere in faccia Lionel Messi perché non riescono a rincorrerlo. Leo è velocissimo, sfreccia via con i suoi piedi piccoli che sembrano mani per come riesce a tener palla, a controllarne ogni movimento. Per le sue finte, gli avversari inciampano nell'ingombro inutile dei loro piedi numero quarantacinque.

In una pubblicità dove era stato invitato a disegnare con un pennarello la sua storia, è divertente e malinconico vedere Messi ritrarre se stesso come un bimbetto minuscolo tra lunghissime foreste di gambe, perso lì tra palloni troppo grandi che volano lontano. Ma quando toccano terra, lui veloce li aggancia e piccolo com'è riesce a passare tra le gambe di tutti e andare in porta. Quando ci sono le rimesse laterali e gli avversari riprendono fiato, è proprio in quel momento che lui schizza e li sorpassa, così quando si immaginavano, i marcatori, di averlo dietro la schiena, se lo ritrovano invece già cinque metri avanti. Il grande giocatore non è quello che si fa fare fallo, ma quello cui non arrivi a tendere nessuno sgambetto.

Vedere Messi significa osservare qualcosa che va oltre il calcio e coincide con la bellezza stessa. Qualcosa di simile a uno slancio, quasi un brivido di consapevolezza, un'epifania che permette a chi è lì, a vederlo sgambettare e giocare con la palla, di non riuscire più a percepire alcuna separazione tra sé e lo spettacolo cui sta assistendo, di confondersi pienamente con ciò che vede, tanto da sentirsi tutt'uno con quel movimento diseguale ma armonico.
In questo le giocate di Messi sono paragonabili alle suonate di Arturo Benedetti Michelangeli, ai visi di Raffaello, alla tromba di Chet Baker, alle formule matematiche della teoria dei giochi di John Nash, a tutto ciò che smette di essere suono, materia, colore, e diventa qualcosa che appartiene a ogni elemento, e alla vita stessa. Senza più separazione, distanza. È lì, e non si può vivere senza.
E non si è mai vissuti senza, solo che quando si scoprono per la prima volta, quando per la prima volta le si osserva tanto da restarne ipnotizzati, la commozione è inevitabile e non si arriva ad altro che a intuire se stessi. A guardarsi nel proprio fondo.

Ascoltare i cronisti sportivi che commentano le sue cavalcate basterebbe per definire la sua epica di giocoliere. Durante un incontro Barcellona-Real Madrid, il cronista vedendolo assediato da tentativi di fallo smette di descrivere la scena e inizia solo un soddisfatto: "Non va giù, non va giù, non va giuuuuuù". Durante un'altra sfida fra le storiche arcirivali, l'ola estatica "Messi, Messi, Messi, Messi" riceve una "a" supplementare che gli rimarrà addosso: Messia. È questo l'altro soprannome che La Pulce si è guadagnata con la grazia beffarda delle sue avanzate, con lo stupore quasi mistico che suscita il suo gioco. "L'uomo si fece Dio e inviò il suo profeta", così dicono le scritte di un servizio televisivo dedicato a El Mesias, e a colui che come incarnazione divina del calcio lo precedette: Diego Armando Maradona. Lionel fu invitato a disegnare la sua storia
con un pennarello.
È divertente e malinconico
vedere il ritratto che fece di se stesso:
un bimbetto tra lunghissime foreste di gambeSembra impossibile ma Messi quando gioca ha in testa le giocate di Maradona, così come uno scacchista in un determinato momento della partita, spesso si ispira alla strategia di un maestro che si è trovato in una situazione analoga. Il capolavoro che Diego Armando aveva realizzato il 22 giugno 1986 in Messico, il gol votato il migliore del secolo, Lionel riesce a ripeterlo pressoché identico e quasi esattamente vent'anni dopo, il 18 aprile 2007, a Barcellona. Pure Leo parte da una sessantina di metri dalla porta, anche lui scarta in un'unica corsa due centrocampisti, poi accelera verso l'aria di rigore, dove uno degli avversari che aveva superato cerca di buttarlo giù, ma non ci riesce.
Si accalcano intorno a Messi tre difensori, e invece di mirare alla porta, lui sguscia via sulla destra, scarta il portiere e un altro giocatore... E va in gol. Dopo aver segnato, c'è una scena incredibile coi giocatori del Barcellona pietrificati, con le mani sulla testa, si guardano intorno come a non credere che fosse possibile ancora assistere a un gol del genere.
Tutti pensavano che un uomo solo fosse capace di tanto. Ma non è stato così.

La stampa si inventa subito il nomignolo "Messidona", ma c'è qualcosa nella somiglianza dei due campioni argentini che oltrepassa simili trovate e mette i brividi. In uno sport che la fase epica sembra essersela lasciata alle spalle, le prodezze di Messi somigliano al reiterarsi di un mito, e non di un mito qualsiasi, ma di quello che più fortemente è in contrasto con il nostro tempo: Davide contro Golia. Fisici minuscoli, quartieri poveri, incapacità nel vedersi diversi da come quando giocavano nei campetti, faccia sempre uguale, rabbia sempre uguale, come un'accidia che ti porti dentro. Teoricamente avevano tutto quanto bastava per sbagliare, tutto quanto bastava per perdere, tutto quanto bastava per non piacere a nessuno e per non giocare. Ma le cose sono andate diversamente.

Messi, quando Maradona segnava quel gol in Messico, non era neanche nato. Nascerà nel 1987.
E la ragione per cui io l'ho seguito a Barcellona, al punto di volerlo incontrare, ha la sua origine proprio in questo: l'essere cresciuto a Napoli nel mito di Diego Armando Maradona. Non dimenticherò mai la partita dei mondiali del 1990, un destino terribile portò l'Italia di Azeglio Vicini e Totò Schillaci a giocare la semifinale contro l'Argentina di Maradona proprio al San Paolo. Quando Schillaci segna il primo gol, lo stadio gioisce. Ma si sente che nelle curve qualcosa non va. Dopo il gol di Caniggia il tifo non napoletano - non autoctono - inizia a prendersela con Maradona, e lì accade qualcosa che non succederà mai più nella storia del calcio e mai era successo sino ad allora: la tifoseria si schiera contro la propria nazionale di calcio. I tifosi della curva napoletana iniziano a urlare: "Diego! Diego!". D'altronde erano abituati a farlo, come biasimarli e come identificarsi in altri? Anche se dovrebbe essere cara la propria squadra nazionale, in quel momento è Maradona che rappresenta la tifoseria del San Paolo più di una nazionale di giocatori provenienti da altre città d'Italia, da Roma, Milano, Torino.

Maradona era riuscito a sovvertire la grammatica delle tifoserie. E a Roma gliela fecero pagare durante la finale Argentina-Germania, dove il pubblico per vendicarsi dell'eliminazione dell'Italia in semifinale e delle defezioni create all'interno della tifoseria, inizia a fischiare l'inno nazionale.
Maradona aspetta che la telecamera, nella carrellata sui giocatori, arrivi sulle sue labbra, per lanciare un "hijos de puta" ai tifosi che non rispettano neanche il momento dell'inno. Una finale terribile, dove a Napoli si tifava tutti, ovviamente, per l'Argentina. Ma poi il momento del rigore assolutamente dubbio distrugge ogni speranza. La Germania chiaramente in difficoltà deve però vincere e vendicare l'Italia battuta. Un rigore dubbio per un fallo su Rudi Voeller, lo realizza Andreas Brehme. E il commento del cronista argentino fu: "Solo così fratello... solo così potevate vincere contro Diego". Ricordo benissimo quei giorni. Avevo undici anni, e difficilmente tornerò mai a vedere quel tipo di calcio. Ma qualcosa sembra tornare, di quel tempo. Il gol del Messico contro l'Inghilterra, il gol rifatto dalla Pulce vent'anni dopo, segna uno dei momenti indimenticabili della mia infanzia. Mi chiedo che meraviglia e che vertigine sarebbe veder giocare Messi al San Paolo, lui, di cui lo stesso Maradona disse: "Vedere giocare Messi è meglio che fare sesso". E Diego, di entrambe le cose, se ne intende. "Mi piace Napoli, voglio andarci presto", dice Lionel, "Starci un po' dev'essere bellissimo. Per un argentino è come essere a casa".

Il momento più incredibile del mio incontro con Messi è quando gli dico che quando gioca somiglia a Maradona - "somiglia": perché non so come esprimere una cosa ripetuta mille volte, anche se devo dirgliela lo stesso - e lui mi risponde: "Verdad?", "Davvero?", con un sorriso ancor più timido e contento. Del resto, Lionel Messi ha accettato di incontrarmi non perché sia uno scrittore o per chissà cos'altro, ma perché gli hanno detto che vengo da Napoli. Per lui è come per un musulmano nascere alla Mecca. Napoli per Messi, e per molti tifosi del Barcellona, è un luogo sacro del calcio. È il luogo della consacrazione del talento, la città dove il dio del pallone ha giocato gli anni più belli, dove dal nulla è partito verso la sconfitta delle grandi squadre, verso la conquista del mondo.

Lionel appare il contrario di come ti aspetti un giocatore: non è sicuro di sé, non usa le solite frasi che gli consigliano di dire, si fa rosso e fissa i piedi, o si mette a rosicchiare le unghie dell'indice e del pollice avvicinandole alle labbra quando non sa che dire e sta pensando.
Ma la storia della Pulce è ancora più straordinaria. La storia di Lionel Messi è come la leggenda del calabrone. Si dice che il calabrone non potrebbe volare perché il peso del suo corpo è sproporzionato alla portanza delle sue ali. Ma il calabrone non lo sa e vola. Messi con quel suo corpicino, con quei suoi piedi piccoli, quelle gambette, il piccolo busto, tutti i suoi problemi di crescita, non potrebbe giocare nel calcio moderno tutto muscoli, massa e potenza.
Solo che Messi non lo sa. Ed è per questo che è il più grande di tutti.

ANNO 1898 -
00sabato 26 settembre 2009 08:28
I PRIMI VAGITI DEL FOOTBALL IN ITALIA

Il signor Bosio e i suoi impiegati; il Duca degli Abruzzi e altri nobili torinesi; alcuni affaristi inglesi di Genova: sono i primi interpreti della storia del calcio in Italia. Nel marzo 1898 nasce la federazione e due mesi dopo il Genoa si aggiudicherà il primo titolo italiano.Storie di Calcio • email info@storiedicalcio.itun pallone di cuoio e il cuore inammorato di football. Istruisce una dozzina di impiegati della sua ditta e mette in piedi una squadra di calcio. I nobili torinesi, tra cui l'entusiastico Duca degli Abruzzi, vengono contagiati dopo poche partite e un paio di anni più tardi costituiscono la seconda squadra cittadina.
Gli impiegati di Bosio e i nobili del Duca degli Abruzzi si ritrovano sullo stesso campo e, a forza di sfidarsi, finiscono col fondersi in un solo club: l'Internazionale Football Club di Torino. Anno 1891. Seguiamo con attenzione gli spostamenti del signor Edoardo Bosio, a Torino, e quelli di un intraprendente gruppo di affaristi inglesi, a Genova: ci porteranno dritti al primo scudetto italiano. Rappresentante a Londra di una ditta commerciale, il signor Bosio torna a Torino nel marzo del 1887 con 8 maggio 1898


TUTTO IN UN GIORNO

Avanziamo di un 2 anni e spostiamoci a Genova. Sera del 7 settembre. Il gruppetto di affaristi inglesi (funzionari, agenti...) bussa alla porta del console britannico, mister C.A. Payton, e un'ora più tardi nasce il Genoa Cricket and Athletic Club. Di calcio in realtà si parla pochissimo; come si puo' intuire dalla denominazione, interessavano soprattutto cricket e ginnastica.
Ma il giorno del 1896 che il dottor Spensley, medico appena sbarcato dall'Inghilterra, mette piede nel club, le cose cambiano. Diventa capitano della squadra di calcio e promuove l'ammissione dei soci italiani, consacrata dall'assemblea del 10 aprile. Prima della fine dell'anno il Genoa ha il suo primo campo di gioco: a Ponte Carrega. Su quel campo, Epifania del 1898, si presentano e vincono (con un gol di tale Savage) i torinesi del signor Bosio. Il biglietto costa una lira (50 centesimi i soci), una lira anche per l'affitto di una sedia; a carico dei giocatori sono divise, albergo e trasferta con tram a cavalli a carico.
Pochi giorni dopo, con l'aggiunta della squadra di Alessandria, si disputa un triangolare, in cui, oltre a giocare, si discute di una possibile organizzazione che promuova la diffusione del football e organizzi l'attività dei praticanti. Da qui alla costituzione di una Federazione e di un campionato il basso è breve. Infatti il 1 aprile del 1898 chi apre la Gazzetta dello Sport legge: "Il giorno 26 corrente venne definitivamente costituita la Federazione italiana del Football (...) La prima gara di campionato nazionale italiano del football avrà luogo in Torino il giorno 8 maggio. Oltre a premi in medaglie oro e argento, vi sarà una coppa d'onore (Challenge Cup) offerta dai torinesi alla squadra vincitrice". Quindici anni dopo la storica riunione alla Freemason's Tavern di Londra (26-10 1883) che inaugurò l'era del calcio, in Italia si dava così il calcio d'inizio istituzionale.
Il nostro football poteva staccarsi dalla ginnastica, da cui era nato, il giorno che il rivoluzionario ventoanglosassone spazzò le nostre palestre. Basta con gli esercizi da reggimento prussiano; proviamo anche a divertirci, please. E un pallone rimbalzo' tra attrezzi e baffoni a manubrio.
Ma d'ora in poi non si parlerà più di concorso di calcio all'interno di riunioni ginniche organizzate dalla Federazione ginnastica; ci sarà un campionato di calcio indipendente organizzato da una Federazione indipendente. Quel primo campionato lungo un giorno (8 maggio 1898) se lo giocarono Internazionale di Torino, Genoa, F.C Torinese, Ginnastica di Torino. La prima delle prime volte nasce e si consuma in un solo giorno, dal mattino al tardo pomeriggio dell'8 maggio 1898, alla periferia di Torino, zona Porta Susa. Quel giorno (a meno di due mesi dalla fondazione della federcalcio avvenuta il 15 marzo, primo presidente il prof. Luigi D'Ovidio) segna l'anno zero delcampionato italiano di calcio: quattro le squadre partecipanti, imbottite di giocatori di anagrafe non italiana, soprattutto inglesi, giacchè erano stati loro ad attaccare agli italiani dell'area portuale genovese e delle aree industriali e studentesche di Torino e Milano il virus di quello che oggi è considerato il più bel gioco del mondo.
Le scarne cronache di allora tramandano i risultati delle due partite eliminatorie disputate al mattino. Alle 9, dinanzi ad una cinquantina di persone, scendono in campo due squadre torinesi, l'Internazionale (da non confondere con l'attuale Inter nerazzurra) e il Football Club Torinese: 1-0 il risultato, ma ignoto l'autore del primo storico gol del campionato italiano; alle 11, la seconda partita, in cui il Genoa supera la Società Ginnastica Torinese per 2-1.
Poi, probabili panini imbottiti e Barbera come introduzione alla finale disputata verso le 15, dinanzi ad un pubblico raddoppiato rispetto a quello del mattino: un centinaio di spettatori e incasso di 197 lire e qualche centesimo. Occorrono i supplementari per attribuire il titolo di campione d'Italia dopo che i 90 minuti si erano chiusi in parità (1-1). Alla fine prevale il Genoa, che non aveva ancora la divisa rossoblù di oggi ma una camicia bianca, per 2-1, con questa (presumibile) formazione:
Spensley, Leaver, Bocciardo, Dapples, Bertollo, Le Pelley, Ghiglione, Pasteur, Ghigliotti, De Galleani, BairdCosì in 26 righe La Gazzetta del 13 maggio 1898 concentra la cronaca
della giornata e i nomi della formazione campione.

"Dopo le gare eliminatorie che ebbero luogo in mattinata, rimasero a contendersi il campionato il Club Genovese e l'Internazionale.
Viva e accanita fu la lotta d'ambo le parti. Dopo due ore di gioco le due società si trovavano ad avere un punto pari così che si dovette prolungare la partita per altri venti minuti.
I genovesi, quantunque si trovassero con un bravo giocatore fuori combattimento in causa d'una caduta, riuscirono a vincere con un altro punto conquistando la coppa di campionato italiano.
L'onore dell'ultimo punto spetta al socio Leaver"

E' il primo gol scudetto
Semifinali
International Torino-Foot Ball Club Torinese 2-1
Ginnastica di Torino-Genoa 0-2
Finale
Genoa-International Torino 2-1 (d.t.s.)
Assetto tattico del Genoa per la finale:

Baird

De Galleani Spensley

W. Ghiglione Pasteur I Ghigliotti

Leaver Bocciardo Dapples Bertollo Le Pelley

Esiste un’unica fonte emerografica, Il Corriere dello Sport.
La Bicicletta di Milano, uscito l’11 maggio 1898 e non, come era nelle intenzioni della testata, due giorni prima, a causa dello stato d'assedio posto dal generale Fiorenzo Bava Beccaris per i cruenti tumulti di quei giorni, che ci fornisce i risultati delle Semifinali, che, come si nota, sono diversi da quelli tramandati per decenni.
Antonio Scamoni nella Storia della Federazione Italiana del Gioco del Calcio inserita nell’Annuario italiano del giuoco del calcio del 1928 accennava, senza fornire altri ragguagli, a una finale di consolazione tra Foot Ball Club Torinese e Ginnastica di Torino.

Per quanto riguarda l’andamento della Finale, giocata dalle due formazioni di matrice straniera che avevano prevalso su quelle autoctone, la medesima testata in un articolo firmato con lo pseudonimo Virgus da Gustavo Verona, ci indica che il Genoa era passato in vantaggio nel 1° tempo, era stato raggiunto dall’International di Torino nella ripresa ed aveva trovato la forza di riportarsi in vantaggio nel 1° tempo supplementare (che durò, come il 2°, concluso a reti inviolate, 10 minuti), seppur ridotto in dieci uomini per l’infortunio di un suo giocatore (non si dimentichi, a maggior gloria dei genoani, che il terreno torinese aveva una superficie quasi doppia di quello di Ponte Carrega – o, per meglio dire, delle Gavette – casalingo), in virtù di una rete di Leaver (le ultime due notizie si acquisiscono da due articoli redatti, con qualche differenza tra l’uno e l’altro, dallo stesso autore, Mario Luigi Mina, e pubblicati dal Caffaro di mercoledì 11 maggio 1898 e da La Gazzetta dello Sport di venerdì 13 maggio 1898).

La formazione giusta (verrà successivamente spiegato il perché) c’è fornita da Il Secolo XIX di martedì 10-mercoledì 11 maggio 1898. Sicuramente alla difesa genoana va ascritto il merito dello storico trionfo se i migliori in campo nell’articolo del Caffaro vennero giudicati il portiere Baird (che, mantenendo imbattuta la porta nella Semifinale, si può fregiare in comune con la sua squadra del titolo di primo a terminare una partita di Campionato Italiano senza subire segnature), i terzini De Galleani e Spensley e il centromediano Pasteur I.

Per tornare al problema di quale sia l’esatta formazione, come si può dare autorevolezza, pur operando l’inversione delle posizioni dei due terzini, dei tre mediani e dei cinque attaccanti a quella di Il Secolo XIX (Baird, Spensley, De Galleani, Ghigliotti, Pasteur I, Ghiglione, Le Pelley, Bertollo, Dapples, Bocciardo, Leaver) e toglierla a quella, da sempre tramandataci per ufficiale, comunicata da Mina (con nell’ordine il capitano, i cinque attaccanti, i tre mediani, l’altro terzino e il portiere) sul Caffaro e su La Gazzetta dello Sport (capit. Spensley, Leaver, Bocciardo, Dapples, Bertollo, Le Pelley, Ghiglione, Pasteur I, Ghigliotti, De Galleani, Baird)?

Giovedì 6 gennaio 1898 il Genoa aveva perso in casa 0-1 l’amichevole con la Selezione Torinese, schierando Spensley come estremo difensore (immortalato dalla celebre fotografia che lo ritrae davanti alla porta con la traversa di corda e alle sue spalle, vicino alla bandierina del calcio d’angolo, il grande cesto pieno dei vestiti borghesi dei calciatori).
In quell’occasione avevano giocato con lui De Galleani, Pasteur I e il futuro match-winner della Finale dell’8 maggio Leaver, mentre Ghigliotti era stato prestato agli avversari per l’indisponibilità all’ultimo momento di Weber nelle fila torinesi.

Dopo questa sconfitta la squadra venne ridisegnata per la rivincita del 6 marzo 1898 a Torino, dove il Genoa prese conoscenza della pélouse (cioè il terreno) del Velodromo «Umberto I», che violò con una rete di Schaffauser nella ripresa: giocarono (come ci comunica il Caffaro di mercoledì 9-giovedì 10 marzo 1898) Baird; De Galleani, McIntosh; Pasteur I, Spensley, Passadoro; Leaver, Schaffauser, Dapples, Ghigliotti, Le Pelley.
Due settimane dopo il Genoa si mise nuovamente in viaggio, questa volta andando ad Alessandria, dove si impose per 2-0 sulla locale Unione Pro Sport, vincitrice nel football del Concorso di Educazione Fisica tenutosi a Genova nel maggio dell’anno precedente.
La formazione (riferitaci da La Gazzetta dello Sport di lunedì 21 marzo 1898) rimase quella di Torino con l’unica variante di Bocciardo al posto di Leaver. Particolarmente valide furono le prestazioni, secondo il giornale alessandrino La Lega di giovedì 24-venerdì 25 marzo 1898 del pacchetto arretrato, costituito da Baird (che convinse in modo definitivo Spensley della non necessità di tornare a difendere i pali e della possibilità di dare una mano come uomo di movimento), De Galleani e McIntosh (sempre lodato dai giornali nelle due partite precedenti e non schierato in Campionato per motivi che ci sono sconosciuti).

La squadra che si sarebbe laureata campione d’Italia stava prendendo forma e venne allestita per l’occasione con lo spostamento di Spensley al posto di McIntosh nella linea dei terzini sul lato sinistro (con un assetto che verrà riproposto l'anno seguente come si evince dal verbale del Genoa Cricket and Foot Ball Club relativo all'Assemblea del Comitato di venerdì 14 aprile 1899 per la composizione della squadra in vista della Finale, conclusasi sul 3-1 per i Campioni d'Italia, che si sarebbe disputata a Genova due giorni dopo contro l'International di Torino), con l’accentramento al suo posto di Pasteur I nella linea dei mediani, con ai lati Ghigliotti (che fu sostituito all’attacco da Bertollo), sulla sinistra (fascia lasciata scoperta dalla defezione di Passadoro, che, essendo anche un canottiere del Rowing Club Genovese, preferì partecipare quel giorno, sempre a Torino, con la sua imbarcazione Zig-Zag ai 1500 m. in linea retta della Gara Piemonte delle Regate Universitarie e Nazionali d’Incoraggiamento sul Po, in cui avrebbe vinto la medaglia di bronzo) e W. Ghiglione (indirettamente beneficiato di un posto che non avrebbe avuto se Passadoro fosse stato in campo anziché in acqua) sulla destra, e con l’esclusione (anche per questa decisione non è possibile trovare una spiegazione) di Schaffauser a favore di una fascia destra con Leaver all’ala e Bocciardo come interno.
Per quanto riguarda la collocazione di questi due elementi si potrebbe obiettare che dalle formazioni inserite nei giornali si dedurrebbe che abbiano agito con i ruoli soprammenzionati sulla fascia sinistra e, viceversa, Bertollo e Le Pelley (che giocarono solamente in quel primo Campionato) su quella destra, rispettivamente come mezzala ed ala.

A far propendere verso l’interpretazione di un assetto dell’attacco genoano con da destra a sinistra Leaver, Bocciardo, Dapples, Bertollo e Le Pelley ci sono i seguenti elementi: la riproduzione dello schieramento della Selezione Italiana nel manifesto pubblicitario dell’incontro disputato (e perso 0-2) a Torino il 30 aprile 1899, pubblicato a pag. 6 della rivista Genoa Club del dicembre 1922, in cui Leaver – erroneamente indicato come Learer – figura nel ruolo di ala destra (a sostegno di questa tesi esiste anche una fotografia della squadra con i cinque attaccanti accosciati e disposti – secondo un ordine che, in considerazione delle fotografie del tempo, è praticamente impossibile pensare sia casuale – con tale successione) e il fatto che per ciò che concerne il Campionato Italiano 1900 tanto nella Semifinale vinta domenica 8 aprile 1900 a Genova 7-0 contro la Sampierdarenese (verbale del Genoa Cricket and Foot Ball Club relativo all’Assemblea del Comitato di lunedì 2 aprile per la composizione della squadra) quanto nella Finale vinta domenica 22 aprile 1900 a Torino 3-1 (dopo i tempi supplementari) contro il Foot Ball Club Torinese (verbale del Genoa Cricket and Foot Ball Club relativo all'Assemblea del Comitato di sabato 14 aprile per la composizione della squadra), in posizione di ala, quanto per ciò che attiene all’edizione successiva nella Finale persa a Genova 0-3 contro il Milan domenica 5 maggio 1901, nel ruolo di mezzala (posizione evidenziata dalla prima fotografia della storia del Genoa con la squadra in casacca rossoblù), Bocciardo abbia giocato sul lato destro.

In pratica, per concludere, la formazione del Genoa campione d’Italia nel 1898 c’è sempre stata comunicata con le tre linee (quella dei terzini, quella dei mediani e quella degli attaccanti oppure quella degli attaccanti, quella dei mediani e quella dei terzini) viste da sinistra a destra (il che farebbe pensare che, se il riconoscimento dei giocatori venne fatto dalla Tribuna, che era posta ad Ovest, il Genoa abbia attaccato all’inizio
internazionale
00sabato 26 settembre 2009 08:36
GRANDI MISTERI

Un mistero che in realtà non è mai stato tale, talmente evidente fu la volontà di sconfitta del Perù in quel match contro l'Argentina nei Mondiali 1978. Stefano Olivari rilegge quella famosa "pastetta"Storie di Calcio •
Ma come andarono veramente le cose? Ricordiamo in breve la situazione: in uno dei due gironi a quattro che avrebbero designato le finaliste (le prime per il primo posto, le seconde per il terzo) c'erano i padroni di casa finiti lì grazie al gol di Bettega, il Brasile, la Polonia ed Il Perù. Inutile precisare chi fossero le favorite, anche se la Polonia ai reduci del 1974, da Deyna a Lato, aveva aggiunto il giovane Boniek. Il 14 giugno a Mendoza il Brasile distrusse i peruviani con doppietta di Dirceu e rigore di uno Zico semi-infortunato, mentre a Rosario due gol di Kempes stesero i polacchi in una partita per loro piena di rimpianti (primo fra tutti il rigore sbagliato da Deyna sull'uno a zero). Il 18 giugno a Mendoza la Polonia battè il Perù con un gol di Szarmach (anche se viene ricordato di più il fallaccio di Ramon Quiroga su Lato) mentre a Rosario Brasile e Argentina si controllarono con un numero spropositato di falli, in una partita già ricordata in questa rubrica, quella in cui Mendonca fu di nuovo preferito a Zico.Fra i mille retroscena sporchi nella storia dei Mondiali, uno fra i meno segreti riguarda la goleada dell'Argentina sul Perù nell'edizione del 1978, quello che la Nazionale di Menotti doveva vincere non solo come paese ospitante ma anche per coprire i crimini della giunta militare al potere.
Tornando al fatto per così dire sportivo, quest'episodio ha avuto un revival recentemente grazie ad una intervista rilasciata da Fernando Rodriguez Mondragon ad una radio colombiana.
Figlio di uno dei più famosi capi del narcotraffico colombiano, Gilberto Rodriguez Orejuela (fra l'altro ex finanziatore dell'America di Calì), ma soprattutto scrittore di un libro che deve essere lanciato, 'Il figlio dello scacchista', ha regalato al pubblico una ricostruzione piuttosto vaga: '«Mio zio Miguel ha avuto modo di parlare con un grande dirigente del calcio mondiale, il quale gli ha confessato dei soldi che ci sono stati per sistemare quella partita e mettere fuori dalla finale il Brasile».
Una cosa tanto fumosa quanto verosimile (che non vuol dire vera), utile per un lancio di agenzia in tutto il mondo almeno al pari della presunta amicizia della sua famiglia con Maradona.

Ramon QUIROGA:
LA RICETTA PER LA MARMELLATA PERUVIANA

Che quella remota goleada tra
Argentina e Perù (6-0) ai mondiali militarizzati del ' 78 fosse sospetta, bastava a indicarlo il soprannome che ha tramandato la gara ai posteri: marmelada peruana.
In Sudamerica si dice marmellata, da noi biscotto, ma il senso di nauseante dolciastro è il medesimo.



L'ultima giornata del girone era prevista per il 21 giugno, con orari sfalsati: alle 16 e 45 a Mendoza Brasile-Polonia, alle 19 e 15 al Gigante di Rosario Argentina-Perù. Zico partì titolare, ma si fece male quasi subito, con gli uomini di Claudio Coutinho che ebbero problemi solo nel primo tempo con Lato che pareggiò il vantaggio ad opera di Nelinho. Nella ripresa le prodezze di Mendonca e Dirceu, unite ai due gol di Roberto Dinamite diedero ai verdeoro un tre a uno che li portò a cinque punti, con sei gol fatti ed uno subito. L'Argentina si trovava quindi, prima di scendere in campo, con tre punti, due gol fatti e zero subiti. Traduzione: per superare il Brasile ed arrivare alla finale per il primo posto si doveva battere il demotivato Perù con tre gol di scarto, ma segnandone almeno cinque (un ipotetico quattro a uno avrebbe eguagliato sia gol fatti che subiti dalle due grandi sudamericane), oppure direttamente con quattro gol di scarto.
E qui si parla del già citato Quiroga.Portiere della nazionale peruviana, con un soprannome di quelli che non si negano a nessuno ('El Loco', il matto) ed una caratteristica curiosa: la nazionalità argentina. Già, perché Quiroga è di Rosario: esattamente la Rosario dove si sarebbe giocata Argentina-Perù. Non solo, ma era arrivato al calcio che conta con il Rosario Central, dove a dispetto della bassa statura si era fatto conoscere in tutto il continente per la sua abilità soprattutto nelle uscite. Nel 1973, a 23 anni, i peruviani dello Sporting Cristal gli offrirono un buon contratto e lì fra alterne fortune rimase un paio d'anni, quando ritornò in patria (l'Argentina, precisiamo) all'Independiente. Nel 1977 altra svolta: lo Sporting Cristal gli offrì un altro contratto, con la prospettiva di naturalizzarsi e quindi di giocare un Mondiale che come argentino gli era chiaramente precluso visto che Menotti gli preferiva Fillol come titolare e gli avrebbe preferito i più affidabili Lavolpe (il futuro c.t. messicano ed Mondiali 1978: Quiroga anticipa Dalglsh in Perù-Scozia 3-1allenatore di tanti club) e Baley come rincalzi, dopo aver fatto fuori l'altro 'Loco' (diciamo l'originale) Hugo Gatti. Quiroga accettò e gli regalarono il passaporto peruviano: tutto bene, anche al Mondiale (nel girone iniziale fu il migliore in campo contro l'Olanda allenata da Ernst Happel), con prestazioni all'altezza della sua fama. Mai a Rosario, però: a Cordoba con Scozia e Iran, a Mendoza con Olanda, Brasile e Polonia. Fino a quel 21 giugno.

In Brasile hanno vinto tanto perché hanno fenomeni in campo ma anche dirigenti che sanno come va il mondo: prima della partita segnalarono alla federazione peruviana l'opportunità di schierare titolare Sartor e probabilmente accompagnarono la segnalazione da promesse di vario tipo.
Ma si può sempre dare di più, il c.t. Marcos Calderon (morto nel 1987 con tutto l'Alianza Lima nella famosa tragedia aerea) non sentì ragioni, e Quiroga scese in campo. Nella sua città, nel suo stadio, davanti a tutta la sua gente, che non lo conosceva come Loco ma come 'Chupete' (intraducibile, il concetto è 'bambino che rompe le palle'), sul campo di cui conosceva ogni filo d'erba, difendendo la porta di una squadra demotivata contro la sua vera nazionale e la sua vera nazione. A pensarci bene non ci sono grandi retroscena...In quella specie di museo dell'inutilità che è la nostra casa esiste ancora il Betamax di quella partita, peccato che non siamo più in grado di leggerlo. Ma grazie a chi è stato più previdente di noi abbiamo potuto di recente rivedere una partita non ancora passata su EspnClassic. L'impressione è stata la stessa di allora: se Quiroga aveva detto 'prego, accomodatevi' agli argentini, di sicuro non era stato il solo. Anzi, a dirla tutta sullo zero a zero ma anche per quasi tutto il primo tempo (solo al 43' Tarantini segnò il secondo gol, dopo il vantaggio di Kempes) Quiroga fece la sua parte con dignità, come pochi suoi compagni (fra questi Munante, che colpì anche un palo).
Poi il dilagare dei futuri campioni del mondo: Kempes, Luque, Houseman, ancora Luque, fino al sei a zero finale. In nessuna occasione Quiroga sembra scandaloso, nemmeno con gli occhi di oggi.
E allora? Qualche anno dopo si parlò di aiuti di stato promessi dall'Argentina al governo peruviano, e lo stesso Quiroga in uno dei non rari momenti di ubriachezza fece delle mezze ammissioni poi ritrattate. Insomma, dell'intervento dei narcos non c'era bisogno. L'unica certezza è che la patria può entusiasmare, fare schifo o essere indifferente, ma di sicuro non si può scegliere.IL TABELLINO
21.06.78 Rosario, Estadio Rosario
ARGENTINA-PERU' 6-0
Reti: 1:0 Kempes (21), 2:0 Tarantini (43), 3:0 Kempes (49), 4:0 Luque (50), 5:0 Houseman (67), 6:0 Luque (72)
Argentina: Fillol, Olguin, L. Galvan, Passarella (c), Tarantini, Larrosa, Gallego (86 Oviedo), Luque, Ortiz, Kempes, Bertoni (65 Houseman)
Perù: Quiroga, Duarte, Manzo, Chumpitaz (c), R. Rojas, Quesada, Cueto, Velasquez (52 Gorriti), Cubillas, Munante, Oblitas
Arbitro: Wurtz (Francia)
IL GRANDE TORINO
00sabato 26 settembre 2009 08:41
IL GRANDE TORINO







Nessuna squadra al mondo ha mai rappresentato per il calcio tutto ciò che è riuscito al Grande Torino.
L'Italia in quegli anni era reduce da una guerra perduta, avevamo poca credibilità internazionale e furono le gesta dei nostri campioni a rimetterci all'onore del mondo: Bartali, Coppi, il discobolo Consolini, le macchine della Ferrari e appunto il Grande Torino che, essendo una squadra,


dimostrava a tutti come un popolo di individualisti come gli italiani sapessero far fronte comune per dare vita al più bel complesso di calcio mai visto e mai più comparso su un campo di calcio.
La Juventus del Qinquennio, il Real Madrid, il Santos, la Honved, l'Inter di Herrera, l'Ajax e il Milan degli olandesi hanno rappresentato, è vero, eventi tecnici straordinari, ma nessuno ha pareggiato il Grande Torino.
I granata, guidati da Valentino Mazzola, il capitano dei capitani, hanno record strabilianti e assolutamente irripetibili. Bastava, per esempio, uno squillo del trombettiere del Filadelfia perchè si scatenassero. Leggendaria, per esempio, una partita romana quando il Grande Torino, in svantaggio di un gol nel primo tempo contro i giallorossi, stabili negli spogliatoi, durante il riposo, che non si doveva più scherzare. Fu così che vennero segnati 7 gol a dimostrazione che quella squadra vinceva come e quando voleva.


Non per nulla l'11 maggio del 1947, Vittorio Pozzo, il commissario tecnico della Nazionale, vestì dieci granata d'azzurro per una partita disputata a Torino contro l'Ungheria.

I nostri eroi naturalmente vinsero. E avrebbero continuato a vincere su tutti i fronti se non fosse sceso in campo il destino più tragico per fermarli. Ma non per batterli. Perchè quella squadra di grandi uomini e di grandi campioni è passata direttamente alla leggenda.


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Oltre ai giocatori sono periti nella strage anche i giornalisti, dirigenti e tecnici.

Giornalisti

Renato Casalbore
Aveva 57 anni, e dal 1913 viveva per Io sport, giusto allora essendo entrato quale direttore sportivo alla Gazzetta del Popolo di Torino. Critico equilibrato, dalla prosa garbata, dallo spunto signorile, era competentissimo in ogni ramo di sport: ma sovra tutti prediligeva il calcio che egli stesso aveva intensamente praticato negli anni giovanili. Sempre rimasto allo stesso giornale. Se ne staccava solo nel 1941 quando fondava Tuttosport assumendone la direzione e portandolo presto ad un posto di avanguardia per esattezza di cronache, per spirito d'iniziativa, per tempestività di critica. Era sposato ed aveva una bambina

Luigi Cavallero
Capo dei servizi sportivi del quotidiano «La Stampa» di Torino, Cavallero aveva 42 anni. Veniva, giornalisticamente, dalla gavetta, poichè aveva cominciato - attorno al 1925 - a collaborare con qualche pezzo ai giornali sportivi di allora, ancora non pensando di poter fare del giornalismo sportivo la fonte della sua vita. Nel 1926 passava redattore a «Il Paese Sportivo», collaborava quindi con assiduità al «Guerin Sportivo» e nel 1929 era assunto da «La Stampa». Era ammogliato e padre di tre figli.

Renato Tosatti
Sempre allegro e sempre indaffarato, lavoratore instancabile, sentiva la sua responsabilità di marito e padre di tre figIi degnamente crescere. Contava quarantanni, Genovese, aveva cominciato a farsi conoscere con talune sue corrispondenze al «Guerin Sportivo», da lui argutamente firmate con lo pseudonimo di «Totò»: al «Guerino» collaborava tuttora, così come collaborava a «Tuttosport» con la firma di «Kid». Ed era ora ai servizi sportivi di «Gazzetta del Popolo» e di «Gazzetta Sera». Aveva seguito il «Torino» a Lisbona desideroso di prendersi una breve licenza.

Dirigenti

Agnisetta
«Gli occhi non rimangono asciutti se penso ad Agnisetta, sportivo di gran razza; quando era alla Lega Regionale e talvolta gli andavo a chiedere qualche giusta provvidenza per certe squadre di provincia, andava di persona a vedere, si metteva in quattro, rendeva giustizia o soccorreva i bisognosi senza far strappi alla legalità, perchè aveva cuore, ma per tutti, ed era uomo d'ordine, e amava le cose giuste...».
Questo quanto ha scritto «Carlin» per il rag. Rinaldo Agnisetta. direttore generale del «Torino». Rinaldo Agnisetta era tra le più conosciute ed apprezzate figure di quella sportivissirna Torino che tanti autorevoli uomini di sport può vantare. Contava 56 anni, e da almeno quaranta primavere si dedicava allo sport, spesso assumendone ruoli di estrema responsabilità. Cosi come quando, agendo con suprema energia, si era trovato a sanare una dura crisi economica del «Torino» stesso. Ebbe allora tatto e tenacia, fermezza e intelligenza; mostrò nella contingenza virtù straordinarie di risanatore e seppe vincere.
Per il «Torino» la perdita di Agnisetta è una perdita irreparabile; il sodalizio granata gli doveva molto... e lui ha voluto andarsene, col suo «Torino», nel momento in cui Ia società alla quale tanti tesori di energia e di intelligenza egli aveva dedicato, aveva raggiunto il massimo fulgore.
Non sembrerà vero, quando il «Torino» avrà saputo superare anche il durissirno colpo odierno, che alla immancabile rinascita non abbia potuto contribuire anche Rinaldo Agnisetta.

Civalleri
Ippolito Civalleri, «Civa» come lo chiamavano affettuosamente, negli ambienti del «Torino», ha lasciato pure lui, per sempre, Ia società granata. Era l'accompagnatore ideale, capace di rendere tutti di buonumore, ritenendo - davvero non a torto - che le lotte più difficili bisogna saperle vincere avvicinandosi ad esse col sorriso sulle labbra. Era ad un tempo il custode ed il protettore dei suoi giocatori, che particolarmente a lui ubbidivano e di lui temevano Ie sfuriate rarissime... ma che comunque c'erano quando, qualcuno, Ia faceva davvero grossa. Non era più giovane, coi suoi 66 anni; ma lo spirito era quello dei ventanni. Usava dire che i capelli grigi glie Ii aveva fatti venire il «Torino».

Cortina
Insuperabile manipolatore di muscoli, in uno col fisico Ottavio Cortina sapeva curare più volte il morale dei giocatori affidati alle sue cure; di animo buono, generosissimo, gli atleti del «Torino» avevano trovato in iui il loro confessore, quegli che poi - senza darne a vedere - s'interessava per sistemare situazioni, per pianificare eventuali dissidi. Ed oltre a tutto, in sua serietà professionale che lo portò, infine, a divenire massaggiatore ufficiale della stessa squadra nazionale.
I giocatori volevano gran bene a Ottavio Cortina; si fidavano di iui e di quelli ch'egli chiamava i suoi «cinquantun anni di esperienze, spesso dure e molte volte difficili, nella vita e nello sport».

Tecnici

Lievesley
Nato in Inghilterra 37 anni fa, nonostante la giovane età Lievesley era già noto nell'ambiente calcistico di tutto II mondo per le sue rare virtù di allenatore. Fra i tanti scesi l'anno scorso in Italia dall'Inghilterra, Lievesley, forse unico fra tutti, non aveva deluso; una volta ancora, anche in questo delicato settore di direzione, i tecnici del Torino avevano avuto la mano felice. Non era ancora entrato in piena conoscenza con Ia lingua italiana, eppure sapeva egualmente farsi intendere dai giocatori ch'erano alle sue cure. Ed aveva avuto un gran merito, a differenza di altri suoi colleghi britannici: quello, cioè, di non applicare il sistema d'allenamento inglese agli atleti italiani troppo dissimili per temperamento e per le stesse caratteristiche fisiche da quelli inglesi; ma di saper plasmare lo stesso metodo britannico sulle esigenze dei giocatori torinesi.
Cosi gli era stato dato conservare in pieno Ia «forma» dei suoi campioni che pure erano tra quanti sostenevano Ie maggiori fatiche in quanto, a diversità degli altri italiani, non riposavano certo quando il calendario presentava qualche partita internazionale.
Si era trovato bene a Torino, ed in ragione di ciò aveva fatto scendere dall'lnghilterra Ia moglie e la figlia, deciso a restare per Iungo tempo in Italia dove aveva trovato piena cordialità e cornprensione per le sue particolari necessità. Quando dai giornali gli accadeva di leggere un riconoscimento alle sue innegabili qualità, si commuoveva; ritagliava il pezzetto e Io inviava agli altri suoi parenti rimasti in Inghilterra. Si diceva fiero di appartenere al «Torino» e di poter collaborare ai suoi successi.
La particolare sua competenza gIi era riconosciuta negli stessi ambienti del nostro calcio azzurro; ed anche qui, in qualche occasione, era stato richiesto con successo pieno l'apporto della sua competenza indiscutibile.

Erbstein
Egri Erbstein, nato a Budapest cinquant'anni fa, era già noto fra noi Italiani ancor prima che in Italia scendesse in veste di allenatore; egli era, infatti, stato uno dei più valenti giocatori d'Ungheria, e come tale più volte chiamato a vestire la maglia di quella rappresentativa. Cosi, tanti anni fa egli aveva avuto modo di allinearsi di fronte alla nostra nazionale in cavalleresche e combattute contese.
Disporre di Egri Erbstein significava disporre di un elemento sicuro: rapido nei giudizi, ma non mai avventato, serviva particolarmente al «Torino» in occasione dell'ingaggio di nuovi elementi; se si considera quanti ottimi acquisti abbia saputo portare in porto il «Torino» degli ultimi anni, basta tale solo fatto per riconoscere di quale qualità Erbstein poteva disporre e quanto egli potesse rendersi utile alla società che aveva Ia fortuna di ascoltarne i consigli.
Ma Erbstein non si limitava a ciò: vera enciclopedia di competenza calcistica egli era anche capacissimo istruttore. Lo sanno benissimo in Ungheria (ed in parte lo sappiamo anche noi Italiani) quanti giovani campioni sono sorti dalle sue attente cure, che vivevano sotto un alone di paterna severità. E la riconoscenza di questi atleti da lui creati era piena: lo si è visto ai funerali di Torino quando Fabian, venuto da Lucca, si lasciò disperatamente andare sulla bara del suo «maestro».
Vi è da notare un particolare: Egri Erbstein non amava viaggiare in aereo, e ogni volta che si presentava una trasferta del genere diceva che si sarebbe rifiutato energicamente di seguire la squadra. Era stato così anche in occasione dell'ultimo volo...






IL GRANDE TORINO
00sabato 26 settembre 2009 08:43
I CAMPIONISSIMI...UNO PER UNO


Valerio Bacigalupo
Nato a Vado Ligure (Savona) il 12 Marzo 1924. Portiere.
Arriva dal Savona, dopo aver giocato nel Genoa il campionato di guerra 1944. É subito inserito nell'undici titolare e dopo qualche comprensibile incertezza, diventa presto un elemento di sicuro affidamento. Dotato di grandi risorse atletiche, è uno dei primi portieri sistemisti del calcio italiano, indispensabile per una squadra costantemente votata al gioco d'attacco, dove spesso è costretto all'uscita temeraria e all'intervento spericolato. Doti queste ultime che in virtù anche del carattere aperto e di un'innata simpatia, ne fanno un autentico beniamino del Filadelfia. Scattante, concentrato e dotato di naturale colpo d'occhio sa comandare la difesa.
Vince lo scudetto nel 1946, 1947, 1949.
É 137 volte granata.



Aldo Ballarin
Nato a Chioggia (Venezia) il 10 gennaio 1922. Terzino.
E' l'uomo più pagato nel mosaico di Novo, che nel 1945, per il suo cartellino paga agli alabardati 1,5 milioni. Dotato di gran temperamento. Buon colpitore di testa.
Carriera:
1935-36 1936-37 Clodia giovanili
1937-38 Rosolina terza divis.
1938-39 Adriese prima divis.
1939-40 1940-41 Rovigo Serie C
1941-42 1942-43 Triestina serie A
06/04/1942 debutto nazionale giov.
1944-45 Venezia Campionato Alta Italia
11/11/1945 debutto nazionale
1945-46 1946-47 1947-48 1948-49 Torino
Vince lo scudetto nel 1946, 1947, 1948 e 1949.
É granata 148 volte, 4 i gol.



Dino Ballarin
Nato a Chioggia (Venezia) il 23 Settembre 1923. Portiere.
Se ne parla piuttosto bene, è già considerato qualcosa in più di una semplice promessa. Fratello di Aldo. Nella scala dei valori di quel grandioso Torino è in ogni caso il terzo portiere. Il viaggio che lo porta a Lisbona è un tragico premio, che gli preclude ogni possibilità di mettersi in luce e di trovare spazio nella storia del calcio Italiano.
Carriera:
1935-36 1936-37 Clodia giovanili
1937-38 Rosolina terza divis.
1938-39 1939-40 Adriese prima divis.
1940-41 Clodia prima divis.
1941-42 Triestina B
1944 ROVIGO Campionato Alta Italia
1945-46 CLODIA prima divis.
1946-47 CLODIA serie C
1947-48 1948-49 Torino



Emile Bongiorni
Nato a Boulogne Billancourt (Francia) il 19 marzo 1921. Centravanti.
Nell'immediato dopoguerra si mette in luce nella capitale francese con il Racing, dopo essere cresciuto nel Cercle Athletic Paris. Non molto alto, fisico robusto, irruente e difficilmente controllabile, eccelle nel dribbling stretto ed è dotato di un tiro potente e preciso. In Francia ha grosso credito, tanto da conquistare la maglia della nazionale (che indossa in cinque occasioni). Arriva a Torino nell'estate del 1948: nei programmi di Novo è un investimento per il futuro in vista di un eventuale addio dell'ormai trentatreenne Gabetto.
Vince lo scudetto nel 1949.
E' otto volte granata, 2 i gol.



Eusebio Castigliano
Nato a Vercelli il 9 febbraio 1921. Mediano.
Uno degli ultimi campioni forniti al calcio italiano dalla scuola vercellese, nel cui vivaio si è formato. La consacrazione arriva nello Spezia; e dopo aver giocato con Biellese e Vigevano, approda al Torino nella stagione 1945-46. Interno in origine, con la maglia granata, arretra a mediano. Infaticabile, dotato di gran temperamento, il suo inserimento completa un quadrilatero che fa paura. E' sicuramente il mediano più completo e possente espresso dal nostro campionato. Forte di testa, non gli fanno difetto né tecnica né presenza fisica e sa sfruttare con abilità le esperienze vissute in prima linea, mettendo in vetrina un tiro micidiale dalla media e lunga distanza.
Vince lo scudetto nel 1946,1947,1948 e 1949.
E' 116 volte granata, 35 i gol.



Rubens Fadini
Nato a Jolanda di Savoia (Ferrara) il 1 giugno 1927. Mediano.
Un buon triennio con la Gallaratese e nell'estate del 1948, il Torino. Chiuso dagli inarrivabili Grezar e Castigliano si ricava comunque qualche spazio sostituendo ora l'uno ora l'altro, dimostrando gran duttilità, si disimpegna anche al centro della linea mediana. E' un giovane di talento e di sicuro avvenire: sul campo ha un atteggiamento misurato e stile impeccabile, eccelle nella costruzione del gioco e malgrado la scarsa esperienza, dimostra già la sicurezza di un veterano. Qualità che ne fanno un futuro protagonista del Grande Torino.
E' 10 volte granata, un gol.



Guglielmo Gabetto
Nato a Torino il 24 febbraio 1916. Centravanti.
Per divergenze con la società lascia la Juventus nell'estate del 1941. E' ormai affermato e sulle sue traccie ci sono numerose società: la spunta il Torino, che lo porta in granata in compagnia di altri due bianconeri: Bodoira (portiere detto pinza) e Borel II (centravanti detto farfallino). Ha caratteristiche inconfondibili: in area, grazie ad un inimitabile repertorio di finte, guizzi e un gran fiuto del gol, è spesso incontenibile. Veloce nelle triangolazioni, agile negli scambi, il suo pezzo forte è il gioco in acrobazia. Un autentico giocoliere.
Vince il campionato nel 1943 (e la coppa Italia), 1946,1947, 1948 e 1949.
E' 199 volte granata, 107 i gol.



Ruggero Grava
Nato a Claut (Udine) il 26 aprile 1922. Ala e centravanti.
Scuola francese. Si mette in luce nelle fila del Roubaix, squadra con la quale vince il campionato transalpino nel 1947. Razza friulana, deciso combattente, ha buoni fondamentali e volontà da vendere: in un Torino ricco di attaccanti di valore non ha però molte possibilità dimettersi in mostra. L'unica opportunità a Genova, il 26 dicembre 1948, quando un'undici granata, privo di molti titolari e in formato natalizio, è battuto dai rossoblu con un severo 3-0.
Vince lo scudetto nel 1949.
E' una volta granata.



Giuseppe Grezar
Nato a Trieste il 25 novembre 1918. Mediano.
Dalla Triestina, dove è cresciuto, al Torino, per la stagione 1942-43. Abbina ad una classe purissima, uno spiccato senso tattico. Di stile sobrio, sicuro sul pallone, è l'elemento d'ordine della squadra granata, al servizio della quale, con la semplicità che gli deriva da una tecnica di primordine, traccia geometrie e calibra lanci precisissimi. Ambidestro, in possesso di un buon tiro, realizza anche qualche gol. E' un punto di riferimento costante per i compagni.
Vince lo scudetto nel 1943 (e la coppa Italia), nel 1946,1947,1948,1949.
E'159 volte granata, 19 i gol.



Ezio Loik
Nato a Fiume (Istria) il 26 settembre 1919. Mezzala.
Fiumana, Milan, Venezia e, a partire dal 1942, finalmente il Torino. Sempre in movimento, utile sia nella fase di copertura, sia nel sostegno dell'attacco. E' il "motore" del Grande Torino: mezzofondista infaticabile, coriaceo, potente e indispensabile uomo che mantiene i collegamenti tra i reparti della squadra. Sa segnare con continuità: possiede un tiro imperioso e preciso che esplode, spesso da fuori area sia con il destro sia con il sinistro. Faticatore per antonomasia, generoso, altruista e correttissimo. Un campione vero, sul campo stimato da compagni e avversari.
Vince lo scudetto nel 1943 (e la coppa Italia), 1946, 1947, 1948 e 1949.
' 165 volte granata, 64 i gol.



Virgilio Maroso
Nato a Crosara di Marostica (Vicenza) il 26 Luglio 1925. Terzino.
Capostipite della squadra granata del dopoguerra, è anche il solo protagonista del Grande Torino che Novo si è costruito in casa. Dopo il campionato di guerra (in prestito all'Alessandria) rientra al Filadelfia ed è subito titolare. Calciatore elegante, palleggiatore raffinato dalla coordinazione naturale e dal tocco limpido e deciso. Dal pacchetto difensivo granata, benchè giovanissimo, è forse la figura più luminosa. Un autentico virtuoso: dotato di una tecnica purissima di un potente colpo di testa, di uno scatto e anticipo, predilige le giocate sulla palla (anziché sull'uomo) e non disdegna l'inserimento nell'azione offensiva, ostentando la disinvoltura di un veterano.
Vince lo scudetto nel 1946, 1947,1948,1949.
E' 103 volte granata, 1 gol.



Danilo Martelli
Nato a Castellucchio (Mantova) il 27 Maggio 1923. Mediano e mezz'ala.
Dopo le esperienze con Marzotto e Brescia raggiunge il Torino nel 1946. Giovane di talento, nei programmi di partenza è destinato al ruolo di riserva. E' tuttavia ben presto prezioso per la facilità che dimostra nel presidiare ogni zona del campo. Grazie alla rara duttilità, che ne fa un jolly per eccellenza, raccoglie un gran numero di gettoni, anche in ruoli propriamente difensivi. Un gregario di lusso, un faticatore dai piedi buoni: addirittura proverbiali i recuperi sull'uomo, discreto tiratore.
Vince lo scudetto nel 1947, 1948, 1949.
E' 72 volte granata, 10 i gol.



Valentino Mazzola
Nato a Cassano d'Adda (Milano) il 26 gennaio 1919. Mezz'ala.
Esperienze giovanili nella Tresoldi di Cassano d'Adda e nella squadra aziendale dell'Alfa Romeo di Milano. Al Venezia nel 1939 e al Torino nel 1942. A tutte le caratteristiche del fuoriclasse: accomuna un talento senza eguali, gran combattività e una sagacia tattica di prim'ordine. Uomo squadra. Con Mazzola il Torino fa il balzo di qualità, che lo porta al primo scudetto del quinquennio. E' ancora ricordato il suo gesto che in mezzo al campo lo vede rimboccarsi le maniche della maglia: un atto rivolto ai compagni per spronarli e invitarli alla riscossa. Proprio in quel momento prendeva avvio un quarto d'ora di gioco nel quale ai granata era impossibile porre argine. Stilisticamente perfetto, goleador, animatore e condottiero, Valentino Mazzola è il simbolo del Grande Torino.
Vince lo scudetto nel 1943, 1946, 1947, 1948, 1949.
E' 175 volte granata, 102 i gol



Romeo Menti
Nato a Vicenza il 5 settembre del 1919. Ala.
Vicenza, Fiorentina e poi nel 1941, il Torino, dal quale si separa, temporaneamente, durante il periodo bellico. Carattere schivo poco incline alle chiacchiere, è ala di stampo classico. Sulla fascia destra, spesso incontenibile, va diritto allo scopo: ficcante, incisivo, dà concretezza alla manovra che spesso conclude, grazie ad un tiro potente e preciso che esplode all'improvviso. Sono in ogni caso i cross tesi e calibrati a farne un elemento prezioso per i compagni della pria linea. Del Grande Torino è il rigorista ufficiale (è uno dei primi a battere senza rincorsa), e spesso gli sono affidati anche i calci piazzati. Un professionista nel vero senso della parola: correttissimo, nel suo repertorio non trovano spazi né proteste né invettive.
Vince lo scudetto nel 1943, 1946, 1947, 1948, 1949.
E' 133 volte granata, 53 i gol.



Pietro Operto
Nato a Torino il 20 dicembre 1926. Terzino.
Dal Casale al Torino nell'estate 1948. Ha l'ingrato compito di sostituire il più tecnico dei difensori dell'epoca, Maroso spesso vittima d'infortuni muscolari. Deciso, potente, di buona tecnica, non soffre il salto di categoria. Non ha purtroppo il tempo di mettere in mostra tutte le sue possibilità.
Vince lo scudetto nel 1949.
E' 11 volte granata.



Franco Ossola
Nato a Varese il 23 Agosto 1921. Ala e centravanti.
Dal Varese al Torino nel 1939. E' il primo tassello di quello che sarà il Grande Torino. Appena diciottenne, prima rincalzo di Ferraris II, le sue presenze si fanno via via sempre più frequenti grazie alla disinvoltura con la quale occupa tutti i ruoli della prima linea. In apparenza fragile, è tuttavia inesauribile. Stilisticamente perfetto, controllo di palla "sudamericano", sa calciare con entrambi i piedi. Attaccante completo, predilige l'assist e la sua intesa con Gabetto è perfetta. Segna a ripetizione.
Vince lo scudetto nel 1943 (e la coppa Italia), 1946, 1947, 1948,1949.
E' 158 volte granata, 77 i gol.



Mario Rigamonti
Nato a Brescia il 17 dicembre 1922. Centromediano.
Nel 1941 il Toro lo acquista dal Brescia, in granata arriva comunque solo a guerra finita. Gioca al centro della linea mediana, rispetto all'epoca è un innovatore: il gioco praticato dai granata ("il sistema") ne fa l'antesignano degli stopper. Difensore roccioso e caparbio,
buon colpitore di testa, è un severo mastino dell'area che si esalta nella battaglia. Dotato di scatto bruciante, ottimo in acrobazia, di rendimento elevato e soprattutto costante, predilige il gioco d'anticipo: non ama gli inutili preziosismi. Indispensabile per la sua concretezza nel disimpegno. Una garanzia.
Vince lo scudetto nel 1946, 1947,1948, 1949.
E' 140 volte granata, un gol



Julius Shubert
Nato a Budapest (Ungheria) il 12 dicembre 1922. Mezzala.
Nel caos dell' Europa centrale nell'immediato dopoguerra abbandona il calcio ungherese e si trasferisce in Cecoslovacchia dove indossa la maglia della nazionale. Arriva al Toro dal Bratislava. Scuola danubiana, in possesso di innato talento, nel suo primo anno in granata (nel ruolo di capitan Valentino) a poco spazio a disposizione. Lo sfruttò per mettere in vetrina un buon tiro e lo stile inconfondibile di una tradizione, che diede all'Europa il meglio del calcio negli anni 30- 40.
Vince lo scudetto nel 1949.
E' 5 volte granata, 1 gol.



I sopravvissuti

Sauro Tomà
Nato a La Spezia. Terzino.
Spezzino ma originario della Lunigiana, da poco entrato nella rosa dei titolari (proveniva dallo Spezia), non potè partire per l'amichevole per via di un brutto infortunio al ginocchio, che gli avrebbe in parte pregiudicato il proseguo della carriera.
Tomà era triste per l'inconveniente, ma proprio l'infortunio gli salvò la vita: fu l'unico che sopravvisse alla tragedia.



Ferraris
Ala.








IL GRANDE TORINO
00sabato 26 settembre 2009 08:58
IL RICORDO DE GRANDE TORINO - SUPERGA -





Campioni d'Italia:
V. Bacigalupo, G. Gabetto, V. Mazzola capitano, A. Ballarin, R. Grava, R. Menti, D. Ballarin, C. Grezar, P. Operto, E. Bongiorni, E. Loik, F. Ossola, E. Castigliano, V. Maroso, M. Rigamonti, R. Fadini, D. Martelli, J. Schubert.

Direttori tecnici:

I. Civelleri, A. Agnisetta, E. Egrierbstein, L. Lievesley, O. Cortina.

Giornalisti:

R. Casalbore, L. Cavallero, R. Tosatti.

Equipaggio:

C. Bianciardi, A. Pangrazzi, C. D'Inca, A. Bonaiuti, Colonn. Meroni




Il l 4 maggio 1949, alle ore 17,05, una grande sciagura aerea colpiva l’animo degli sportivi torinesi ed italiani. Il trimotore FIAT N. 212 delle Aviolinee Italiane, il quale trasportava la gloriosa squadra calcistica torinese, reduce da un partita amichevolmente disputata a Lisbona, urtò fatalmente contro i muraglioni di sostegno del giardino a tergo della Basilica di Superga, causando la morte istantanea delle trentuno persone di bordo.
Quali furono le cause del disastro? Certamente la fitta nebbia che avvolgeva Torino e le colline circostanti deve avere costituito il principale ostacolo. Il tragico fatto destò un senso di profonda commozione e dì amaro rimpianto non soltanto in Italia, ma anche all’estero, ed ebbe una risonanza grande nella stampa mondiale.



Al disopra di ogni umano apprezzamento, nel cuore di ogni devoto della Vergine è rimasta la soave fiducia che la Madonna delle Grazie di Superga, nel momento estremo, sia venuta in aiuto ai gloriosi atleti e ai loro colleghi di volo, ai quali il Signore chiedeva repentinamente e tragicamente il sacrificio della vita.
Perciò, da quel giorno, i pellegrini di Superga non tralasciano mai di fare una breve visita e di recitare una preghiera di suffragio sul luogo della sciagura, dove una lapide con croce marmorea ricorda la data fatale. Ogni anno, poi, nell'anniversario dell'incidente, una S. Messa di suffragio viene celebrata in Basilica e un rito funebre presso la lapide-ricordo.



libertà
00sabato 26 settembre 2009 11:59
ma fatte un sito pè conto tuo, invece de tapezzà sto forum
mauretto58
00sabato 26 settembre 2009 12:58
DONATO BERGAMINI ... UNA SCOMODA VERITA'

La morte misteriosa di Bergamini il centrocampista del Cosenza, promessa del calcio, che "ufficialmente" finì sotto un tir. Dietro le indagini ombre misteriose...Storie di Calcio •


Il 18 novembre del 1989 il centrocampista del Cosenza Donato Bergamini, 29 anni, morì a Roseto Capo Spulico, nella zona dell' alto Jonio cosentino, investito da un autotreno lungo la statale 106 jonica. Il conducente del mezzo, Raffaele Pisano, 53 anni, imputato di omicidio colposo, fu assolto dal pretore di Trebisacce «per non avere commesso il fatto».
La sentenza venne confermata dalla Corte d' appello di Catanzaro. La tesi dei giudici, sia in primo grado che in appello, fu che Bergamini si fosse suicidato. E sui motivi per i quali il giocatore del Cosenza si sarebbe tolto la vita erano state avanzate varie ipotesi.Era terrorizzato. Ma da chi o da che cosa? Donato Bergamini, eclettico centrocampista del Cosenza, il suo segreto se l'è portato nella tomba.
Che motivo aveva un giovane di 27 anni, con un contratto che gli consentiva di guadagnare quasi 200 milioni all'anno, per decidere dapprima di eclissarsi, partire, emigrare, in ogni caso di lasciare Cosenza e il calcio, e poi scegliere di morire davanti agli occhi della fidanzata?
Si parla di droga. Si intravedono i contorni ancora oscuri di un giro pericoloso in cui il calciatore, che era originario di Boccaleone, nel Ferrarese, ma che era alla sua quinta stagione con la maglia rossoblù del Cosenza, sarebbe stato coinvolto. E quindi travolto.

Era notorio infatti che il giovane calciatore viaggiasse con una Maserati biturbo munita di radiotelefono che sarebbe appartenuto a un pregiudicato cosentino col quale Bergamini si accompagnava spesso. E' notorio ancora che alcuni calciatori del Cosenza si erano fatti vedere in giro con persone che hanno a che fare con la giustizia. Ma tutto questo può servire per dare una spiegazione al tragico gesto? Forse no.
Ma c'è dell'altro. Per l'allenatore del Cosenza dell'epoca, Gigi Simoni, Donato Bergamini nell'ultimo periodo appariva triste e cupo, più del solito. Era un ragazzo spigliato, onesto ma anche introverso, ricordava padre Fedele Bisceglie, cappuccino, capo degli ultras cosentini e assistente spirituale della squadra del Cosenza, allora militante in serie B.

Ci sarebbero stati ancora altri segnali che qualcosa di recente era accaduto a turbare drammaticamente l'equilibrio psicofisico del giovane calciatore. Potrebbe essere stato un episodio avvenuto, a quanto pare, il giovedì precedente in un ristorante dell'hinterland: Bergamini sarebbe stato prelevato da tre brutti ceffi e portato via. Dove e perché? Potrebbe essere stato quello che ha convinto il giovane calciatore che per lui era meglio cambiare aria.
Sabato pomeriggio Bergamini lascia improvvisamente il ritiro della squadra. Vado a prendere le sigarette, ha detto agli amici, tra cui Michele Padovano, il compagno di squadra con cui divideva un appartamento a Roges di Rende, alla periferia di Cosenza. Poco più di un'ora dopo alla società è arrivata la notizia della tragedia. Il calciatore, infatti, aveva lasciato la città con la fidanzata, Isabella Internò, ventenne studentessa di Rende.

La ragazza è l'unica testimone e afferma, pur tra parecchie contraddizzioni, che Donato si è lanciato volontariamente sotto le ruote del pesante autotreno. La testimonianza combacia con quella di Raffaele Pisano, 38 anni, di Rosarno, che si trovava alla guida del pesante mezzo che si è trovato il giovane davanti con apparente chiaro intento suicida. Bergamini, secondo quanto afferma la ragazza, dapprima voleva solo mettere molti e molti chilometri di distanza tra lui e Cosenza. Non c'erano dubbi che avesse paura.
Aveva pregato la ragazza di accompagnarlo fino a Taranto per imbarcarsi per la Grecia (da notare che da Taranto, però, non partono navi per la Grecia), le aveva chiesto di seguirlo. La ragazza non voleva andare con lui, non voleva neppure arrivare fino a Taranto per riportarsi a Cosenza la Maserati. Devi capire, mi diceva mentre eravamo in macchina, racconta Isabella, se mi vuoi bene devi fare quello che ti dico, altrimenti te ne accorgerai. Poi si è fermato in una piazzola, è sceso dall'auto, si è buttato sotto l'autotreno.

Per ultimo c'è una telefonata giunta in casa Bergamini, a Boccaleone d'Argenta, cinque giorni prima di quella tragica sera di Roseto Capo Spulico. Bergamini aveva raggiunto Ferrara dopo il pareggio a Monza del Cosenza. La solita sosta del lunedì prima della ripresa degli allenamenti. Ricevette una telefonata, si alzò dal tavolo da pranzo e ritornò visibilmente scosso.
Chi era all'altra parte del telefono? Chi parlò con Bergamini quel giorno?
Troppe domande per un caso mai definitivamente chiuso.La Scheda:
Donato Bergamini (Boccaleone, 18 settembre 1962 – Roseto Capo Spulico, 18 novembre 1989)
Ha iniziato la sua carriera calcistica nella stagione 1982-83 indossando la maglia dell'Imola in Interregionale. L'anno successivo gioca nel Russi (sempre in Interregionale) dove vi resta per 2 stagioni.
Nel 1985 viene acquistato dal Cosenza che milita in Serie C1, club con il quale giocherà per 5 stagioni.
Al primo campionato in maglia rossoblù disputa 24 presenze senza alcuna rete. L'anno successivo gioca 28 partite realizzando 2 gol (contro Sorrento e Benevento). Nel 1987-1988 il Cosenza vince il campionato di Serie C1 e torna in B dopo 24 anni di assenza. Bergamini è titolare nella formazione di Gianni Di Marzio giocando 32 partite su 34. L'11 settembre del 1988 arriva l'esordio in Serie B (Cosenza-Genoa 0-0). In quella stagione, forse la più bella nella storia del Cosenza, realizza anche il suo primo ed unico gol nella partita Cosenza-Licata (2-0).
A causa di un infortunio riesce a giocare solo 16 partite. Malgrado ciò a fine stagione Bergamini ha diverse richieste sul mercato. Il Parma fa di tutto per ingaggiarlo, ma il Cosenza che vuole disputare un campionato di vertice, lo dichiara incedibile confermandolo per un'altra stagione, l'ultima della sua carriera.
Infatti, il 18 novembre 1989 viene trovato morto sulla statale 106 nei pressi di Roseto Capo Spulico in provincia di Cosenza.
brasiliano
00domenica 27 settembre 2009 01:40
PELE' , LA PERLA NERA
Nome: Edson Arantes Do Nascimento
Data di nascita: 23 ottobre 1940
Luogo di nascita: Tres Corações, Brasile
Biografia

La stella più luminosa del Brasile

Pelé. Il Dio del calcio. 'O Rey'. Ciascun termine riconduce allo stesso ricordo, quello di una superstar che dominò il mondo, un'icona vivente che superò ogni primato. Al di sopra ed oltre il suo ineguagliato record di tre vittorie nella Coppa del Mondo, Pelé fu un genio che ad ogni occasione reinventava costantemente il gioco del calcio.

Con ogni tocco, ogni passaggio, ogni dribbling, Pelé era capace di fare qualcosa di nuovo, qualcosa che i tifosi mai avevano visto prima. Il suo istinto infallibile per il gol, il colpo d'occhio per i passaggi perfetti e le doti leggendarie di dribbling, fecero di lui il perfetto calciatore. E se la "Seleçaõ" incarnava il "bel gioco" agli occhi di tanti tifosi di tutto il mondo, ciò può essere tranquillamente attribuito alle doti straordinarie del suo osannato numero dieci.

Una stella dall'inizio
Edson Arantes Do Nascimento nacque il 23 ottobre 1940 a Tres Corações in Brasile. Scoperto all'età di 11 anni dall'ex giocatore della nazionale brasiliana Waldemar de Brito, si unì al Santos all'età di quindici anni e non ne aveva ancora compiuti sedici quando segnò un gol nel suo primo incontro ufficiale contro il Corinthians, nel settembre del 1956. Era nata una leggenda.

Nel 1958 giocò la sua prima Coppa del Mondo a soli 17 anni. Il mondo era stupefatto da quel minuto adolescente venuto dal nulla per illuminare il torneo con le sue doti straordinarie. Di fatto fu proprio la sua bravura in campo che gli fece guadagnare un posto nel terzo incontro del Brasile contro l'URSS. Pelé si era infortunato, ma al suo ritorno dall'infermeria, la squadra serrò le fila e insistette con lui per formare un trio d'attacco irresistibile con Garrincha e Vavá.


Pelé ripagò con un gol contro il Galles nei quarti di finale e con una tripletta contro la Francia in semifinale. Era inarrestabile, con una tecnica perfetta, accompagnata da una velocità incredibile, mista ad opportunismo e intelligenza. Emanava classe, e concluse la Coppa del Mondo con due splendidi gol nella finale contro la Svezia. Il primo lo vide esibirsi in un audace "sombrero", sollevando la palla sopra l'ultimo difensore prima di depositarla dolcemente in rete, mentre il secondo fu un astuto colpo di testa che superò l'ammaliato portiere svedese. Il difensore Sigge Parling più tardi confessò: "Dopo il quinto gol avevo voglia di applaudire".

Dopo il fischio finale, il portiere della Seleçaõ, Gilmar, ricorda con affetto, di aver dovuto consolare il genio bambino che commosso veniva portato fuori dal campo in lacrime sulle spalle dei compagni. Pelé avrebbe consolidato la sua fama negli anni a venire, tormentando le difese e confermando il suo status di fuoriclasse assoluto. Nel 1959 realizzò 127 gol, nel 1961 ne fece 110 e vinse due volte la Coppa Libertadores (1961 e 1962), due volte la Coppa Intercontinentale (1962 e 1963), oltre a nove campionati di Sao Paulo.

Frustrazione e gioia


Arrivò ai Mondiali del Cile nel 1962 pronto di nuovo a fare faville. Si trattava del palcoscenico ideale per mettere in mostra le sue doti, ma purtroppo Pelé subì un infortunio proprio durante il primo incontro e non potè più giocare. Osservò tutte le partite dalla panchina mentre i suoi compagni vincevano di nuovo il titolo più ambito. A partire da quel momento il destino di Pelé era segnato. Subì infatti un secondo infortunio nel 1966, quando dovette uscire dal campo in barella, colpito nello stinco durante la terza partita contro il Portogallo. Anche questa volta fu costretto ad assistere agli incontri dalla panchina, ma in questo caso la sua squadra venne eliminata.

La "Perla nera" avrebbe dovuto attendere Messico 1970 per ricordare al mondo le sue doti eccezionali. Abilmente assistito dai luogotenenti Jairzinho, Tostao, Rivelino e Carlos Alberto, quell'anno il Re Sole splendette in tutta la sua gloria. Il primo Mondiale trasmesso in tutto il mondo a colori, vide come protagonista un Pelé deciso a dare un nuovo significato al gioco del calcio. Tra i momenti culminanti vi sono il suo tentativo di realizzare un pallonetto da metà campo contro la Cecoslovacchia, un incredibile colpo di testa seguito dall'ancor più incredibile salvataggio da parte del portiere inglese Gordon Banks ed il memorabile frangente in cui con una finta lasciò scorrere il pallone oltre il portiere dell'Uruguay uscito fuori area, per poi recuperare la sfera e sparare di pochissimo a lato.

Fu Pelé a realizzare il centesimo gol del Brasile in un Mondiale, proprio durante la finale messicana: si trattò di un magnifico colpo di testa dopo un salto che lo vide rimanere sospeso per aria per alcune lunghissime frazioni di secondo. "Era una sensazione speciale quella di segnare con un colpo di testa. Mio padre una volta realizzò cinque colpi di testa in una sola partita, un record che non sono mai riuscito a battere" disse più tardi Pelé.

Tarcisio Burgnich, il difensore italiano cui era stato assegnato il non invidiabile compito di marcare Pelé nella finale, disse più tardi: "Prima della partita mi ripetevo che era di carne ed ossa come chiunque, ma sbagliavo". Il Brasile vinse la Coppa Rimet per la terza volta con quella che fu senza ombra di dubbio la miglior squadra di tutti i tempi. Pelé era diventato una leggenda vivente. Il giorno dopo la finale il Sunday Times scriveva in prima pagina: "Come si scrive Pelé? D-I-O".

Lasciando una grande impronta


Pelé era una vera e propria leggenda e, durante la sua lunga e prestigiosa carriera, stabilì record sorprendenti. Nel 1969 realizzò il suo millesimo gol, di fronte ad una folla in delirio nello stadio Maracaná. In non meno di sei circostanze realizzò cinque gol durante un unico incontro, fu poker di reti in 30 occasioni, ben 92 le triplette! Nel 1964, in un incontro contro lo sfortunato Botafogo, mise in rete il pallone ben otto volte! In tutto realizzò 1281 gol in 1363 partite e collezionò 92 presenze internazionali.

Abbandonò quello che chiamava "il bel gioco" nel 1974, prima di tornare, un anno dopo, a giocare per i Cosmos di New York "per portare il gioco più diffuso al mondo al pubblico nordamericano". Appese definitivamente le scarpe al chiodo nel 1977. J.B. Pinheiro, l'ambasciatore brasiliano presso l'ONU, affermò "Pelé giocò a calcio per ventidue anni e durante quel periodo promosse l'amicizia e la fraternità mondiali più di qualunque ambasciatore". E chi potrebbe contraddirlo? Nel 1970, in una Nigeria in piena guerra, venne dichiarata una tregua in quanto Pelé stava per disputare un incontro a Lagos. Il Presidente del Brasile lo dichiarò "tesoro nazionale", per impedire qualsiasi potenziale passaggio. E a Santos, ogni 19 novembre, sarà sempre il "Giorno di Pelé", per ricordare l'anniversario del 1000º gol realizzato nello stadio Maracaná.

A partire dal momento in cui la sua carriera terminò, Pelé utilizzò il suo status di ambasciatore per promuovere il suo Paese, l'ONU e l'UNICEF. "Ogni bambino del mondo che gioca a calcio vuole essere come Pelé, il che significa che ho la responsabilità di mostrargli come diventare calciatore, ma anche come diventare un uomo". E' per questo che ci sono gli dei, no?

Carriera da giocatore
Successi internazionali

92 presenze internazionali (97 gol)
1958 Vincitore della Coppa del Mondo in Svezia
1962 Vincitore della Coppa del Mondo in Cile
1966 Coppa del Mondo in Inghilterra: fuori al primo turno
1970 Vincitore della Coppa del Mondo in Messico

Squadre

1956 - 1974 Santos
1975 - 1977 New York Cosmos

Successi con squadre di club

1956, 1958, 1960, 1961, 1962, 1964, 1965, 1967, 1968, 1969, 1973 Campione dello Stato di Sao Paulo
1961,1962 Vincitore della Coppa Libertadores (Santos)
1961, 1962, 1963, 1964, 1965, 1968 Vincitore della Coppa del Brasile
1977 Campione NASL negli USA
11 volte capocannoniere del campionato di Sao Paulo: 1957 (17 gol), 1958 (58), 1959 (45), 1960 (33), 1961 (47), 1962 (37), 1963 (22), 1964 (34), 1965 (49), 1969 (26) e 1973 (11)

Altro

1281 gol realizzati in 1363 incontri
Votato Atleta del Secolo dal Comitato Internazionale Olimpico nel 1999

argentino
00domenica 27 settembre 2009 01:56
MARADONA - EL PIBE DE ORO
Nome Diego Armando Maradona
Data di nascita 30 Ottobre 1960
Luogo di nascita Villa Fiorito, Argentina
ruolo centrocampista
nazionalità Argentina
posizione centrale
propensione offensiva
piede di calcio sinistro
altezza 168 cm
peso forma 67 Kg

Biografia di Diego Armando Maradona


Il ragazzo che stupì il Mondo

In Argentina il calcio è fonte di distrazione e di divertimento per il popolo e nel corso della storia un giocatore, in particolare, ha saputo far innamorare la gente - Diego Armando Maradona. Da capitano ha trascinato con le sue magie la Seleccion alla conquista del mondo. E in una terra per la quale il pallone è il pane quotidiano, egli è considerato al pari di una divinità.

Il pallone come amico
Nato il 30 ottobre 1960, fin da piccolo Maradona visse in simbiosi con il pallone. Era il suo compagno nei giochi di strada, l'amico grazie al quale imparò a competere con avversari più vecchi e più grandi di lui. Tuttavia, malgrado un costante processo di rafforzamento, il suo fisico, o meglio, la sue carenze a livello fisico, quasi gli costarono la carriera.

L'allenatore dell'Argentinos Juniors, Francis Cornejo, non aveva dubbi sulle sue capacità e tuttavia non riusciva a credere che quel piccolo giocatore che usava così magistralmente il piede sinistro avesse l'età per giocare nella sua squadra. Fatta chiarezza sulla data di nascita, Maradona divenne la star delle 'Cebollitas', conducendo i propri compagni alla vittoria in ben 136 partite. Fu convocato in prima squadra e il 20 ottobre 1976 debuttò quindicenne in Prima Divisione contro il Talleres de Córdoba.

Dopo ventuno stagioni, un altro inchino: il sipario si chiuse sulla carriera di Diego dopo la vittoria del Boca Juniors per 2-1 sul River Plate, il 29 ottobre 1997. Negli anni precedenti Barcellona, Napoli, Siviglia e Newell's Old Boys erano stati tutti testimoni del fenomeno Maradona, un guerriero in miniatura dalla tecnica suprema e dal magico piede sinistro.

Controverso sin dall'inizio

Ad ogni modo i suoi maggiori exploit si registrarono quando indossò la maglia della nazionale argentina. Ben 34 gol in 91 partite fanno di lui il secondo capocannoniere dell' “Albiceleste’" dopo Gabriel Batistuta. E il suo contributo fu tale che la federcalcio argentina (AFA) ha 'ritirato' di recente la sua maglia con il numero 10. L'avventura nella Seleccion iniziò il 3 aprile 1977, quando Maradona debuttò in nazionale in un incontro amichevole contro una compagine locale. Non molto tempo dopo, l'allenatore Cesar Luis Menotti fu invitato ad includerlo nella squadra che avrebbe partecipato alla fase finale della Coppa del Mondo FIFA Argentina 1978. L'Argentina avrebbe vinto il torneo da padrona di casa, ma senza Diego, che secondo Menotti era troppo giovane per essere convocato.

Maradona si rifece l'estate successiva, quando ispirò la vittoria (in realtà non vi erano molti giocatori del suo calibro) nel mondiale giovanile in Giappone. “È stata la volta in cui mi sono divertito di più su un campo di calcio" affermò in seguito. "Nient'altro mi ha dato tante soddisfazioni, eccetto le mie figlie".

Non estraneo al successo, già da allora era anche oggetto di controversie e polemiche. Chi lo difendeva parlava dell' “onestà" della star e del suo “rifiuto a svendersi". I suoi detrattori, a loro volta, non avevano certo carenza di argomenti. Dopotutto questo era l'uomo che aveva sparato contro i giornalisti con un fucile ad aria compressa e che aveva criticato il Papa sulla TV di Stato. Maradona ha sempre scatenato emozioni estreme, eppure in campo era l'unico a fare quello che voleva. “I numeri che faceva con un pallone, li poteva fare con un'arancia" lo elogiava la star del calcio francese Michel Platini.

L'equilibrio era la chiave di tutto. Strano a dirsi, vista la sua perenne lotta per trovare l'equilibrio negli altri aspetti della vita. Era impossibile fermare 'El Grande' quando partiva in slalom verso la porta avversaria. Altrettanto infallibile era la precisione dei suoi colpi ad effetto.

Grinta e grandezza

Durante la Coppa del Mondo FIFA 1982 non fu tuttavia all'altezza. L'Argentina perse la prima partita contro il Belgio, successivamente vinse contro Ungheria ed El Salvador. Diego segnò due volte contro gli ungheresi, ma non fu in grado di fare il bis contro l'Italia ed il Brasile nel secondo turno. La sua reazione nei confronti dei suoi severi marcatori fu tale che contro il Brasile venne espulso, mentre i detentori del titolo crollavano.

Il Mondiale del 1986 in Messico fu tutta un'altra cosa. I cinque gol di Maradona (uno contro l'Italia e due doppiette, rispettivamente contro l'Inghilterra nei quarti e il Belgio nelle semifinali) portarono la squadra di Carlos Bilardo in finale e confermarono la fama del campione argentino. Universalmente riconosciuto miglior giocatore del pianeta, sollevò la Coppa del Mondo dopo la vittoria per 3-2 contro la Germania Ovest.

Quattro anni dopo, chiamato a difendere il titolo, assunse un ruolo totalmente inedito. Il torneo si svolse in Italia, dove Maradona si stava avvicinando alla fine di un incantesimo durato sette anni con il Napoli, squadra che aveva guidato alla conquista di due campionati di Serie A e di una Coppa UEFA. Nonostante fosse debilitato da un grave problema alla caviglia, il capitano era sempre in gran grado di eseguire giocate decisive e guidò da par suo l'Argentina contro Brasile, Jugoslavia e Italia nelle gare ad eliminazione diretta. In ogni caso non poté far nulla contro il rigore di Andreas Brehme che portò alla vittoria la Germania Ovest.



L'ultimo capitolo della storia di Diego nella Coppa del Mondo FIFA fu anche il più buio. Durante i Mondiali disputati negli Stati Uniti nel 1994, in cui portò l'Argentina al trionfo contro la Grecia e la Nigeria, Maradona risultò positivo ad un controllo antidoping, dal quale emerse il consumo di efedrina, sostanza proibita dalla FIFA. Venne espulso dalla competizione ed i suoi compagni lo seguirono subito dopo, in seguito alle sconfitte contro Bulgaria e Romania.

Malgrado ciò, l'Argentina festeggiò la sua stupenda, seppur movimentata, carriera il 10 novembre 2001, con una partita “Homenaje" nella Bombonera, lo stadio del Boca Juniors. Il numero 10, fascia di capitano al braccio, guidò la nazionale verso la vittoria sul Resto del Mondo. Stessa routine di sempre, si potrebbe pensare, ma stavolta era presente una variazione sul tema: era l'Argentina che ridava coraggio al suo "Pibe de oro".

Carriera da giocatore
Successi internazionali

91 presenze internazionali, 34 gol
1986 Vincitore della Coppa del Mondo FIFA™
1986 Miglior giocatore della Coppa del Mondo FIFA™
1990 Finalista della Coppa del Mondo FIFA™

Squadre

1976 - 1981 Argentinos Juniors (166 presenze, 116 gol)
1981 - 1982, 1995-1997 Boca Juniors (71 presenze, 35 gol)
1982 - 1984 Barcelona (58 presenze, 38 gol)
1984 - 1991 Napoli (259 presenze, 115 gol)
1992 - 1993 Seville (29 presenze, 7 gol)
1993 - 1994 Newell's Old Boys (5 presenze, 0 gol)

Successi con squadre di club

1981 Campione d'Argentina
1987, 1990 Campione d'Italia
1987 Vincitore della Coppa Italia
1989 Vincitore della Coppa UEFA

mauretto58
00martedì 29 settembre 2009 01:02
ZICO
«Dopo Garrincha e Pelé, Zico è stato il più grande giocatore di tutti i tempi.»
(João Saldanha)

« Gioca il Zico lontano, Thompson, gioca il Zico lontano, nel nome di Dio! »
(Bruce Grobbelaar, nella Coppa Intercontinentale 1981)

« Per noi, friulani, Zico ha lo stesso significato di un motore della Ferrari, posti all'interno di uno Maggiolino. Siamo gli unici al mondo ad avere una macchina così meravigliosa e assurda. »

(Luigi Maffei, reporter de Il Gazzettino)

Dati biografici

Nome Arthur Antunes Coimbra
Nato 3 marzo 1953, Rio de Janeiro
Paese Brasile
Altezza 172 cm
Peso 68 kg

Arthur Antunes Coimbra meglio noto come Zico (Rio de Janeiro, 3 marzo 1953) è un ex calciatore e allenatore di calcio brasiliano.

Considerato uno dei migliori talenti del calcio mondiale, partecipò a diverse edizioni del Mondiale, intraprendendo poi fruttuosamente la carriera di allenatore.

Fu eletto Pallone d'Oro sudamericano per tre volte (1977, 1981, 1982). Occupa la nona posizione nella classifica dei migliori giocatori del XX secolo redatta da France Football.

In totale ha giocato 750 partite ufficiali segnando 516 gol[4]; contando anche le partite non ufficiali giocate il suo totale sale a 1180 presenze e 826 gol[5], per cui è considerato uno dei migliori cannonieri della storia del calcio.

Caratteristiche tecniche

Trequartista dotato di un fisico gracile, ha ampiamente sopperito a questo limite con una tecnica sopraffina. Ottimo realizzatore, dotato di un tiro potente ed estremamente preciso e di una visione del gioco notevole, poteva giocare indifferentemente come centrocampista avanzato o seconda punta. Tecnicamente senz'altro uno dei più grandi di tutti i tempi. Anche Pelé ha affermato che l'unico che gli si è avvicinato è stato Zico.Era uno specialista dei calci piazzati, essendo in grado di dipingere traiettorie spesso imparabili per i portieri e con una media realizzativa difficilmente eguagliabile.

Calciatore

Nel periodo 1975-1986 è stato senza dubbio il giocatore brasiliano più popolare ed uno degli attaccanti più forti del mondo: vinse difatti per ben tre volte il Pallone d'Oro sudamericano (1977, 1981 e 1982) e per 3 volte la classifica dei cannonieri.

In Brasile il suo nome è legato al Flamengo, squadra con la quale ha vinto, segnando ben oltre 100 gol, Campionati di calcio brasiliano, una Coppa Libertadores e una Coppa Intercontinentale. In Italia è ricordato per i due campionati di calcio disputati con la squadra dell'Udinese, l'unica squadra europea in cui ha giocato segnando 22 gol pur avendo giocato solo 39 partite, classificandosi secondo nella classifica dei marcatori nella stagione 1983-1984 dietro al grande Michel Platini. Grazie a lui l'Udinese visse uno dei momenti migliori della sua storia: con il contributo di Zico risalì in classifica dal sesto al terzo posto insieme alle grandi del calcio, ma in seguito al suo infortunio a fine stagione giunse solo nona.

Nel 1983 la vicenda dell'acquisto da parte di una squadra cosiddetta provinciale di un giocatore di caratura mondiale aveva suscitato notevole scalpore, dovuto anche al prezzo sborsato dalla società friulana che poteva contare sul potere economico della Zanussi, e causato una piccola rivolta tra i tifosi brasiliani.

Con la nazionale di calcio brasiliana partecipò a tre edizioni dei Campionati mondiali di calcio: nel 1978, nel 1982 e nel 1986, senza riuscire però a vincere la competizione. In totale con i verdeoro ha giocato 72 partite ufficiali segnando 52 gol (quarto miglior marcatore di sempre della nazionale brasiliana); contando anche le partite non ufficiali giocate il suo totale sale a 88 presenze e 66 gol.

Il 27 marzo 1989 allo Stadio Friuli di Udine viene disputata la gara d'addio di Zico alla Nazionale brasiliana, con un Brasile-Resto del Mondo che termina 1-2 con reti di Dunga, Enzo Francescoli e Lajos Détári.





Forse non è tanto noto ma come è scritto è stato uno dei migliori calciatori della storia, dotato di classe, talento, tecnica, forza e media realizzativa alta, lo stesso Pelè ha detto che è stato un giocatore fortissimo e che ha raggiunto i suoi livelli.
Per me è alla pari sia con lui che con Maradona...

mauretto58
00martedì 29 settembre 2009 14:26
LA PARTITA DEL SECOLO
Città del Messico, 17-06-1970
Campionati Mondiali Calcio
LA PARTITA DEL SECOLO

Cosa aggiungere alla leggenda? Una partita consegnata alle pagine della storia non per il blasone delle due squadre in campo, l'Italia campione d'Europa e la Germania Ovest vice campione del mondo, ma per il rocambolesco risultato finale. Per la verità nei novanta minuti regolamentari non era successo granché. Dopo il vantaggio realizzato da Roberto Boninsegna nei primi dieci minuti del primo tempo finalizzando un'azione corale impostata da Giancarlo De Sisti e rifinita con una triangolazione Boninsegna-Riva-Boninsegna che batteva imparabilmente l'incolpevole Maier, l'Italia sembrava avere la qualificazione in tasca.

La leggenda comincia al secondo minuto di recupero, con l'"italiano" (era in forza al Milan) Karl Heinz Schnellinger che pareggia andando a prendere sotto porta un pallone impossibile messo al centro da Jurgen Grabowski: spaccata vincente del difensore con Ricky Albertosi che resta di gesso. Si va ai supplementari. Si sveglia Gerd Müller, appoggiato da una spalla d'eccezione, il capitano tedesco Uwe Seeler. Testa di Seeler e Müller tocca alla sua maniera, scoordinato ma letale, e il pallone rotola piano piano oltre la linea di porta italiana. Germania in finale.

Tarcisio Burgnich non ci sta e pareggia i conti con il suo avversario diretto improvvisandosi goleador. Si ritorna in pari.
È il momento della resa dei conti. Angelo Domenghini resiste alla carica di Schnellinger, palla a Gigi Riva, gol. A questo punto è l'Italia ad accedere alla finale.
Seeler si cala ancora una volta nell'uomo-assist per il "solito" Gerd Müller: colpo di testa del centravanti dell'Amburgo e Müller butta dentro. Tutto da rifare. Fino al gol di Gianni Rivera, al 111': i tedeschi sono in ginocchio, Italia-Germania 4-3.

Classico esempio di come una partita può sconfinare nella leggenda. Quando l'«Io c'ero», magari davanti al televisore a notte alta in Italia, significa qualcosa — anche a tanti anni di distanza — per un'intera generazione.Italia-Germania Ovest 4-3
Reti: 8’ Boninsegna, 90’ Schnellinger, 94’ G. Müller, 98’ Burgnich, 104’ Riva, 110’ G. Müller, 111’ Rivera
Italia: Albertosi, Burgnich, Facchetti, M. Bertini, Rosato (91’ Poletti), Cera, Domenghini, A. Mazzola (46’ Rivera), Boninsegna, De Sisti, Riva. Ct: F. Valcareggi.
Germania Ovest: Maier, Vogts, Patzke (65’ Held), Beckenbauer, Schnellinger, Schulz, Grabowski, Seeler, G. Müller, Overath, Löhr (51’ Libuda). Ct: H. Schön.
Arbitro: Yamasaki (Messico).
mauretto58
00venerdì 2 ottobre 2009 14:16
I GRANDI DRAMMI - GIULIANO TACCOLA

Il 16 marzo del 1969 l'attaccante della Roma Giulano Taccola moriva all'Amsicora di Cagliari.

La febbre, le iniezioni e quei sospetti mai chiariti. La vedova: «Fu omicidio»

Taccola:
segreti e bugie,
40 anni senza la verità
Si sa solo che Giuliano Taccola morì il 16 marzo 1969 negli spogliatoi dell'Amsicora a Cagliari e si sa che la sua famiglia è stata prima abbandonata e poi umiliata.
Si sa anche che quella fu una morte lunga e oscura. Quarantanni oggi, un mucchio di polvere. Marzia Nannipieri ci soffia su, ogni mese di marzo, soffocata dal peso di un'esistenza in cerca di una verità che interessava a pochi, o forse a nessuno.
Era una ragazza di 23 anni, con due bambini di 4 e 6. Era l unica che non sapeva e la sola che sospettava, testimone di un omicidio in corso o di una disgrazia che, se davvero disgrazia era, non si poteva evitare.
C'era lei e c'erano i suoi figli, quarantanni fa, quando Giuliano Taccola, attaccante della Roma, moriva nello spogliatoio Amsicora di Cagliari. Ci sono loro, adesso. C'è la signora Marzia che continua a ripetere: «La morte di Giuliano non fu fatalità, ma un omicidio».

Taccola aveva 25 anni, correva i cento metri in undici secondi, era un toscano tosto di un metro e ottanta, aveva battuto i tacchetti sui campetti in polvere e si faceva raccontare da immagini in bianco e nero e dal gracchiare delle radio. Erano gli anni '60, quelli più turbolenti, quelli che guardano ai '70.
Alla deregulation nel calcio e nell'economia. Era un manovale del gol, per l'epoca. Dalla serie D alla promozione in A con il Genoa, poi la Roma: dove il manovale, come succede nella capitale, diventa principe.
Scrivevano, allora: «Taccola è un ragazzo tranquillo, un professionista serio che evita accuratamente la pubblicità. È l'antidivo per eccellenza».Era bravo, era forte: 10 reti nel campionato 1967/68, altre 7 nel successivo lasciato a metà. Lasciato per sempre. Era la stagione con Helenio Herrera, l'ex mago dell'Inter sulla panchina della Roma.
L'anno 1969 inizia con influenze improvvise e insistenti, un problema cardiaco, l'operazione alla tonsille, una bronchite, addirittura una polmonite. Confusione, tanta confusione. Taccola si stava spegnendo, lentamente. Herrera lo voleva in campo, litigava con i medici, rifiutava le diagnosi e criticava le cure. Due settimane prima della trasferta di Cagliari, contro la Sampdoria, Taccola si fa male al malleolo. Recupero lampo, viene convocato per Cagliari: sta male di notte, va in tribuna.
A fine partite, scende negli spogliatoi per festeggiare con i compagni, abbraccia e bacia tutti: cinque minuti e si accascia distrutto, intervengono i medici, muore.
Questi sono i fatti che da quarant'anni tormentano la signora Marzia, che nessun tribunale ha verificato. L'inchiesta viene aperta e chiusa in pochi giorni. La perizia medico legale viene consegnata alla moglie nel '95, con 26 anni di ritardo.


Taccola in un match all'Olimpico di Roma. Nella sua prima stagione in giallorosso realizzò 10 retiMarzia e la figlia subiscono due sfratti, a ogni sfratto coincide un contributo della Lega e della Figc.
Un comodo lavaggio di coscienza. Marzia va dal pm Guariniello e il marito viene inserito in un processo che non conosce sentenza; tra i martiri del pallone, presunti ammazzati dalla Sla e dai tumori, dalla fretta di guarire e dall ansia, da parte di chi li allenava, di vincere. Come Bruno Beatrice e i raggi Roentgen. Come Fulvio Bernardini, che aveva segnalato Taccola alla Roma, e che apre, suo malgrado, la lunga lista delle morti bianche per la sclerosi laterale amiotrofica.

Soltanto nel 2005, quando Marzia è ormai anziana e i figli adulti, Giacomo Losi, il «core de Roma», ritorna nel ventre dell Amsicora: «Giuliano era stato da poco operato per una tonsillite e dopo l'operazione, in genere dopo ogni allenamento, gli si alzava la febbre, così gli facevano un'iniezione e stava meglio. Il chirurgo che lo operò alle tonsille gli proibì di prendere certe sostanze, sembra per disfunzioni cardiache. Dopo la partita scese negli spogliatoi per festeggiare con la squadra. Diceva: «Mi sento male, mi gira la testa». Così l'hanno sdraiato sul lettino e gli hanno fatto la solita iniezione. Appena gli hanno messo l'ago, ha fatto alcuni sobbalzi e non si è più mosso. L'hanno lasciato lì. Herrera disse ai giocatori: «Andiamo via, ormai è morto e non possiamo fare più niente. Mercoledì abbiamo un'altra partita».
Quarant anni, nessuna verità, nessun colpevole.

Testo di Carlo TecceIntervista alla vedova di Taccola

Signora Taccola, in un'intervista del 5 luglio 1995 lei affermò che dopo 26 anni aveva finalmente ricevuto i documenti dell'inchiesta di Cagliari e aveva netta la sensazione che le carte furono manipolate: è ancora di questa idea?
«Sì. Ci sono buchi, omissioni, inesattezze. All'epoca cercarono persino di far passare come cartelle cliniche di Giuliano analisi e diagnosi che non lo riguardavano».

Lei disse che suo marito ebbe una broncopolmonite e che fu quella la vera causa della morte?
«Ho il sospetto che fu qualcosa del genere a provocare la morte di Giuliano. Dissero, scrissero, che era colpa di una malformazione congenita al cuore, ma invece aveva il classico soffio d'atleta. Dissero, scrissero, che fu lui a chiedere di tornare in campo prima del previsto dopo l'operazione alle tonsille perché non voleva perdere i premi-partita. Hanno infangato persino la sua memoria. Giuliano non pensava ai soldi, pensava alla sua vita».

Che cosa accadde tra la tournée di Spagna e quel 16 marzo 1969?
«Giuliano tornò in Italia ammalato. Aveva la febbre alta. Fu visitato da due otorinolaringoiatri. Entrambi dissero che doveva togliersile tonsille. Del primo non ricordo il nome, il secondo fu quello che il 5 febbraio operò mio marito a Villa Bianca, il professor Filipo. L'intervento non fu una cosa semplice, Giuliano perse molto sangue. Quando fu dimesso gli venne prescritto un mese di
assoluto riposo e il professor Filipo gli disse che la stagione era finita, il recupero si annunciava lento, invece il giorno dopo l'uscita dalla clinica la Roma lo volle in campo. Si allenava e la sera arrivava, puntuale, la febbre. Era cinque chili sotto il peso abituale. Era debilitato dagli antibiotici. Non si reggeva in piedi. Alla visita di controllo il professor Filipo si arrabbiò, disse che doveva fermarsi, prescrisse anche le lastre ai polmoni, ma quando Giuliano si presentò davanti al medico della Roma questi strappò i certificati e disse "adesso sono io che decido". Giuliano giocò una partita con la formazione De Martino il 26 febbraio. Svenne in campo. Giocò un'ora contro la Sampdoria il 2 marzo. La febbre non gli dava tregua. Il 7 marzo lo portarono in ritiro. La sera si sentì male e dopo mezzanotte scappò dall'albergo. Cercarono di fermarlo, gli dissero "guarda che se te ne vai perdi tutti i premi-partita", lui rispose che pensava alla salute, chiamò un taxi e quando rientrò a casa aveva la febbre a 39.

Cosa pensavate di fare?
Ormai la situazione stava precipitando, Giuliano aveva cominciato anche a sputare sangue dalla bocca. Il giorno dopo la fuga dal ritiro alle 9 del mattino si presentò a casa il medico della Roma insieme a un'infermiera. Voleva fare un'iniezione "prodigiosa", ma Giuliano rifiutò. Martedì 11 marzo ricominciò ad allenarsi. Giovedì 13 marzo fu convocato per la partita di Cagliari. Non voleva andare, ma partì ugualmente. La sera mi telefonò. Si sentiva a pezzi, ma Helenio Herrera voleva che giocasse almeno un tempo per poi utilizzarlo il mercoledì successivo a Brescia in Coppa Italia. Sabato sera disse che aveva nuovamente la febbre. Quella notte si sentì male, ma il medico della Roma non ritenne necessario il ricovero in ospedale. La domenica mattina fece un allenamento leggero in riva al mare. Sotto la doccia svenne. A quel punto decisero che non era il caso che giocasse. Gli diedero un'aspirina, seguì la partita in tribuna, al rientro negli spogliatoi bevve un'aranciata e si sentì male. Gli fecero tre iniezioni, poi chiusero gli spogliatoi e invece di chiamare con urgenza un'autombulanza cercarono di ripulire lo spogliatoio. Ci fu il tentativo disperato di salvarlo anche da parte di un giornalista e di un professore Isef che stavano negli spogliatoi. Gli fecero la respirazione bocca a bocca. Queste persone non sono mai state interrogate. Anche questo è un altro mistero da chiarire. Dopo la morte, Giuliano è stato ucciso una seconda volta con tutte le menzogne che sono state dette e scritte e con tutte le promesse non mantenute nei confronti della sua famiglia. Per vivere abbiamo raccolto gli avanzi anche nei cassonetti della spazzatura».

Chi ha promesso e non ha mantenuto di aiutarvi?
«Tutti. I dirigenti della Roma di allora. La Federcalcio. Nel 1979 il presidente romanista Viola giurò davanti a una fotografia di mio marito che mi avrebbe trovato un posto nella filiale del Banco di Roma di Pisa. Nel 1994 Sensi promise durante il «Processo di Biscardi» che mi avrebbe aiutato. Intervenne Maurizio Mosca e disse che avrebbe dovuto trovarmi un lavoro e lui, testuale, rispose che quello che avrebbe fatto sarebbe stato molto più di un lavoro. In 30 anni solo promesse e neppure uno straccio di lavoro».

Dopo tutto questo tempo che cosa si sente di chiedere ancora?
«Chiedo giustizia. Chiedo la verità».

Intervista di Stefano BoldriniLa Scheda
Giuliano Taccola nacque il 28 giugno 1943 a Uliveto Terme (Pisa). Centravanti, le sue squadre furono Entella (C) Alessandria, Genoa e Varese (B), infine la Roma (41 partite e 17 gol dal 1967 al 1969).
La sua è la stata la prima morte oscura del calcio. Emerse, all'epoca, uno scenario inquietante.
Taccola aveva sostenuto negli ultimi tre anni solo una visita medica, nel 1966, quando ancora giocava nel Genoa, dove gli fu riscontrato il cosiddetto soffio a cuore.
Alla Roma non esisteva una sua cartella clinica nonostante il suo difetto cardiaco reclamasse esami di controllo ogni due mesi.
L'inchiesta, avviata nel marzo 1969, fu archiviata nel gennaio 1971.
Nessun colpevole: «Non sono emerse responsabilità penali» la sentenza. Resta solo il verdetto dell'autopsia: «Insufficienza cardiorespiratorio acuta».
E i sospetti della moglie che da 40 anni chiede giustizia .
mauretto58
00venerdì 2 ottobre 2009 14:31
I GRANDI DRAMMI - ANDREA FORTUNATO

Andrea Fortunato a soli 23 anni si ammalò di leucemia linfoplastica acuta. Dopo due trapianti di midollo osseo, il decorso post operatorio lasciò pensare ad un totale recupero; ma Fortunato morì, dopo una polmonite, il 25 aprile 1995Storie di Calcio •

ANDREA
FORTUNATO

Morire dopo aver appena assaporato le gioie intense di una brillante carriera sportiva, dopo aver raggiunto il top: la maglia numero 3 della Juventus, la Nazionale.
Gloria, fama, soldi: poi, all'improvviso, un destino spietato. Un tunnel buio senza uscita chiamato leucemiaIl pallone lo induce ad abbandonare Salerno, la città dove era nato il 26 luglio 1971, all'età di 13 anni.
Lo affascina la grande avventura del calcio vero, comincia a tirare calci con un'ottica professionale a Como, profondo Nord, senza che peraltro quel suo viaggio sia riconducibile agli stereotipi dell'emigrante con la valigia di cartone.
Di famiglia della buona borghesia (il padre cardiologo, la mamma bibliotecaria, un fratello avvocato e una sorella laureata in lingue), il ragazzino che gioca tra i dilettanti della Giovane Salerno ottiene il permesso di dare la scalata al mito del pallone soltanto a patto di proseguire negli studi. Allenamenti e scuola, senza perdere un colpo, fino al diploma di ragioniere "perche' nel calcio non si sa mai".

A Como Fortunato debutta in serie B il 29 ottobre 1989 (Como Cosenza 1-0). Colleziona 16 presenze in quella stagione turbolenta, caratterizzata da continui cambi in panchina e culminata con la retrocessione in serie C. E' Eugenio Bersellini, chiamato a gestire la resurrezione comasca, ad esporre in vetrina quel diciannovenne pieno di grinta (27 presenze in C1) che difatti trova subito un compratore.
Per quattro miliardi Aldo Spinelli se lo porta a Genova, riflettori di serie A ma la prospettiva di una lunga coda dietro il brasiliano Branco, titolare della cattedra di terzino sinistro.
Quello tra Fortunato e il Genoa non è però amore a prima vista. Un litigio con Maddè, il braccio destro di Bagnoli, costa al ragazzo di Salerno l'esilio novembrino a Pisa (serie B e 25 presenze).
"Io non so se Bagnoli non credesse in me - confidò un giorno Andrea - Ma forse ho pagato quella nomea di arrogante, di testa calda, che qualcuno ha costruito su di me. Comunque devono mangiare sassi prima di scalzarmi". Testardo, ambizioso ma pure generoso ("In campo darei l'anima anche per mille lire"), Fortunato sa risalire la corrente al suo rientro dal "confino". Bagnoli e Madde' del resto sono stati risucchiati dall'Inter, Giorgi diviene subito suo sponsor, a mettersi in coda per la cattedra di terzino sinistro stavolta tocca a Branco. Campionato eccellente, questo del debutto in serie A, con 33 presenze e 3 gol, l'ultimo segnato al grande Milan.
Lui e il collega di reparto Panucci stuzzicano gli appetiti della Juve che avrebbe voluto acquistarli in blocco. Si dice che Spinelli avesse deciso di privarsi del solo Panucci (che nel frattempo, fatti i suoi calcoli, aveva scelto di puntare sul Milan) ma, così almeno narrano le leggende metropolitane, Fortunato riuscì comunque ad ottenere disco verde per la fuga approfittando dello "stato di bisogno" del suo presidente. Dopo una trasferta a Pescara, con il Genoa arenato in acque pericolose, Spinelli gli sussurra infatti: "Andrea, aiutami a salvare la squadra e ti lascerò andare".
Così arriva la Juve sulle tracce del nuovo Cabrini. E dopo la Juve (27 presenze e un gol) giunge pure la nazionale, con il debutto a Tallinn, il 22 settembre '93, in occasione del 3-0 all'Estonia, unica sua apparizione azzurra.È una corsa verso la gloria apparentemente inarrestabile ma poi, improvviso, il crollo. L'inizio della fine ha una data precisa: venerdi' 20 maggio 1994. Andrea e' stanco, irriconoscibile in campo, lui che e' sempre stato un concentrato esplosivo di energia; fatica a recuperare, e' tormentato da una febbriciattola allarmante. Il dott. Riccardo Agricola, responsabile del servizio sanitario bianconero, prescrive una serie di analisi. La diagnosi mette subito paura: leucemia acuta linfoide, fattore Filadelfia positivo. Quanto di peggio ci si poteva immaginare.
Fortunato ricoverato nella Divisione Universitaria di ematologia dell'ospedale Molinette. "Puo' farcela - dicono i medici -, Andrea e' giovane, la sua tempra robusta lo aiutera'".
Ma l'ottimismo di facciata e' una pietosa bugia. Gli specialisti sanno bene che solo un trapianto con un donatore compatibile potra' restituire la vita a quel ragazzo coraggioso, assistito dalla fidanzata, Lara, e dai genitori, mamma Lucia e papa' Giuseppe, che e' cardiologo all'ospedale di Salerno e che ha l'immediata percezione del dramma. Tre settimane di terapia intensiva. Un netto miglioramento, valori verso la normalita'. L'organismo combatte, i globuli bianchi in eccesso spariscono, tecnicamente si parla di remissione completa della malattia.Un passo importante. "Voglio farcela, voglio vincere questa guerra terribile", dichiara il giocatore. Ma la battaglia e' ancora lunga. I medici non riescono a reperire, in tutto il mondo, un donatore compatibile per il trapianto. Sono solo tre i potenziali donatori, ma tutti troppo lontani.
Cosi' il 9 luglio si tenta un'altra strada. Fortunato viene trasferito a Perugia, al Centro Trapianti diretto dal dott. Andrea Aversa e dal prof. Massimo Martelli. Sono passate sette settimane.
Nel giorno del suo ventitreesimo compleanno, il 26 luglio, gli vengono infuse le cellule sane della sorella Paola, opportunamente "lavorate". Poi seguono altri due innesti. Ci vorranno un paio di settimane per avere certezza che il midollo si sia spontaneamente rigenerato. L'11 agosto si annuncia come un'altra data importante: Fortunato viene trasferito in un reparto pre-sterile. Combatte, fino a quando le forze lo sorreggono. Parla al telefono con i compagni, puo' leggere qualche giornale "sterilizzato", segue la sua Juve in tv. Andrea si e' ormai reso conto che la battaglia e' piu' dura del previsto, pero' scova insospettabili forze.

Poi, dopo Ferragosto, il primo crollo. Il suo organismo non ha assorbito le cellule della sorella Paola.
Il rigetto fa ripiombare Andrea nella disperazione. Si tenta ancora, si spera in un altro miracolo. Papa' Giuseppe prova a donargli le cellule del suo midollo. Ad Andrea inizialmente non lo dicono, si parla di normali terapie. Eppure la seconda infusione sembra miracolosamente attecchire, anche se allarma una febbre persistente. Il fisico reagisce bene, Fortunato torna in un reparto "normale", puo' perfino iniziare una riabilitazione in palestra. Il 14 ottobre lascia la camera d'ospedale. I compagni (Ravanelli, Vialli e Baggio, su tutti) lo incoraggiano, lo tempestano di telefonate: "Ti aspettiamo". L'ottimismo si fa nuovamente strada.
Ma è un'illusione: il 25 aprile 1995 una banale influenza riesce a piegare il fisico da gigante ma ancora immunodepresso di Fortunato.
mauretto58
00martedì 6 ottobre 2009 14:28
JOHAN CRUIJFF




Dati biografici

Nome Hendrik Johannes Cruijff
Nato 25 aprile 1947
Amsterdam
Paese Paesi Bassi


Altezza 178 cm
Peso 68 kg

Ritirato

1984 - giocatore
1996 - allenatore

Carriera
=========
Giovanili
1959-1964 Ajax
Squadre di club
1964-1973 Ajax 240 (190)
1973-1979 Barcellona 143 (48)
1979-1980 L.A. Aztecs 28 (14)
1980-1981 Diplomats 32 (12)
1981 Levante 10 (2)
1981-1983 Ajax 36 (14)
1983-1984 Feyenoord 33 (11)
Nazionale
1966-1978
Olanda
Catalogna 48 (33)

Carriera da allenatore
1986-1988 Ajax
1988-1996 Barcellona
Incontri disputati


Palmarès
Mondiali di calcio
Argento Germania Ovest 1974
Europei di calcio
Bronzo Jugoslavia 1976



« Non è un attaccante, ma fa tanti gol; non è un difensore ma non perde mai un contrasto; non è un regista ma gioca ogni pallone nell'interesse dei compagni »
(Alfredo Di Stefano[1])

Hendrik Johannes Cruijff, detto Johan e spesso scritto Cruyff al di fuori dei Paesi Bassi ([/'jɔaŋ 'krœff/]pronuncia [?]; Amsterdam, 25 aprile 1947), è un ex calciatore e allenatore di calcio olandese.

È annoverato tra i più grandi calciatori della storia e fu l'interprete più emblematico del calcio totale con cui l'Ajax e l'Olanda di Rinus Michels rivoluzionarono la storia del calcio tra la seconda metà degli anni sessanta e la prima metà dei settanta.

Fu eletto Pallone d'oro per tre volte (1971, 1973, 1974).




Caratteristiche tecniche
Straordinario talento, ambidestro, potente ed elegante al tempo stesso, benché non ricoprisse un ruolo ben definito, poteva essere considerato un centravanti di manovra o un trequartista, che univa un'eccezionale velocità in allungo a una tecnica sopraffina, occupandosi al tempo stesso sia dell'impostazione della manovra sia della sua finalizzazione.

Imprendibile per ogni difensore quando partiva palla al piede, soprattutto nei primi 5 metri di scatto, era dotato di un dribbling fulmineo e cambiava continuamente posizione sul terreno di gioco, portandosi dietro il suo marcatore di turno.

Calciatore universale, capace di salvare il pallone sulla linea della propria porta o di pressare gli attaccanti avversari, per poi andare al tiro nell'area di rigore avversaria in pochi secondi.

Fra nazionale e squadre di club ha realizzato 425 reti in 752 partite.

Da alcuni esperti è ritenuto il giocatore più completo di sempre: tra questi spicca Alfredo Di Stefano che lo defini' "un attaccante senza fissa dimora".[senza fonte]

Per la somiglianza tecnica con Pelé veniva soprannominato il Pelé bianco.

Carriera
Entrò a far parte del settore giovanile dell'Ajax a dodici anni, nel ruolo di mezzala, debuttando poi in prima squadra già nel 1964 in Groningen-Ajax.La settimana successiva realizzò già il suo primo goal in Ajax-PSV Eindhoven. Nel gennaio del 1965 l'allenatore viene esonerato, e a prendere il suo posto è Rinus Michels, centravanti ex-Ajax e Nazionale Olandese. Fu così che per Cruyff e la squadra iniziò una nuova era, quella del "Calcio Totale". Dopo aver evitato la retrocessione nel 1964/65 la squadra avvia un ciclo virtuoso contrassegnato da tre vittorie consecutive in campionato e una in Coppa d'Olanda. Benché giovanissimo, Cruyff era il giocatore più rappresentativo. Infatti pur non essendo un attaccante puro, segnava con regolarità arrivando persino a realizzare 33 goal in 30 partite nel torneo 1966/1967. Il 1969 è l'anno della prima finale in Coppa dei Campioni contro il Milan di Nereo Rocco. Nonostante la prestazione deludente di tutta la squadra olandese (persero 4-1), Cruyff fu l'unico a mettere veramente in difficoltà la difesa milanista, la quale affidò a un intraprendente Trapattoni il compito di mettere a freno il talento del giovane calciatore. Il 1971 è l'anno della prima vittoria in Coppa dei Campioni: con una grande prova l'Ajax travolse il Panathinaikos con doppietta di Arie Haan. Sulla scia del trionfo europeo Cruyff verrà premiato con il suo primo Pallone d'oro. Nel 1971/72 Michels lascia il posto a Stefan Kovacs. Le impostazioni di gioco introdotte, che si sono rivelate vincenti, non vengono cambiate. Col nuovo allenatore i lancieri arrivano in finale di Coppa dei Campioni contro l'Inter di Sandro Mazzola, e la finale si gioca a Rotterdam in casa dei rivali storici dell'Ajax. In quella partita Cruyff fu protagonista assoluto di una prestazione superlativa facendo letteralmente ammattire un giovanissimo Gabriele Oriali e realizzando una doppietta. In vantaggio di un goal, i compagni di squadra gli distribuivano palloni invitanti e lui si esibiva giocate individuali straordinarie suscitando la meraviglia e l'esaltazione del pubblico. Tra il 1965 e il 1973, vinse sei scudetti, tre Coppe dei Campioni, una Coppa Intercontinentale e due Supercoppe europee. Perse la finale di Coppa dei Campioni 1968-1969 contro il Milan.

Dal 1973 al 1979 vestì la maglia del Barcellona, con cui vinse un campionato spagnolo. Tra la fine degli anni Settanta e l'inizio degli anni Ottanta giocò in America nel neonato campionato statunitense. Ritornò poi in Spagna, stavolta nel Levante, e chiuse la carriera in Olanda, prima di nuovo con l'Ajax e poi con il Feyenoord (1984) giocando da libero. Cruijff, che ebbe moltissima fortuna con le squadre di club, non riuscì ad avere altrettanto successo con la nazionale olandese: fu vicecampione del mondo nei mondiali del 1974, anno in cui l'Olanda perse la coppa in finale sconfitta per 2 a 1 dalla Germania Ovest. Nel 1978 doveva partecipare al Mondiale in Argentina, ma essendo l'Argentina dal 1976 soggetta a una dittatura militare, il campione olandese rifiutò di schierarsi con la propria squadra compiendo così un enorme gesto simbolico. Inoltre come giocatore si aggiudicò per tre volte il Pallone d'oro: nel 1971, nel 1973 e nel 1974.

Allenatore
Anche come allenatore Cruijff ha tagliato traguardi molto prestigiosi. Ha guidato l'Ajax dal 1986 al 1988 e il Barcellona dal 1988 al 1996. Con gli spagnoli ha vinto quattro campionati, una Coppa dei Campioni e una Coppa delle Coppe. Si ritirò dal mondo del calcio nel 1997 a causa di seri problemi di salute di natura cardiaca, tanto è vero che dovette sottoporsi a un delicato intervento al cuore per l'applicazione di alcuni by-pass.

Dopo il ritiro
In occasione del suo sessantesimo compleanno, l'Ajax ha ritirato la maglia numero 14 che gli era appartenuta,[2] numero che Cruijff aveva fortemente voluto(a 14 anni infatti vinse il suo primo campionato professionistico),dopo aver donato il suo "9" ad un giocatore che di solito usava il 6 o il 7. Tale numero gli fu consentito anche nella nazionale olandese, ma non nel Barcellona, dal momento che nel campionato spagnolo, a quell'epoca, la numerazione delle maglie doveva essere rigorosamente dal numero 1 al numero 11; fu quindi costretto a "ripiegare" sul vecchio numero 9. Attualmente appare in diverse trasmissioni olandesi in veste di Critico Calcistico.

Palmarès

Competizioni nazionali
Campionato olandese: 9
Ajax: 1965/1966, 1966/1967, 1967/1968, 1969/1970, 1971/1972, 1972/1973, 1981/1982, 1982/1983
Feyenoord: 1983/1984
Coppa d'Olanda: 6
Ajax: 1966/1967, 1969/1970, 1970/1971, 1971/1972, 1982/1983
Feyenoord: 1983/1984
Campionato spagnolo: 1
Barcellona: 1973/1974
Coppa di Spagna: 1
Barcellona: 1977/1978
Competizioni internazionali
Coppa dei Campioni: 3
Ajax: 1970/1971, 1971/1972, 1972/1973
Supercoppa UEFA: 2
Ajax: 1971, 1972
Coppa Intercontinentale: 1
Ajax: 1972
Individuale
Pallone d'oro: 3
1971, 1973, 1974
Golden Shoe: 1
1984
Allenatore
Competizioni nazionali
Coppa d'Olanda: 2
Ajax: 1985/1986, 1986/1987
Coppa di Spagna: 1
Barcellona: 1989/1990
Campionato spagnolo: 4
Barcellona: 1990/1991, 1991/1992, 1992/1993, 1993/1994
Competizioni internazionali
Coppa dei Campioni: 1
Barcellona: 1991/1992
Coppa delle Coppe: 2
Ajax: 1986/1987
Barcellona: 1988/1989
Supercoppa UEFA: 1
Barcellona: 1992
Curiosità
Crujiff si è distinto per una spiccata sensibilità politica,che lo ha portato spesso ad entrare in conflitto con la sua nazionale. Nel 1978, assieme al maoista Paul Breitner, decise di non prendere parte ai mondiali di Argentina per protestare contro la dittatura della giunta militare argentina. Nel 1973, dopo essere stato ingaggiato dai blaugrana, dichiarò di aver scelto il Barcellona perché, rispetto al Real Madrid, era la squadra antifranchista.
Sono numerosi i suoi soprannomi: il Tulipano Volante, il Pelé bianco, il Papero d'oro, il Profeta del gol, che fu anche il titolo dell'omonimo film biografico, curato dal giornalista Sandro Ciotti. Crujiff venne addirittura scartato dal servizio militare per colpa dei suoi piedi, decisamente piatti e con la caviglia sformata. Proprio i suoi piedi eccezionalmente buoni contribuirono a renderlo famoso nel mondo. Per questa sua caratteristica fu soprannominato con il nome di "Papero d'oro".
Nel documentario di Sandro Ciotti girato nel 1976 Johan affermava che la sua capacità di superare l'avversario nell'"uno contro uno" non fosse legata solamente alla sua velocità e alla sua accelerazione fulminea ma anche, alla caratteristica che si attribuiva, di cominciare a correre un attimo prima e di bruciarlo quindi sul tempo.
Cruijff è con ogni probabilità l'unico calciatore (insieme a van Basten), quanto meno in sfide ad alto livello, ad aver realizzato una rete su calcio di rigore non calciando direttamente la palla in porta, ma indirizzandola volontariamente al compagno di squadra Jesper Olsen e segnando la rete dopo il suo passaggio di ritorno. Il fatto è avvenuto il 5 dicembre 1982 nella partita del Campionato olandese fra Ajax ed Helmond, terminata 5-0 per i "lancieri".
Ebbe una speciale deroga dalla federazione olandese di giocare con la maglietta n° 14, suo numero portafortuna, poiché la numerazione ufficiale andava dal numero 1 al numero 11.
Durante i mondiali del 1974 la nazionale olandese era sponsorizzata da Adidas, ma Cruijff era un testimonial Puma, acerrima rivale dell'azienda che sponsorizzava la nazionale. Poiché Puma non poteva permettere che il suo uomo simbolo scendesse in campo con le tre strisce sulle maniche, simbolo storico dei rivali, fece pressione e ottenne dalla federazione olandese che Cruijff, unico in tutta la squadra, scendesse in campo con una divisa che presentava solamente due strisce.
La madre di Cruijff, nel documentario realizzato da Sandro Ciotti, racconta che da piccolo era praticamente impossibile separarlo dal pallone e che, una dopo l'altra, il piccolo Johann abbia rotto tutte le finestre del quartiere di Betondorp, città in cui viveva.
Ha un figlio, Jordi Cruijff, chiamato così per San Giorgio, patrono di Barcellona, nato mentre il padre giocava per i catalani, che negli anni '90 ha provato a seguire le orme del padre arrivando a giocare in squadre come FC Barcelona, Manchester United, Celta Vigo, Alavés, Espanyol e FC Metalurh Donetsk, raggiungendo anche la nazionale maggiore olandese. Figlio d'arte, ha molto sofferto il nome del padre, non essendo riuscito a mantenere costante il suo rendimento in una carriera di alti e bassi.
È un amante e appassionato del Golf, sport che ama praticare con gli amici.
Jorge Valdano lo definì un grande leader carismatico, con un orgoglio molto maleducato a causa delle troppe vittorie. Celeberrima fu la loro discussione in un match Barcellona-Real Madrid che Valdano racconta così: «Dopo che io lo contrastai, lui si lamentò con l'arbitro chiedendo il fallo, e non voleva riconsegnarci il pallone: così io, un po' seccato, chiesi di continuare a giocare con un altro pallone. Lui mi venne vicino e mi chiamò; "Che vuoi?" gli risposi io con aria seccata, al che lui mi disse: "Quanti anni hai ragazzo?", "21 anni". Così mi rispose: "A 21 anni... a Johan Cruijff... si dà del lei..."».
Il celeberrimo slogan "el Barça es mes que en club" (il Barcellona è più di un club) è stato coniato da lui,c ome la famosissima frase "en un momento dado".
Suo zio Henk vedendo la sua bravura lo propose all'allenatore delle giovanili dell'Ajax
mauretto58
00mercoledì 7 ottobre 2009 01:10
DRAMMI NEL CALCIO -
Calcio scozzese, la morte torna nel calcio
Pubblicato da Sabino Lops alle 16:12 in Il calcio nel dramma


Dopo quella di Puerta dello scorso agosto, un’altra tragedia scuote il mondo del calcio.

Il capitano del Motherwell Phil O'Donnell è morto poco dopo essere stato ricoverato in seguito ad un malore avuto in campo, durante la partita contro il Dundee United, partita valevole per la 20esima giornata della massima divisione del calcio scozzese.

Il giocatore, 35 anni, si e' accasciato al suolo verso la fine della partita, al momento della sua sostituzione ed è stato immediatamente trasportato con una barella sull'ambulanza che lo ha poi portato in ospedale.
"Uncle Phil", come lo chiamavano i tifosi, aveva giocato una volta anche nella nazionale maggiore scozzese, aveva esordito nel calcio professionistico proprio nel Motherwell, prima di trasferirsi al Celtic e successivamente in Inghilterra allo Sheffield Wednesday. Al Motherwell era tornato nel 2004, per concludere la carriera nella squadra da cui era partito, ed in cui gioca anche suo nipote David Clarkson. Dopo l'annuncio della morte del capitano, centinaia di tifosi si sono riuniti e poi raccolti in preghiera davanti allo stadio del Motherwell, il Fir Park. “Purtroppo, non posso che confermare la tragica notizia della scomparsa di O'Donnell - ha detto il presidente del Motherwell Bill Dickie - Non sappiamo ancora quali siano stati i motivi della sua morte. So solo che siamo di fronte ad un'immensa tragedia”.

”Che posso dire... - è riuscito a balbettare il manager del Motherwell, Mark McGhee - è una cosa devastante, e questa sensazione vale per tutto il club, soprattutto pensando alla moglie di Phil ed al loro piccolo figlio. Ma non li abbandoneremo, daremo loro tutto il nostro sostegno”.

Ancora una volta, dunque, la morte torna a “calcare” un campo di calcio.
mauretto58
00sabato 10 ottobre 2009 12:50
DRAMMI NEL CALCIO - DANIEL JARQUE
Espanyol piange Jarque, Spagna rivive il dramma Puerta.
Il quotidiano sportivo spagnolo Marca titola: "Al calcio si spezza di nuovo il cuore".




E'stata una crisi cardiaca a togliere la vita a Daniel Jarque, il capitano dell'Espanyol morto in seguito ad un malore accusato nella sua stanza nel centro tecnico di Coverciano, nei pressi di Firenze.

Il club di Barcellona, volato in Italia per un'amichevole con il Bologna, ha fatto sapere che Jarque, difensore centrale, è deceduto in seguito ad una crisi sistolica nonostante diversi tentativi di rianimazione. "Il medico ha effettuato il massaggio cardiaco al giocatore ed ha utilizzato un defibrillatore", ha fatto sapere l'Espanyol. Il club catalano ha precisato che "pochi minuti dopo" è giunta sul posto da un vicino ospedale un'ambulanza: dopo l'arrivo dei soccorsi Jarque è stato sottoposto "per un'ora defibrillazioni, massaggi cardiaci e somministrazioni di adrenalina e atropina": "Ma il cuore del giocatore non ha reagito - continua la ricostruzione dell'Espanyol - e quindi è stato stabilito il decesso".

Jarque, nominato a luglio capitano della squadra di Barcellona, vestiva il biancoblu del club dall'età di 12 anni. Nel 2002 debuttò in prima squadra e nel 2006 contribuì alla conquista della Coppa del Re. Il quotidiano sportivo spagnolo Marca ha dedicato la prima pagina alla morte di Jarque con un titolo eloquente: "Al calcio si spezza di nuovo il cuore", riferimento chiaro ai decessi - tutti dovuti a crisi cardiaca - del centrocampista del Siviglia Antonio Puerta, del mediano della nazionale del Camerun Marc-Vivien Foe e del centrocampista degli scozzesi del Motherwell, Phil O'Donnell.

mauretto58
00sabato 10 ottobre 2009 12:53
DRAMMI NEL CALCIO - ANTONIO PUERTA ............. ANDAVA FERMATO!!!!!!!!!!!
SPORT - CALCIO

Parla il professor Furlanello, che diede lo "stop" all'ex campione Fioravanti
"Se si fanno esami opportuni non è difficili diagnosticare la malattia"
Dramma Puerta, la diagnosi del male
Il cardiologo: "Andava fermato"
di EUGENIO CAPODACQUA

Antonio Puerta
ROMA - Professor Furlanello, lei che è uno dei più noti cardiologi sportivi, e per problemi di cuore ha "fermato" anche l'ex campione del nuoto Fioravanti, come giudica la morte di Puerta per "displasia ventricolare destra aritmogenica"?
"E' una patologia molto nota ed è la causa più frequente della morte improvvisa fra i giovani e fra gli sportivi in particolare".

A cosa è dovuta?
"Si tratta di un male congenito; sono stati identificati geni specifici che provocano la mutazione del ventricolo destro del cuore: la parte muscolare va in atrofia e viene sostituita da un tessuto fibroso e adiposo. Così perde la sua funzione".

Si può morire all'improvviso per un male simile?
"E' un male che evolve di solito molto lentamente, essendo una patologia che crea nel cuore delle zone "aritmogene" dove l'attività elettrica viene destabilizzata e lo sport complica la situazione. Ma si sono verificati casi anche silenti e improvvisi e la morte diventa la prima manifestazione della malattia".

E' facile da diagnosticare?
"Se si fanno gli esami opportuni non è difficilissimo. Da noi in Italia i problemi cardiaci sono affrontati con molta attenzione. Qualsiasi cardiologo sportivo è in grado di individuare i primi sintomi di questa malattia con una serie di esami che vanno dall'elettrocardiogramma che può presentare un andamento caratteristico della frequenza. Anche se non è facile, perché spesso la frequenza cardiaca dello sportivo si discosta dalla norma per effetto dell'allenamento intenso e continuato. Ma ci sono anche altri test: l'ecocardiogramma, la risonanza magnetica, le prove da sforzo, l'holter, lo studio genetico e familiare per rilevare eventuali tare ereditarie. E' importante valutare bene e presto i segnali perché alle volte i primi sintomi possono essere fatali".

In caso di diagnosi cosa si fa?
"Lo stop immediato dell'attività sportiva è obbligatorio da noi. In Spagna non so, non conosco la legge di quel paese. So solo che quanto a morte improvvisa un atleta è predisposto tre volte più di un soggetto normale. Cioè rischia tre volte di più".

Come è possibile che venga colpito un giovane di appena 22 anni; un calciatore professionista, seguito e visitato continuamente da esperti e staff medici, come si suppone accada nel Siviglia?
"Ci sono dei casi in cui questo tipo di patologia si evidenzia all'improvviso. E' chiaro che, se ci fossero stati segnali precedenti alla crisi finale, avrebbero dovuto fermare il calciatore".

madrilista
00lunedì 12 ottobre 2009 18:47
I GRANDI DEL CALCIO ------ ALFREDO DI STEFANO--------------

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Dati biografici

Nome Alfredo Stéfano di Stéfano Laulhé
Nato 4 luglio 1926
Barracas
Paese Argentina

Altezza 178 cm


Squadre di club1
1943-1945 River Plate 1 (0)
1946-1947 Huracán 25 (10)
1947-1949 River Plate 65 (49)
1949-1953 Millonarios 102 (88)
1953-1964 Real Madrid 282 (218)
1964-1966 Espanyol 47 (11)
Nazionale
1947
1949
1957-1961 Argentina
Colombia
Spagna 6 (6)
4 (0)
31 (23)
Carriera da allenatore
1967 Elche
1969-1970 Boca Juniors
1970-1974 Valencia
1974 Sporting Lisbona
1975-1976 Rayo Vallecano
1976-1977 Castellón
1979–1980 Valencia
1981–1982 River Plate
1982–1984 Real Madrid
1985–1985 Boca Juniors
1986–1988 Valencia
1990–1991 Real Madrid


Palmarès
Copa América
Oro Ecuador 1947



Alfredo di Stéfano, all'anagrafe Alfredo Stéfano di Stéfano Laulhé (Barracas, 4 luglio 1926), è un ex calciatore e allenatore di calcio argentino naturalizzato spagnolo, di origini italiane ed irlandesi,[senza fonte] da molti esperti ritenuto il migliore calciatore di tutti i tempi[1]. In carriera ha vestito la maglia di tre nazionali diverse: Argentina, Colombia e, infine, Spagna.

Autorevoli correnti di pensiero (tra cui l'esperto giornalista Rino Tommasi) lo giudicano il miglior giocatore della storia del calcio, superiore persino a Pelé e Maradona.

Lo stesso Pelé lo ritiene il giocatore più forte di sempre.




Carriera

Figlio di immigrati italiani provenienti da Capri, celeberrima isola del Golfo di Napoli, a soli 15 anni entrò nella rosa della seconda squadra del River Plate, per approdare l'anno successivo in prima squadra dove si affiancò ad altri nomi straordinari che fecero il grande River degli anni Quaranta.

Passato al Millonarios (Colombia) nel 1949, contribuì con i suoi 157 gol in 182 partite a farne la più grande squadra della storia della Colombia, vincendo tre campionati in quattro anni.

Ma è al Real Madrid, cui si trasferisce a inizio 1953, che la stella di Alfredo Di Stefano conobbe il suo maggior splendore: bastano i numeri a descriverlo, 8 campionati spagnoli, 5 Coppe dei Campioni (in cui andò sempre a segno nelle rispettive finali, unico nella storia a riuscirci), una Coppa Intercontinentale e tantissimi riconoscimenti a livello mondiale tra cui spiccano due Palloni d'Oro.

Il suo passaggio al Real Madrid, avvenuto nel 1953, fu controverso: destinato al Barcellona, che lo aveva ormai acquistato, passò invece alle Merengues a causa dell'intervento del generale Francisco Franco, che decise che il giocatore avrebbe dovuto dividere la sua carriera tra le due squadre, giocando una stagione a Barcellona ed una a Madrid; i blaugrana, indignati, lasciarono allora il giocatore al club della capitale.

Nel 1964 si trasferì all'Espanyol dove giocò fino al 1966 e chiuse la sua carriera all'età di 40 anni.

Attualmente è presidente onorario del Real Madrid.

Nazionale [modifica]
Di Stéfano durante la sua carriera ha giocato per tre nazionali diverse: 6 partite con l'Argentina, 4 con la Colombia e, infine, 31 con la Spagna senza riuscire però mai a disputare una partita della fase finale della Coppa del Mondo.

Nel 1947, a soli 21 anni debuttò con la maglia della nazionale argentina, con la quale vinse la Coppa America segnando ben 6 gol.

Nel 1950 l'Argentina si rifiutò di partecipare alla Coppa del Mondo, così Di Stéfano perse la sua prima chance di giocarla.

Durante gli anni in cui giocò in Colombia grazie alle sue ottime prestazioni fu convocato dalla nazionale colombiana benché già convocato da quella argentina ma, a causa dei pochi impegni della sua nuova nazionale, Di Stéfano giocò solo 4 partite.

Nel 1956 diventò cittadino spagnolo e finalmente si qualificò con la Spagna per i Mondiali del 1962, ma un infortunio muscolare gli impedì di disputare anche solo una partita. Si ritirerà dopo questa manifestazione.

Curiosità
In Colombia giocò una partita amichevole contro Che Guevara che stava in porta.

Palmarès
Club
Competizioni nazionali
Campionato argentino: 2
River Plate: 1945, 1947
Campionato colombiano: 3
Deportivo Los Millonarios: 1949, 1951, 1952
Coppa di Colombia: 1
Deportivo Los Millonarios: 1953
Campionato spagnolo: 8
Real Madrid: 1953/1954, 1954/1955, 1956/1957, 1957/1958, 1960/1961, 1961/1962, 1962/1963, 1963/1964
Coppa di Spagna: 1
Real Madrid: 1961/1962
Competizioni internazionali
Coppa Latina: 2
Real Madrid: 1955, 1957
Coppa dei Campioni: 5
Real Madrid: 1955/1956, 1956/1957, 1957/1958, 1958/1959, 1959/1960
Coppa Intercontinentale: 1
Real Madrid: 1960
Nazionale
Coppa America: 1
Argentina: 1947
Individuale
Capocannoniere del campionato argentino: 1
1947 (27 gol)
Capocannoniere del campionato colombiano: 2
1951 (31 gol), 1952 (20)
Pichichi della Liga: 5
1953-54 (27 gol), 1955-56 (24), 1956-57 (31), 1957-58 (19), 1958-59 (23)
Capocannoniere della Coppa dei Campioni: 1
1957-58 (10 gol)
Pallone d'Oro: 2
1957, 1959
moscovita
00martedì 27 ottobre 2009 19:41
Lev Yashin: il portiere del secolo!


Guanti da portiere





Salto indietro nel tempo quest’oggi, molto indietro, per incontrare il “portiere del secolo” secondo la classifica Iffhs, Lev Yashin. Anche qui, come per molti altri campioni del passato presentati su queste pagine, è difficile trovare qualcuno che abbia memoria delle sue esibizioni, ma stando ai filmati d’epoca ed alle biografie si può certo immaginare la grandezza di questo numero uno nella sua epoca e in assoluto.

La sua storia è una serie infinita di aneddoti, come quello che vuole “portiere di fabbrica”, non perché controllasse le entrate e le uscite sul posto di lavoro, ma perché si dice che i suoi colleghi gli lanciassero dei bulloni, per verificarne i riflessi. Aveva solo 12 anni Lev e già era costretto a lavorare per mantenersi, figlio di quella Russia povera, immersa nel secondo conflitto mondiale.

Ma la vita grama durò poco e le sue doti eccezionali vennero ben presto notate dagli osservatori della Dinamo Mosca che si assicurarono le sue prestazioni. Il suo debutto nello sport però non avvenne in ambito calcistico, ma su un campo di hockey, dove il giovane Yashin riuscì a conquistare il titolo di campione dell’Urss. Poi il passaggio al calcio e la lunga carrriera a difesa della porta della Dinamo, con la quale vincerà cinque campionati e tre Coppe di Russia.



Difficilmente tentava la presa, preferendo rilanciare il pallone il più lontano possibile per evitare guai, eppure la sua presenza tra i pali dava sicurezza a tutto il reparto arretrato. Una fiducia conquistata a suon di prestazioni al di sopra della media, con 150 rigori parati nel corso della carriera e la bellezza di tre mondiali giocati da titolare (più uno come secondo nel 1970). Grazie alle sua parate l’Urss riuscì anche ad assicurarsi il titolo di Campione d’Europa nel 1960, prima squadra in assoluto a vincere la competizione continentale.








Si racconta anche che dopo ogni rigore respinto Lev trovasse un quadrifoglio nei pressi della rete: un tipo fortunato, ma lo erano molto di più i suoi compagni ad averlo in squadra.

326 gare giocate con la stessa maglia, di cui 207 senza prendere gol: numeri che fanno impressione e che spiegano come mai ad oggi sia l’unico numero uno ad essersi aggiudicato il Pallone d’Oro.

Il Ragno Nero (chiamato così per via del colore della divisa che indossava) morì nel 1990, consumato da un cancro allo stomaco, dove aver subito l’amputazione di una gamba quattro anni prima. A lui è dedicato un premio, assegnato ogni quattro anni al miglior portiere dei Mondiali di calcio e finora vinto da Michel Preud’Homme, Fabien Barthez, Oliver Kahn e Gigi Buffon.

E chissà se tra questi il grande Lev avrebbe individuato il suo erede…
rossonero
00venerdì 6 novembre 2009 20:00
GIANNI RIVERA


Dati biografici

Nome Giovanni Rivera
Nato 18 agosto 1943
Alessandria
Paese Italia

Altezza 175 cm
Peso 68 kg
Dati agonistici
Disciplina Calcio

Ruolo Mezzala - regista
Squadra
Ritirato 1979
Carriera
Giovanili
Alessandria
Squadre di club
1958-1960 Alessandria 26 (6)
1960-1979 Milan 501 (122)
Nazionale
1962-1974 Italia 60 (14)
Carriera da allenatore
Incontri disputati


Palmarès


Mondiali di calcio
Argento Messico 1970
Europei di calcio
Oro Italia 1968

Giovanni Rivera detto Gianni (Alessandria, 18 agosto 1943) è un ex calciatore e politico italiano di ruolo mezzala e regista, campione europeo nel 1968 e vice-campione mondiale nel 1970 con la Nazionale italiana.

Soprannominato Golden boy, "ragazzo d'oro" del calcio italiano è stato il primo calciatore italiano a vincere, nel 1969, il Pallone d'oro.

Occupa la 19a posizione nella speciale classifica dei migliori calciatori del XX secolo pubblicata da IFFHS.

Indice
1 Caratteristiche tecniche
2 Carriera
2.1 Club
2.2 Nazionale
2.3 Dopo il ritiro
2.3.1 Carriera politica
3 Statistiche
3.1 Presenze e reti nei club
3.2 Cronologia presenze e reti in nazionale
4 Palmarès
4.1 Club
4.1.1 Competizioni nazionali
4.1.2 Competizioni internazionali
4.2 Nazionale
4.3 Individuale
5 Curiosità
6 Voci correlate
7 Collegamenti esterni
8 Note


Caratteristiche tecniche
Il suo gioco, basato su una innovativa visione strategica e caratterizzato da soluzioni d'attacco imprevedibili e fantasiose, ha anticipato i tempi e la sua personalità lo portava a modernizzare e rinnovare la figura professionale del calciatore. Queste sue virtù gli hanno tuttavia creato difficoltà nella sua esperienza con la nazionale di calcio e gli hanno attirato numerose critiche dai tradizionalisti del gioco duro e sostenitori del "catenaccio", famosa soprattutto quella del giornalista sportivo Gianni Brera, che lo riteneva troppo raffinato e tattico, poco disposto al sacrificio atletico e troppo leggero nel gioco di copertura, definendolo "Abatino". [1] È ricordato come uno dei migliori e più eleganti giocatori della storia del calcio italiano. Dotato di un fisico tutt'altro che possente, la sue armi vincenti erano l'eleganza, la straordinaria visione di gioco, la capacità di rifornire gli attaccanti con passaggi imprevedibili e di millimetrica precisione. La sua predilezione come rifinitore non gli ha comunque impedito di esaltare anche le doti offensive e balistiche, tanto da risultare capocannoniere nel campionato 1972-73, mantenendo discrete medie realizzative per tutta la carriera agonistica.

Carriera
Club
Scoperto da Franco Pedroni, ex difensore del Milan e vice-allenatore dell'Alessandria, nel 1959 esordì in Serie A – a sedici anni non ancora compiuti – con la maglia della formazione piemontese nella partita Alessandria-Inter terminata 1-1.

Con il Milan, in cui militò dal 1960 per 19 stagioni, giocò complessivamente 658 partite segnando 164 gol, pur non essendo un attaccante puro, ma un "regista" e vincendo, nel 1973, la classifica cannonieri, a pari merito con Paolo Pulici e Giuseppe Savoldi, con 17 gol segnati.

Con i rossoneri di Milano centrò tre titoli nazionali (1962, 1968 e 1979), quattro Coppe Italia (1967, 1972, 1973 e 1977), due Coppe dei Campioni (1963 e 1969), una Coppa Intercontinentale (1969) e due Coppe delle Coppe (1968 e 1973).

Fu il primo italiano ad aggiudicarsi il Pallone d'oro (1969), dopo avere vinto quello d'argento nel 1963 alle spalle del portiere sovietico Lev Yašhin.

Fu convocato in tre occasioni in formazioni internazionali: la prima volta nel 1967 in occasione di una gara celebrativa per il portiere Ricardo Zamora (Selezione Internazionale-Spagna 3-0), la seconda nel 1972 giocata in onore del tedesco Uwe Seeler (Resto d'Europa-Amburgo 7-3), e l'ultima nel 1975 in omaggio al belga Paul Van Himst (Selezione Mondiale-Anderlecht 3-8).

Fu capitano del Milan per 12 stagioni; nel 1968 fu tra i soci fondatori dell'Associazione Italiana Calciatori, nata per iniziativa dell'ex calciatore ed avvocato Sergio Campana, insieme ad altri importanti giocatori dell'epoca come Giacomo Bulgarelli, Giancarlo De Sisti, Sandro Mazzola, Antonio Juliano e altri.

Un giovane Rivera nei primi anni sessanta Schiaffino e Rivera nel 1960 Nazionale
In Nazionale, con la quale partecipò a ben quattro edizioni dei mondiali (1962, 1966, 1970 e 1974) e fu campione europeo nel 1968, disputò complessivamente 60 partite realizzando 14 reti. Esordì nel 1962 nell'incontro Belgio-Italia (1-3) e concluse la sua esperienza in azzurro al termine della sfortunata spedizione in Germania nel mondiale 1974.

Durante il Mondiale del 1970 fu protagonista, insieme ad Alessandro Mazzola, della famosa "staffetta" che nei piani dell'allenatore Ferruccio Valcareggi prevedeva l'ingresso di Rivera al posto di Mazzola all'inizio del secondo tempo delle partite. Rivera segnò il gol decisivo nella famosa semifinale contro la Germania Ovest (passata alla storia come la partita del secolo), ma giocò solo gli ultimi sei minuti della finale persa con il Brasile, nella quale sostituì Roberto Boninsegna.

Vanta inoltre una presenza con la nazionale B, in cui esordì il 6 maggio 1962, e 9 presenze con 6 reti nella Under-21, in cui esordì il 13 maggio dello stesso anno.

Dopo il ritiro
Ritiratosi dall'attività sportiva all'indomani della conquista del decimo scudetto del Milan nel 1979, è stato vicepresidente del Milan fino al 1986, quando i dissapori con il neo-presidente Silvio Berlusconi determinarono la risoluzione del rapporto con la società.

Carriera politica
Dal 1987 è attivo nel campo politico. Esponente della Democrazia Cristiana nel 1994, in seguito allo scioglimento della DC aderisce al Patto Segni con il quale diviene deputato alla Camera. È stato presidente del Patto Segni e segretario alla Presidenza della Camera (1994-1996), sottosegretario alla Difesa nei governi dell'Ulivo (1996-2001). Nel corso della legislatura ha lasciato il movimento di Mario Segni per aderire prima a Rinnovamento Italiano poi a i Democratici di Prodi, con i quali è entrato nel partito della Margherita.

Attualmente è deputato del Parlamento europeo, subentrato nell'aprile 2005 a Mercedes Bresso, eletta nel frattempo presidente della Regione Piemonte. Rivera era stato candidato alle elezioni europee del 2004 per la lista di Uniti nell'Ulivo nella circoscrizione nord-ovest, ricevendo 45 mila preferenze. Nel gruppo dei Non Iscritti, nel febbraio 2008 ha aderito al movimento politico centrista Rosa per l'Italia.

È membro della Commissione per il mercato interno e la protezione dei consumatori, nonché consigliere per le politiche sportive del Comune di Roma (dal 2001).

Il suo nome è stato fatto fra quelli candidabili alla presidenza della Federazione Italiana Giuoco Calcio dopo le dimissioni di Franco Carraro, avvenute a causa dello scandalo scoppiato nel calcio dopo le intercettazioni telefoniche su Luciano Moggi e le successive inchieste operate dalle Procure di Napoli e Torino.

Statistiche
Presenze e reti nei club
Fonte: MagliaRossonera.it [2]

Stagione Squadra Campionato Coppa Italia Coppe europee Altre coppe Totale
Comp Pres Reti Comp Pres Reti Comp Pres Reti Comp Pres Reti Pres Reti
1958-1959 Alessandria A 1 0 CI ? ? - - - - - - ? ?
1959-1960 A 25 6 CI ? ? - - - - - - ? ?
Totale Alessandria 26 6 ? ? - - - - ? ?
1960-1961 Milan A 30 6 CI 1 0 - - - Coppa Amicizia 2 0 33 6
1961-1962 A 27 10 CI 1 0 CdF 2 0 Coppa Amicizia - - 30 10
1962-1963 A 27 9 CI - - CC 7 2 Coppa Amicizia - - 34 11
1963-1964 A 27 7 CI 1 0 CC 2 1 CInt 2 0 32 8
1964-1965 A 29 2 CI - - CdF - - - - - 29 2
1965-1966 A 31 7 CI 1 0 CdF 4 1 - - - 36 8
1966-1967 A 34 12 CI 6 7 CM 2 0 Coppa Alpi 1 0 43 19
1967-1968 A 29 11 CI 5 3 CdC 10 1 - - - 44 15
1968-1969 A 28 3 CI 4 1 CC 7 2 - - - 39 6
1969-1970 A 25 8 CI 3 1 CC 3 2 CInt 2 1 33 12
1970-1971 A 26 6 CI 10 7 - - - - - - 36 13
1971-1972 A 23 3 CI 6 2 CU 8 4 - - - 37 9
1972-1973 A 28 17 CI 6 3 CdC 9 0 - - - 43 20
1973-1974 A 26 6 CI 5 1 CdC 6 0 SE 2 0 39 7
1974-1975 A 27 3 CI 4 0 - - - - - - 31 3
1975-1976 A 14 1 CI 5 1 CU 3 0 - - - 22 2
1976-1977 A 27 4 CI 7 0 CU 5 0 - - - 39 4
1977-1978 A 30 6 CI 5 1 CdC 1 0 - - - 36 7
1978-1979 A 13 1 CI 4 1 CU 5 0 - - - 22 2
Totale Milan 501 122 74 28 74 13 9 1 658 164
Totale 527 128 ? ? 74 13 9 1 ? ?

Cronologia presenze e reti in nazionale [modifica]
▼ espandi Cronologia completa delle presenze e delle reti in Nazionale - Italia
Data Città In casa Risultato Ospiti Competizione Reti Note
13/05/1962 Bruxelles Belgio 1 – 3 Italia Amichevole -
31/05/1962 Santiago del Cile Italia 0 – 0 Germania Ovest Mondiali 1962 - 1° Turno -
11/11/1962 Vienna Austria 1 – 2 Italia Amichevole -
02/12/1962 Bologna Italia 6 – 0 Turchia Qual. Euro 1964 2
12/05/1963 Milano Italia 3 – 0 Brasile Amichevole -
09/06/1963 Vienna Austria 0 – 1 Italia Amichevole -
13/10/1963 Mosca URSS 2 – 0 Italia Qual. Euro 1964 -
10/11/1963 Roma Italia 1 – 1 URSS Qual. Euro 1964 1
14/12/1963 Torino Italia 1 – 0 Austria Amichevole 1
11/04/1964 Firenze Italia 0 – 0 Cecoslovacchia Amichevole -
10/05/1964 Losanna Svizzera 1 – 3 Italia Amichevole 1
04/11/1964 Genova Italia 6 – 1 Finlandia Qual. Mondiali 1966 1
05/12/1964 Bologna Italia 3 – 1 Danimarca Amichevole -
13/03/1965 Amburgo Germania Ovest 1 – 1 Italia Amichevole -
18/04/1965 Varsavia Polonia 0 – 0 Italia Qual. Mondiali 1966 -
27/06/1965 Budapest Ungheria 2 – 1 Italia Amichevole -
01/11/1965 Roma Italia 6 – 1 Polonia Qual. Mondiali 1966 1
09/11/1965 Glasgow Scozia 1 – 0 Italia Qual. Mondiali 1966 -
07/12/1965 Napoli Italia 3 – 0 Scozia Qual. Mondiali 1966 -
19/03/1966 Parigi Francia 0 – 0 Italia Amichevole -
14/06/1966 Bologna Italia 6 – 1 Bulgaria Amichevole -
22/06/1966 Torino Italia 3 – 0 Argentina Amichevole -
29/06/1966 Firenze Italia 5 – 0 Messico Amichevole 2
13/07/1966 Sunderland Italia 2 – 0 Cile Mondiali 1966 - 1° Turno -
19/07/1966 Middlesbrough Corea del Nord 1 – 0 Italia Mondiali 1966 - 1° Turno -
22/03/1967 Nicosia Cipro 0 – 2 Italia Qual. Euro 1968 -
27/03/1967 Roma Italia 1 – 1 Portogallo Amichevole -
25/06/1967 Bucarest Romania 0 – 1 Italia Qual. Euro 1968 -
23/12/1967 Cagliari Italia 4 – 0 Svizzera Qual. Euro 1968 -
06/04/1968 Sofia Bulgaria 3 – 2 Italia Qual. Euro 1968 -
20/04/1968 Napoli Italia 2 – 0 Bulgaria Qual. Euro 1968 -
05/06/1968 Napoli Italia 0 – 0 dts URSS Euro 1968 - Semif. -
23/10/1968 Cardiff Galles 0 – 1 Italia Qual. Mondiali 1970 -
01/01/1969 Città del Messico Messico 2 – 3 Italia Amichevole -
29/03/1969 Berlino Est Germania Est 2 – 2 Italia Qual. Mondiali 1970 -
04/11/1969 Roma Italia 4 – 1 Galles Qual. Mondiali 1970 -
21/02/1970 Madrid Spagna 2 – 2 Italia Amichevole -
10/05/1970 Lisbona Portogallo 1 – 2 Italia Amichevole -
11/06/1970 Toluca Italia 0 – 0 Israele Mondiali 1970 - 1° Turno -
14/06/1970 Toluca Italia 4 – 1 Messico Mondiali 1970 - Quarti 1
17/06/1970 Città del Messico Italia 4 – 3 dts Germania Ovest Mondiali 1970 - Semif. 1
21/06/1970 Città del Messico Brasile 4 – 1 Italia Mondiali 1970 - Finale - 2° Posto
31/10/1970 Vienna Austria 1 – 2 Italia Qual. Euro 1972 -
20/02/1971 Cagliari Italia 1 – 2 Spagna Amichevole -
25/09/1971 Genova Italia 2 – 0 Messico Amichevole -
09/10/1971 Milano Italia 3 – 0 Svezia Qual. Euro 1972 -
20/09/1972 Torino Italia 3 – 1 Jugoslavia Amichevole -
07/10/1972 Lussemburgo Lussemburgo 0 – 4 Italia Qual. Mondiali 1974 -
21/10/1972 Berna Svizzera 0 – 0 Italia Qual. Mondiali 1974 -
13/01/1973 Napoli Italia 0 – 0 Turchia Qual. Mondiali 1974 -
31/03/1973 Genova Italia 5 – 0 Lussemburgo Qual. Mondiali 1974 1
09/06/1973 Roma Italia 2 – 0 Brasile Amichevole -
14/06/1973 Torino Italia 2 – 0 Inghilterra Amichevole -
29/09/1973 Milano Italia 2 – 0 Svezia Amichevole -
20/10/1973 Roma Italia 2 – 0 Svizzera Qual. Mondiali 1974 1
14/11/1973 Londra Inghilterra 0 – 1 Italia Amichevole -
26/02/1974 Roma Italia 0 – 0 Germania Ovest Amichevole -
08/06/1974 Vienna Austria 0 – 0 Italia Amichevole -
15/06/1974 Monaco Italia 3 – 1 Haiti Mondiali 1974 - 1° Turno 1
19/06/1974 Stoccarda Italia 1 – 1 Argentina Mondiali 1974 - 1° Turno -
Totale Presenze (23°posto) 60 Reti (19°posto) 14

Palmarès
Rivera con la Coppa Italia vinta nel 1977 dal Milan Club [modifica]
Competizioni nazionali
Campionato italiano: 3
Milan: 1961-1962, 1967-1968, 1978-1979
Coppa Italia: 4
Milan: 1966-1967, 1971-1972, 1972-1973, 1976-1977
Competizioni internazionali
Coppa dei Campioni: 2
Milan: 1962-1963, 1968-1969
Coppa delle Coppe: 2
Milan: 1967-1968, 1972-1973
Coppa Intercontinentale: 1
Milan: 1969
Nazionale
Campionato d'Europa: 1
1968
Individuale
Pallone d'oro: 1
1969
Capocannoniere della Serie A italiana: 1
1972-1973
Capocannoniere della Coppa Italia: 2
Coppa Italia 1966-1967 (7 gol)
Coppa Italia 1970-1971 (7 gol)
Curiosità
È citato nella canzone Nun te reggae più di Rino Gaetano.
napoletano
00sabato 7 novembre 2009 00:10
DIEGO ARMANDO MARADONA
IL CALCIO .
calciofilo
00sabato 7 novembre 2009 07:27
Re: DIEGO ARMANDO MARADONA
[POSTQUOTE][QUOTE:98732785=napoletano, 07/11/2009 0.10]IL CALCIO .[/QUOTE][/POSTQUOTE]


hai detto tutto
mauretto58
00venerdì 27 novembre 2009 20:30
MICHEL PLATINI
Nome: Michel Francois Platini
Data di nascita: 21 giugno 1955
Luogo di nascita: Joeuf (Francia)

Nota: sia i nonni che le nonne di Platini erano di origini italiane, esattamente di Agrate Conturbia, Novara, Piemonte.

Biografia

Successi e carriera

Michel Francois Platini, artista e genio del pallone, nasce il 21 giugno 1955 in Francia, a Joeuf. Michel è il secondo figlio della famiglia Platini, ristoratori di origini italiane. Il giovane Michel inizia a tirare i primi calci seguendo il papà Aldo, capitano della squadra del Jovincenne, nei suoi allenamenti e partite. Con il passar del tempo Michel affina la propria tecnica ed arriva a giocare in prima squadra presso il club di Joeuf. Poi, in pochi mesi il nome di Michel Platini è sulla bocca di tutti i migliori selezionatori.

Nel 1972 Platini passa al Nancy; calca i campi della massima serie francese per la prima volta nella stagione 1972/73, debuttando come ala sinistra nella partita del Nancy contro il Nimes. A soli 18 anni viene scelto come regista al centro del campo. Nel 1976 Platini debutta sulla scena internazionale: segna il suo primo gol con la maglia della nazionale francese il 27 marzo al Parco dei Principi, contro la Cecoslovacchia. Nello stesso anno è scelto per partecipare ai Giochi Olimpici di Montreal. Vince poi la Coppa di Francia con il Nancy, segnando il gol della vittoria contro il Nizza.

Michel Platini piace molto anche alle teenager transalpine, ma alla fine del 1977 procura loro un dispiacere: il 27 dicembre sposa una studentessa di economia, come lui figlia di genitori italiani. Dal loro matrimonio nasceranno due bambini. Il nome di Platini viene consacrato come talento internazionale quando nello stesso anno viene scritto al terzo posto della classifica per l'assegnazione del Pallone d'oro.

Partecipa ai Mondiali di calcio di "Argentina 1978", offrendo un saggio della sua immensa classe, ma non tutti i suoi compagni di squadra sono all'altezza del loro numero 10 e la Francia viene rapidamente eliminata dalla squadra di casa, che vincerà il titolo mondiale.
Il 31 maggio 1979, il Re del calcio piazzato, così chiamato per le sue micidiali e precisissime punizioni, gioca la sua ultima partita con il Nancy, segnando due gol contro il Lille; firma il contratto con il Saint-Etienne.

Nel 1981 ottiene per la prima volta il titolo di campione di Francia in occasione dell'ultima partita di campionato contro il Bordeaux; il risultato finale è di 2-0, Platini è l'autore delle due reti: un eroe per la città. Nel 1982 guida la Francia al quarto posto del Mondiale spagnolo, rivelandosi uomo partita nella tremenda semifinale persa contro la Germania Ovest a Siviglia.

Dopo aver brillato durante la competizione mondiale spagnola, il numero 10 della Francia viene ingaggiato dalla Juventus, scelto da Gianni Agnelli in persona proprio per la "fantasia" che il francese sa esprimere. Michel Platini passa alla Juventus per 880 milioni di Lire, per due anni. Alla firma del contratto il francese insiste su un solo punto: restare disponibile al 100% per la nazionale francese. Alla sua prima stagione 1982/83 il vero Platini non si vede ancora: non sono momenti facili. In breve la squadra bianconera perde lo scudetto contro la Roma, e la finale di Coppa Campioni (dopo dieci anni dall'ultima) contro l'Amburgo. Platini e la Juventus possono consolarsi con la Coppa Italia ed il titolo di miglior giocatore d'Europa: Platini vince il suo primo "Pallone d'Oro".

Il 1984 è l'anno della rivincita; con la Juventus ottiene la sua prima incoronazione europea nella finale della Coppa delle Coppe contro l'Oporto (2-1), vince ancora il "Pallone d'Oro" e vince il campionato italiano, considerato il più difficile del mondo, scalando la classifica capocannonieri.
I tifosi juventini impazziscono per il nuovo Re. Ma il 1984 non è ancora finito: non sazio la Francia, si aggiudica gli Europei, giocati in casa.
Il 1985 è un altro anno carico di successi, ma nello stesso tempo pieno di tristezza. Il 29 maggio grazie a un rigore di Platini la Juventus è sul tetto d'Europa, vincendo la Coppa dei Campioni, ma della serata allo stadio Heysel di Bruxelles, più di tutto rimarrà ai posteri la cronaca della tragedia che ha portato diverse morti, provocate da scontri tra le tifoserie e dalla frana di una parte dello stadio.

Alla fine della stagione 1985, in Italia è per la terza volta consecutiva miglior cannoniere del campionato. Ma ancor più straordinario è il risultato internazionale: per la terza volta consecutiva "Pallone d'Oro". Un vero record, per un vero fuoriclasse. Platini è adulato dai fan e ammirato dagli avversari. La sua fama supera ogni frontiera e il suo nome viene accostato a quello di altre leggende del calcio del passato, come Pelé o Beckenbauer.

Nel 1986, dopo la vittoria con la Juventus a Tokyo della Coppa Intercontinentale, si aggiudica il suo secondo scudetto con la compagine bianconera e gioca il suo terzo Mondiale in Messico; sarà proprio la Francia di Platini ad eliminare l'Italia, campione in carica.

Il 17 maggio 1987, dopo una partita contro il Brescia presso lo Stadio Comunale di Torino, Michel Platini annuncia il suo ritiro. Un mese più tardi lascia anche la nazionale francese, dopo aver collezionato 72 presenze.

Crea la "Fondazione Michel Platini" di cui è Presidente. L'organizzazione ha l'obiettivo di aiutare i tossicodipendenti. Il 23 marzo 1988, un anno dopo la sua ultima partita con la maglia della Juventus, Platini organizza la sua partita di addio. Allo stadio Marcel Picot di Nancy, scende in campo una rara concentrazione di stelle: per la prima volta Pelé, Maradona, Beckenbauer, Tardelli, Boniek, Zoff vestono la stessa maglia.

Quattro mesi dopo, il giovane pensionato viene chiamato per assumere la funzione di vicepresidente dell'AS Nancy, poi chiamato nel novembre del 1988 alla guida tecnica della nazionale francese, ma la mancata qualificazione agli europei del 1992 ed il susseguirsi di polemiche spingono l'eroe francese a lasciare l'incarico per diventare Presidente del comitato organizzatore dei mondiali di Francia 1998.

Oltre ai piedi d'oro Platini possiede ancora oggi una schiettezza - per alcuni, "faccia tosta" - unita ad una grande sportività, qualità che, insieme al suo grande amore per il calcio, gli hanno permesso di vivere una splendida carriera come dirigente e organizzatore.

mauretto58
00venerdì 27 novembre 2009 20:32
RUUD GULLIT
Biografia
Nome e cognome Ruud Gullit
Nato a Paramaribo, Suriname
Data di nascita 1 settembre 1962
Nazione Olanda
Altezza 191 cm
Peso 88 kg
Piede preferito destro
Numero maglia 10
Soprannome Tulipano nero

Biografia di Ruud Gullit

Ruud Gullit, soprannominato "tulipano nero", è stato un celebre giocatoreolandese del Milan e della nazionale orange. In Italia ha militato anche nella Sampdoria. Dopo l'esperienza italiana si trasferì in Inghilterra al FC Chelsea di Londra dove per due stagioni - dal 1996 al 1998 - ha ricoperto la doppia carica di allenatore e giocatore. Con la squadra rossonera, vinse due coppe campioni, due supercoppe europee e due coppe intercontinentali, oltre al pallone d'oro conquistato nel 1987.

La sua indiscutibile prestanza fisica, unita ad una resistenza straordinaria e ad una condizione atletica sempre ottimale, colmava delle lacune tecniche che alcuni critici hanno talvolta riscontrato in lui (sebbene sia da ricordare un suo goal messo a segno quando militava nel PSV Eindhoven, ottenuta con una giocata di rara bravura: un lancio a seguire non verso un compagno in posizione avanzata ma destinato a se stesso).

Gullit ha formato una coppia di centrocampo di straordinario valore con il compagno di squadra - sia nel Milan che in nazionale olandese - Frank Rijkaard.

È stato senza dubbio tra i giocatori più amati dell'epopea rossonera degli anni '80-'90 collegata al periodo dell'allenatore Arrigo Sacchi.

Un grande, fuori e dentro il campo

Ruud Gullit con la nazionale olandese, nella finale dei Campionati europei del 1988
Pallone d'oro nel 1987. Ruud Gullit nasce in Olanda l'1 settembre 1962, figlio di un calciatore, sostiene a 16 anni un provino per l'Ajax, senza successo. Debutta l'anno consecutivo in prima divisione olandese nella formazione dell'Haarlem: in tre stagioni partecipa a 91 partite e segna 32 reti. Passa quindi al Feyenoord, squadra in cui militerà fino al 1985, segnando 30 gol in 85 gare e vincendo lo scudetto e la Coppa olandese nel 1984. La sua ascesa da qui in avanti è rapida e dà inizio a una carriera costellata da grandi successi.

Nel 1985 viene acquistato dal PSV Eindhoven e in due stagioni, con 68 presenze all'attivo e 46 reti, vince due campionati, si aggiudica l'ambito riconoscimento del Pallone d'oro e diventa l'incontrastato punto di forza della squadra nazionale olandese. Nel 1987, chiamato dal Milan, giunge in Italia e il suo arrivo desta grande interesse.

Il primato della simpatia
Subito colpisce l'eccentricità del personaggio: capelli lunghi con treccine alla Bob Marley, sorriso pronto, estrema disponibilità, commenti ironici e sdrammatizzanti davvero poco comuni in un ambiente come quello del calcio italiano, a volte troppo serio. Gullit non delude e gioca una stagione entusiasmante imponendosi, con 29 presenze e 9 reti all'attivo, come uno dei giocatori chiave del Milan di Sacchi. Centrocampista tecnicamente molto dotato, potente nel fisico e nella corsa, inarrestabile quando con palla al piede si lancia verso le difese avversarie, possiede anche una spiccata personalità, in grado di tenere unita la squadra e trascinarla anche nei momenti difficili. Il suo primo anno in Italia si conclude nel migliore dei modi: il Milan vince il campionato dopo un appassionante duello con il Napoli di Maradona.


Ruud Gullit con la maglia del Milan - Campione d'Europa
Il 1988 ha in serbo altre soddisfazioni per il “tulipano nero”: agli Europei la Nazionale olandese si qualifica per la finale contro l'URSS. Gullit, già grande protagonista del torneo, mette la sua firma anche sull'incontro decisivo. È il 33' quando Van Basten fa da torre e gli serve in area una palla alta: il suo stacco di testa è perentorio e non lascia scampo a Dassaev. È il gol che, insieme al successivo di Van Basten, consegna all'Olanda il titolo di campione d'Europa. Nei due anni successivi Gullit vince con la maglia del Milan due Coppe dei Campioni, nonostante un brutto incidente al ginocchio lo tenga fuori squadra per parecchio tempo.

Nel 1993, dopo sei stagioni in rossonero, viene acquistato dalla Sampdoria dove si riconferma grande punto di forza della squadra, in grado di ribaltare, a volte in extremis, situazioni compromesse. Segna 16 gol in 31 partite e accompagna la squadra fino al quarto posto in campionato. Questi risultati convincono il Milan a richiamare Ruud: il 1994 inizia infatti con Gullit in maglia rossonera. Ma l’idillio tra Milan e il campione olandese è definitivamente concluso: dopo solo 8 partite il club di Silvio Berlusconi cede definitivamente Gullit alla Samp.


Ruud Gullit nei panni di allenatore del Chelsea - L’avventura inglese

Al termine della stagione Ruud Gullit lascia l’Italia, per intraprendere una nuova avventura in terra inglese. Nel 1995 gioca nel Chelsea come libero, ruolo nel quale aveva iniziato la carriera. Nel 1996 Glen Hoddle, allenatore del Chelsea, diventa il coach della nazionale inglese e Ruud prende il suo posto nella squadra Londinese. Il doppio ruolo di giocatore e allenatore si addice particolarmente all’olandese: Gullit trascina il Chelsea alla conquista della prestigiosa FA Cup. Diventa così il più giovane allenatore ad aver vinto questo trofeo.

Dopo questo trionfo Gullit decide di dedicarsi a tempo pieno al mestiere dell’allenatore. Lascia il Chelsea, ingaggiato come coach da un’altra squadra inglese: il Newcastle. Ma questa esperienza comincia malissimo: il Newcastle guadagna solo un punto nelle prime cinque partite. Gullit è costretto a dare le dimissioni, messo alle strette dalla stampa e dalla squadra, con la quale non riesce a instaurare buoni rapporti.

Un oro dedicato a Mandela

Ma Ruud Gullit non è solo un grande calciatore, è anche un uomo impegnato in battaglie a sfondo sociale. È iscritto alla Fondazione Anna Frank e in più di un'occasione, sfruttando la propria popolarità, è sceso in prima linea per far risuonare una voce contro il razzismo nel mondo e in particolare contro l'apartheid in Sudafrica. Compatibilmente con gli impegni professionali, suona in un complesso olandese e ha devoluto all'Unicef gli incassi dei due dischi registrati. Nel 1987 ha dedicato il Pallone d'oro a Nelson Mandela.

Una carriera costellata di titoli

Campionato olandese: 1984,1986,1987.
Coppa Olanda: 1984.
Campionato italiano: 1988,1992, 1993.
Coppa Italia: 1994.
Coppa dei Campioni: 1989, 1990.
Super coppa europea: 1989, 1990.
Coppa intercontinentale: 1989, 1990.
Campionato europeo: 1988.
FA Cup: 1997.
Pallone d'oro: 1987.
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